Dagli Czars alla carriera solista
Storia come tante nel mondo della musica rock, quella degli Czars: partiti giovanissimi da Denver in cerca di successo e riconoscimenti, nonostante un discreto seguito di culto e il convinto supporto di Simon Raymonde della Bella Union, non riuscirono mai a compiere quel salto di qualità necessario a lasciare il segno. Tra dissidi, litigi, problemi di ego e abusi di droghe e alcol, la band nel 2005 si dissolse nel nulla, lasciando come pregevole eredità sei album, un Ep, qualche canzone di assoluta bellezza, e soprattutto l’inconfondibile voce - calda, profonda e commovente - del loro leader e cantante: John Grant.
Dopo il definitivo scioglimento, il tormentato John (nato a Denver, Colorado, nel 1968) si trasferì a New York e, nella speranza di esorcizzare i propri demoni e di non gettare al vento quanto di buono aveva costruito sino allora, suonò in giro per gli States come supporto a grandi nomi del rock alternativo, fra i quali Flaming Lips e Midlake. Proprio i texani Midlake, incantati dai brani che Grant presentava dal vivo, decisero che sarebbe stato un vero crimine se le nuove composizioni fossero rimaste sconosciute a un pubblico più vasto. Per contribuire fattivamente alla "redenzione" (quantomeno musicale) del talentuoso cantante, la band lo invitò a Denton. Nelle pause della lavorazione del nuovo disco dei Midlake, John ebbe così l’opportunità di incidere il proprio esordio solista, con la coproduzione di Paul Alexander ed Eric Pulido, basso e chitarra della band texana.
L'esordio che conquista pubblico e critica
Registrato in pochi mesi e suonato da tutta la band di Austin, Queen Of Denmark è il risultato di questo sforzo congiunto: emozionante e sfrontato, cinico e doloroso, racchiude tutto il talento e la poetica che il musicista del Colorado ha sempre dimostrato di padroneggiare, senza mai riuscire - sino a quel momento - a esprimere compiutamente. Se tutti gli album degli Czars, anche quelli più riusciti, risultavano pletorici ed eccessivamente statici, per il suo primo tentativo da solista Grant evitò il trabocchetto di puntare tutto sulle ballad, genere che più si confà alla sua voce baritonale: a canzoni malinconiche e accorate alternò brani più solari e vivaci, alla ricerca di quell'equilibrio che in precedenza gli era mancato. La voce di Grant si arricchisce di nuove sfumature e acquisisce una pulizia cristallina, ponendosi come elemento determinante dell'intero album. Non è quindi un caso se l'apertura viene consegnata a tre movimenti slow da brividi, l'intenso e malinconico folk-rock di "TC And Honeybear", dove la sua voce si intreccia con quella di un soprano, il successivo "I Wanna Go To Marz", brano già rodatissimo dal vivo che acquista nella dimensione in studio un'intensità inusitata, per terminare con una delle vette dell'intero lavoro, "Where Dreams Go To Die", una ballata dal sapore seventies al tempo stesso appassionante e drammatica, senza mai essere stucchevole o kitsch.
Uno dei maggiori pregi di Queen Of Denmark è la capacità mostrata da Grant di cambiare registro: nascono così brani come "Sigourney Weaver" o "Chicken Bone", che si distinguono per le ritmiche più sostenute e per il sarcasmo che traspare dai testi e dall'interpretazione. Così si passa con grande proprietà di mezzi dal ragtime di "Silver Platter Club", arricchito dall’accompagnamento dei fiati, a canzoni perfette per l’Fm degli anni Settanta ("Outer Space"). Grant e i Midlake riservano a ogni spunto le medesime cure e attenzioni: gli abiti di ogni traccia vengono forgiati in maniera sfarzosa, elegante, cuciti con perizia, senza trascurare alcun dettaglio. Fra i solchi si incontrano un incantevole piano che, in brani come "Caramel" o l'elegiaca title track, punta diritto al cuore (il fantasma del miglior Elton John è dietro l'angolo), il flauto del frontman dei Midlake, Tim Smith è pronto a punteggiare i passaggi più sognanti, i synth vintage à-là Elo conferiscono all’insieme un mood manifestamente seventies, tanto nei momenti più sostenuti (la già citata "Sigourney Weaver") che in quelli più sensuali e malinconici ("It's Easier"), fino al dolce e delicato violino che spesso addolcisce e riscalda l'atmosfera, come accade nella voluttuosa "Leopard And Lamb", o in "Where Dreams Go To Die", dove il country di Patsy Cline (uno degli idoli di infanzia di John) sposa Peter Hammill.
Le canzoni di Queen Of Denmark raccontano il disagio di essere un giovane omosessuale in uno sperduto paese della provincia americana, circondato da bigotti e osteggiato dalla famiglia di origine ("I've felt uncomfortable since the day that I was born...", canta Grant nel brano esplicitamente titolato "JC Hates Faggots"), del desiderio di essere qualcun altro, di incontri d'amore e di sesso casuale, di paradisi artificiali e sogni fanciulleschi. Ogni argomento viene affrontato con sarcasmo, grazia, rabbia e sventatezza, lasciando alle spalle ogni ipocrisia e ignorando volutamente il rischio che tali tematiche possano originare eventuali censure. Facile sarebbe stato per Grant cadere nel cliché, imperniando l’intero lavoro su languide ballate strappalacrime o sfruttando quale esclusivo fil rouge la discesa agli inferi che ha caratterizzato parte della sua vita. Fortunatamente l'artista americano rifugge dai triti stilemi del genere e confeziona un progetto sincero e appassionato, nel quale non viene lasciato spazio per l'autocommiserazione e la disperazione. Un album che sembra più vicino alla redenzione che alla definitiva caduta del suo protagonista.
La svolta elettronica
Dopo il successo unanime di critica e pubblico riscosso da Queen Of Denmark, nel 2013 è il turno dell’altrettanto riuscito, e forse ancor più ambizioso Pale Green Ghosts, l’attesissimo secondo capitolo del John Grant solista. L’ex-leader degli Czars ha deciso di recarsi sino in Islanda per registrare il seguito del suo esordio, alla ricerca del giusto isolamento. L’obiettivo è confermare quanto di buono si è detto e scritto su colui che va imponendosi come una delle firme più autorevoli del cantautorato mondiale contemporaneo. E il risultato è assolutamente stupefacente. Questa volta Grant ha scelto di condividere la produzione con Biggi Veira dei GusGus, l’architetto di quei landscape electro in grado di spostare l’asse della scrittura di John dal Texas bucolico di Queen Of Denmark ai fervori più europei di queste coinvolgenti undici tracce. Grant è un autore che non intende confortare, bensì raccontare i momenti disperati che possono caratterizzare un’esistenza. Un uomo che ha vissuto nel corso della propria vita situazioni molto difficili, compresa la recente scoperta della propria sieropositività, resa pubblica attraverso una confessione-choc durante un concerto tenuto nel 2012 al Meltdown Festival. Certi stati d’animo, tutt’altro che euforici, vengano riversati nel suo songwriting, arricchito questa volta da arrangiamenti nei quali si staglia imperiosa un’elettronica mai banale. Il folk-rock malinconico di "Denmark" resta tale, ma qui acquisisce nuova forza, liberandosi dagli eccessi di sobrietà, e trasferendosi persino nel dancefloor con l’inusuale “Blackbelt”, dove Grant sposa suoni ballabili con un testo tutt’altro che disimpegnato. Soluzione volutamente ricca di (apparenti) contraddizioni che si dimostrano veri e propri spiazzanti colpi di genio. Lo stratagemma si ripresenta in “Sensitive New Age Guy”, dedicata alla memoria di un amico tragicamente scomparso, e nel synth-pop di “You Don’t Have To”, altro caso nel quale su tappeti da dance club vengono cucite parole che sanno di solitudine e dipendenza (“I needed lots of booze/ To handle the pain”).
La chiave del disco passa attraverso la perfezione formale di “GMF”, il rotondo instant classic che resterà scolpito nella discografia del cantautore, ma molte sono le dolenti perle disseminate lungo il percorso, fra le quali meritano citazione almeno le centrali “It Doesn’t Matter To Me” (straordinaria loser song sull’impossibilità di conquistare il proprio lui) e “Why Don’t You Love Me Anymore?”, ulteriormente nobilitate dalla presenza ai cori di un’altra anima eternamente combattuta, Sinead O’Connor. Non sono da meno la sofferenza di “Vietnam”, le screziature avant-jazz di “Ernst Borgnine” (dove Grant con toccanti versi racconta della sua sieropositività), la più tradizionale “I Hate This Town”, il fascino decadente dell’iniziale title track, riferita agli alberi su una strada che John percorreva spesso in Colorado, metafora rappresentativa dei fantasmi personali del passato. Grant non usa giri di parole, va sempre dritto al cuore del discorso, e con Pale Green Ghosts ci indirizza un invito esclusivo al proprio buio capezzale, concedendoci il privilegio di ascoltare e condividere i suoi racconti disillusi e tormentati. Le note che chiudono “Glacier”, tenue ballad per piano e archi concepita osservando un paesaggio islandese, sono il degno epilogo del lavoro che ha confermato l’astro (e l’estro) del musicista americano. Un’ora di grande musica dove non c’è nulla di superfluo, il risultato di una perfetta alchimia elettro-cantautorale costantemente a cavallo fra melodramma e (vana) speranza di redenzione. Un piccolo gioiello costruito da un meraviglioso perdente.
A ottobre 2015 viene pubblicato il terzo album solista, Grey Tickles, Black Pressure, che vede la partecipazione di Tracey Thorn degli Everything But The Girl (nel duetto "Disappointing") Amanda Palmer dei Dresden Dolls e Budgie, il batterista di Siouxsie & The Banshees. Meno dolente del predecessore, Grey Tickles lascia intatto il mix di elettronica e cantautorato elettro-acustico, oramai riconoscibile trademark del songwriter americano.
A volte confidenziale ("Global Warning") o immerso in atmosfere decadenti ("No More Tangles"), Grant sceglie più spesso del solito una via moderatamente aggressiva ("Guess How I Know") o comunque rock oriented ("You And Him"), lasciando spazio anche a qualche deriva marzial-wave ("Black Blizzard") e rotondamente alt-pop ("Down Here"). Con questo lavoro John Grant si conferma una volta di più come uno dei prototipi del moderno cantautore, completamente immerso nel proprio tempo sia per gli aspetti testuali che per gli arrangiamenti rivolti al presente. Uno dei più illuminati ed ispirati della sua generazione.
Nel 2018 l'accostamento tra il vocione di John Grant e la musica elettronica non fa più notizia. A sentire tutto quanto Grant ha prodotto dal 2013 in poi, non fa meraviglia sentirgli dichiarare amore incondizionato per l’industrial e la minimal wave della Sheffield dei tardi anni settanta, con particolare riguardo per i Cabaret Voltaire. Non sorprende quindi lo start up del progetto Creep Show, condiviso con Stephen Mallinder, già voce e basso nei Cabaret Voltaire. A completare la formazione ci sono Benge e Phil Winter, compagni di Mallinder nei Wrangler. L'iniziale title track si presenta come un ribollio di synth analogici rubati a chissà quale rigattiere e voci filtrate impegnate in un continuo cabaret non sense. Durante l'intero svolgimento di Mr. Dynamite le stramberie non mancano, come quando Mallinder dialoga in giapponese con la voce automatica della metro di Tokyo in ”Tokyo Metro”.
Più misurati i momenti dove a comandare sono i toni caldi e densi della voce di Grant, come nel caso di “Modern Parenting”, che sfocia in un finale di coretti pop al femminile, oppure della conclusiva “Safe And Sound”, un pezzo che non ci saremmo stupiti di trovare nel suo recente catalogo solista. Il sale del lavoro è nel confronto tra i modus dei due protagonisti, quello composto e suadente di Grant) e quello mascherato, frammentato e schizoide di Mallinder. Il disco si presenta affascinante, pur mancando di mordente in alcuni frangenti (“K Mart Johnny”, “Lime Ricky”) che, essendo privi di spunti melodici interessanti o di particolari sussulti, ne riducono l'impatto estetico.
Il 12 ottobre 2018 John Grant torna con il quarto lavoro solista, di nuovo su Bella Union: Love Is Magic. L’album parte in maniera (volutamente) controversa, spiazzando l’ascoltatore attraverso l’approccio quasi cabarettistico che permea lo stream of consciousness di “Metamorphosis”, tanto densa di spunti da apparire quasi confusa. Proseguendo l’ascolto, Love Is Magic si rivela un disco bifronte: da un lato intende agganciarsi con prepotenza a certi suoni sintetici di derivazione eighties, dall’altro mantenere con forza il legame al songwriting tradizionale espresso da Grant. Ebbene: sono i brani dal taglio synth-pop (“Preppy Boy”, “He’s Got His Mother’s Hip”, “Diet Gum”) ad apparire musicalmente come i meno convincenti, eccezion fatta per il finale di “Tempest”, vera e propria battaglia electro.
Meglio quando Grant affida la propria scrittura a tappeti meno invadenti, come nell’egregia “Smug Cunt”, attraverso la quale si iscrive ufficialmente al club Anti Trump, virando verso un’estetica più wave. Sul medesimo mood si muove la title track, così come la parte conclusiva dell’album, affidata a temi marcatamente più slow. A trionfare sono sempre melodia e spessore dei temi trattati, scandagliando con fare confidenziale le dinamiche derivanti da relazioni amorose: non solo cuoricini e arcobaleni – come il titolo del disco potrebbe ingannevolmente far presumere - bensì uno scrigno denso di difficoltà da affrontare.
Alla luce di quanto detto, il miglior modo per esprimere in futuro il talento compositivo e l’oramai inconfondibile tono baritonale di Grant potrebbe essere quello di tornare alla semplicità folk-rock delle radici? Direi di no, visto che il mix di sperimentazione e giocose contaminazioni da lui proposto si è rivelato in questi anni come assolutamente personale e riconoscibile. Il suo stile è diventato un marchio di fabbrica, e lo ha imposto come protagonista nella propria nicchia di riferimento. Il che costituisce uno dei migliori risultati fin qui conseguiti dal musicista di Denver, ampiamente confermati anche fra i solchi di questi nuovi dieci quadretti, a cavallo fra umorismo, passione, seduzione e introspezione.
Ad aprile 2019 cinque versioni remix vengono raccolte nell'Ep Remixes Are Also Magic. Si tratta di "Preppy Boy", "Touch And Go", "Grey Tickles, Black Pressure", "Voodoo Doll" e "Black Blizzard". Revisioni che nulla aggiungono al bagaglio artistico fin qui espresso da John Grant.
Boy From Michigan (2021) saluta l’ingresso di Grant nel mondo adulto. All’età di 52 anni il musicista trova la forza per volgere lo sguardo al passato senza dove essere necessariamente mordace e spiritoso, per uscire allo scoperto affidando alla sincerità dei testi il personale mondo di luci e ombre. L’album è anche il frutto di una collaborazione imprevista, John e la sua amica Cate Le Bon si sono ritrovati in quel di Reykjavik bloccati dalla pandemia, due mesi di registrazioni hanno infine dato vita all’album più completo dell’ex-Czars.
Definito dall’autore come "la trilogia del Michigan", il trittico iniziale è non solo fortemente autobiografico ma anche musicalmente intenso e avvincente. Gli otto minuti della title track alternano inquietudini e riflessioni, mentre synth e drum machine duettano con l’evocativo suono del sax, aprendo la strada a una delle melodie più ariose e ardenti del disco, “County Fair”. Conclude il trittico una delle canzoni più sofferte ,“The Rusty Bull”, un algido synth-pop dai toni industrial che mette a nudo paure infantili, simbolicamente riassunte in una scultura di metallo raffigurante un Minotauro, una statua che John vide da bambino e che ne ha turbato i sogni insieme ai primi timori legati alla omosessualità.
Liberati i fantasmi del passato, il musicista si tuffa a corpo libero nelle braccia del romanticismo più sensuale: il piano conduce le danze di “The Cruise Room”, mentre il suono del clarinetto e del synth lasciano le sonorità in bilico tra passato e presente. Spetta invece all’elettronica da film a luci rosse tenere a bada le voyeuristiche e carnali figurazioni di “Mike And Julie”: una storia di sesso occasionale dove Grant sfrutta l’avvenenza femminile di un’amica per stimolare l’attenzione di un uomo.
Il nuovo album del musicista americano è il ritratto di un uomo non solo volitivo, ma anche politicamente e socialmente sensibile, non è un caso che le note di synth più aspre siano quelle di “Your Portfolio”, un feroce attacco al consumismo made in Usa, ed è sprezzante il contrasto tra il romanticismo retrò di “The Only Baby” e la perfida raffigurazione di Trump come figlio bastardo della statua della libertà.
Anche quando la musica devia verso la sfuggente insensatezza di “Rhetorical Figure” e la leggerezza euro-disco di “Best In Me”, è evidente che la metamorfosi di Grant sia in uno stato avanzato, ma ben lungi dall’essere completata: Boy From Michigan è il primo atto di una rivelazione ancora tutta da svelare. Grant ha ulteriormente affinato il modo di raccontare e raccontarsi, anche quando l’emotività sembra sfuggire verso la prevedibilità (“Just So You Know”), la musica è incantevole (“Dandy Star”).
Mai così franco e diretto, il musicista mette insieme una serie di canzoni liricamente impressionanti, nelle quali l’intensità delle melodie va di pari passo con il disprezzo ed il terrore che Grant prova nei confronti della madre patria (ha lasciato l’America per andare a vivere in Islanda). A suo modo sfarzoso, Boy From Michigan è mitigato da una produzione brillante (Cate Le Bon) e da una voce unica, abile nello scandire ogni parola con una profondità e un’autenticità che non lasciano molto spazio al dubbio.
Quando le delicate note di “Billy” fanno calare il sipario, Grant prende per mano l’ascoltatore: l’invito a non restare vittime della mascolinità tossica, l’esortazione a trovare il coraggio di affermare la propria fragilità è il messaggio finale di un album poetico e viscerale. Un inatteso ritorno alla forma per un artista che, al pari del solo Sufjan Stevens, è riuscito a raccontare i tanti dolori e le poche gioie del sogno americano.
Ed è con egual consapevolezza e maturità che l'artista ritorna in scena con
The Art Of The Lie. Dopo Cate Le Bon tocca a Ivor Guest stare in regia, una scelta determinata dalla passione condivisa da John e Ivor per
Brigitte Fontaine. I temi dell'album sono quelli ricorrenti - smarrimento, perdita di affetti familiari e rigurgiti razzisti ed omofobi - anche l'equilbrio tra chamber folk ed elettronica in chiave funky-dance è simile, ma innegabilmente questo è uno dei set più convincenti di John Grant: “The Child Catcher” e “Meek AF” ne sono valido esempio. Il ricorrente uso del vocoder assume una connotazione ben diversa da quella puramente musicale, la voce filtrata di John Grant non sembra appartenere a quel futuro tecnologico che l’uso del vocoder evoca, quanto ad un eco malinconico di un passato ormai scomparso. Anche l’anticipazione affidata al singolo “It’s A Bitch” e alle affini pulsioni funky di “All That School For Nothing” è in parte fuorviante, i testi non solo sono taglienti e fortemente politici ma molto più verbosi e complessi della moderna semplificazione mainstream.
Le oscure trame di synth e
drum machine e la carezzevole melodia di “Marbles” creano un immaginario ponte tra passato e presente mentre “Father” e "Mother And Son" approfondiscono il tema dei controversi rapporti familiari con melodie memorabili e seducenti e mettono a segno un trittico memorabile.
The Art Of The Lie in fondo non si discosta da quanto finora prodotto dal musicista americano, queste undici nuove canzoni sono l'ennesima profonda riflessione sulla caducità degli affetti, ma anche le più ricche di humour e disincanto del musicista americano.
Contributi di Francesco Amoroso (“Queen Of Denmark”), Gianfranco Marmoro ("Boy From Michigan", "The Art Of The Lie")