Ci sono due aspetti per i quali “Love Is Magic”, il quarto lavoro del dopo-Czars di John Grant, fallisce il bersaglio: anzitutto nel conclamato obiettivo di delineare una moderna via (elettronica) al classic songwriting, intento che soccombe non solo al cospetto di “Pale Green Ghosts”, l’album con il quale John inaugurò tale ibridazione, ma anche nel confronto con più avventurosi lavori coevi, fra i quali è impossibile evitare la citazione dei Low di “Double Negative”, in grado – al contrario - di fissare nuovi standard di riferimento. D’altro canto, non riesce nemmeno a imporsi come manifesto idealista dell’attuale scena queer, surclassato dalle più carismatiche prestazioni – tanto per restare nell’ambito di artisti che tendono a ottenere una certa visibilità “mainstream” – delle signorine St. Vincent e Anna Calvi.
L’album parte in maniera (volutamente) controversa, spiazzando l’ascoltatore attraverso l’approccio quasi cabarettistico che permea lo stream of consciousness di “Metamorphosis”, tanto densa di spunti da apparire quasi confusa. Proseguendo l’ascolto, “Love Is Magic” si rivela un disco bifronte: da un lato intende agganciarsi con prepotenza a certi suoni sintetici di derivazione eighties, dall’altro mantenere con forza il legame al songwriting tradizionale espresso da Grant. Ebbene: sono i brani dal taglio synth-pop (“Preppy Boy”, “He’s Got His Mother’s Hip” – strizzatina d’occhio verso Lcd Soundsystem - e l’insolente “Diet Gum”) ad apparire musicalmente come i meno convincenti, eccezion fatta per il finale di “Tempest”, vera e propria battaglia electro.
Appaiono troppe le digressioni strumentali utilizzate per "riempire" il disco: serve davvero portare così tante tracce oltre i sei minuti? Meglio quando Grant affida la propria scrittura a tappeti meno invadenti, come nell’egregia “Smug Cunt”, attraverso la quale si iscrive ufficialmente al club anti-Trump, virando verso un’estetica più wave. Sul medesimo mood si muove la title track, così come la parte conclusiva dell’album, affidata a temi marcatamente più slow. A trionfare sono sempre melodia e spessore dei temi trattati, scandagliando con fare confidenziale le dinamiche derivanti da relazioni amorose: non solo cuoricini e arcobaleni – come il titolo del disco potrebbe ingannevolmente far presumere - bensì uno scrigno denso di difficoltà da affrontare.
Alla luce di quanto detto, il miglior modo per esprimere in futuro il talento compositivo e l’ormai inconfondibile tono baritonale di Grant potrebbe essere quello di tornare alla semplicità folk-rock delle radici? Direi di no, visto che il mix di sperimentazione e giocose contaminazioni da lui proposto si è rivelato in questi anni come assolutamente personale e riconoscibile. Il suo stile è diventato un marchio di fabbrica, e lo ha imposto come protagonista nella propria nicchia di riferimento. Il che costituisce uno dei migliori risultati fin qui conseguiti dal musicista di Denver, ampiamente confermati anche fra i solchi di questi nuovi dieci quadretti, a cavallo fra umorismo, passione, seduzione e introspezione.
16/10/2018