E' un percorso dai risvolti tutto sommato simili quello che ha visto protagonista John Grant, giunto con “Pale Green Ghosts” al suo secondo appuntamento solista.
E l'appuntamento, dall'annuncio avvenuto lo scorso dicembre, aveva già acquisito un po' il sapore del piccolo evento, per un cantautore giunto alla consacrazione a seguito di un “Queen Of Denmark”, che aveva ricevuto il plauso unanime di critica e pubblico. Indubbiamente, davanti all'ex-frontman dei Czars si poneva una sfida non da poco, nel dare un seguito a un lavoro dalla grande intensità lirica e forte di un così largo consenso. A scapito però di ogni possibile aspettativa, il nuovo disco dell'autore di Denver avverte la necessità di esprimersi con linguaggi diversi, quando non proprio spiazzanti, ed è alquanto probabile che i delusi a questo giro saranno davvero tanti.
In questo suo sophomore Grant non esita infatti a gettare nuovi ponti verso quelle pulsioni che la Regina di Danimarca aveva soltanto lasciato intuire, ma che invece hanno rivestito un ruolo da comprimarie nella sua personale formazione, di musicista e non soltanto. In questo senso, la linea che si viene a tracciare rispetto alla sua precedente produzione solista calca con maggiore determinazione la dicotomia venutasi a creare tra l'accorata malinconia folk-rock dell'esperienza coi Midlake e l'indomita passione per il lato più sintetico della sua indole musicale, già lasciato esplodere nei brani aggiuntivi a chiusura dell'edizione deluxe del disco. In tal modo, quel succitato easy listening dell’era di transizione viene evocato con ancora maggiore incisività.
Elton John, i Bread, i Supertramp, gli Electric Light Orchestra, ma anche gli Eurythmics fanno capolino nella scrittura di Grant, che non ha rinunciato al suo sagace lirismo; il lato malinconico della sua arte sorride a Kate Bush e ai Cocteau Twins, ora però veste i panni dell’elettronica degli Ultravox e dei Depeche Mode, passando anche, udite udite, dalle parti di Giorgio Moroder.
Un namedropping senz'altro poderoso, zeppo di personaggi che hanno fatto la storia della popular music nel corso dei decenni, e che bene o male finiscono per essere richiamati alla mente anche in quest'occasione: eppure, a ben ascoltare, non traspaiono mai debiti palesi nei confronti di questo o quello mostro sacro. Ad emergere semmai, è nuovamente la statura interpretativa del baritono dell'autore, la forte impronta che riesce a donare a ciascuno degli undici brani, con un trasporto e un'intensità che sanno far proprie le spigolose, quanto comunque fortemente caratterizzate, aperture elettriche del disco, frutto di un approccio consapevole ad un universo in cui la banalità sta in agguato dietro ogni angolo.
Nonostante la cangiante tavolozza sonora, che non manca di assecondare abbondantemente il versante ballabile e uptempo della ricca alchimia sonora, “Pale Green Ghosts” è un album che scaturisce dalla frustrazione e dalla paura: le attese create da ”Queen Of Denmark” e la scoperta di essere positivo al virus Hiv hanno scardinato tutte le poche certezze che John Grant aveva messo insieme grazie all’aiuto dei Midlake. Ricominciare e rimettere di nuovo in ordine la propria vita non è semplice, e per farlo il musicista solleva in aria angosce e passioni aggrappandosi alla fragilità della musica pop, trovando infine nei ghiacci d'Islanda la terra promessa in cui riscoprire quella tranquillità nuovamente perduta.
Ad accompagnarlo in questa nuova impresa vengono quindi in aiuto il tastierista Chris Pemberton (che ha seguito Grant nei suoi tour), il quale regge le fila del nuovo sound insieme a Birgir Þórarinsson dei Gus Gus (impossibile non riconoscere il marchio sonoro distintivo del gruppo, sin dalle minimali battute d'apertura), mentre tra gli ospiti spicca la presenza di Sinéad O’Connor ai cori (che ha omaggiato il Nostro in un'interessante cover di “Queen Of Denmark” nella sua ultima fatica) e Óskar Gudjónsson al sassofono. E grazie anche alla parata di nomi, illustri o meno, che hanno dato il proprio contributo alla realizzazione del lavoro, Grant può ben dire di aggiungere al suo canzoniere un'altra manciata di brani densissimi e penetranti, con un po' di fortuna futuri classici della sua produzione.
E’ quindi un'elettronica malsana, sovente dal tocco vintage, quella che si agita dietro alcune tracce dell’album, a volte concentrando anni di nichilismo (“Sensitive New Age Guy”), spesso invece giocando con i suoi stessi luoghi comuni, spostando la dinamica verso toni apocalittici da post-rave (“Blackbell”). Come novello Billy Mackenzie, John agita il suo intenso lirismo vocale in acque torbide: è così che da questa profonda cupezza esistenziale (non comunque scevra da una mordace ironia) scaturiscono le trame gelide della title track (quasi un rimando a Reykjavík, capitale d'Islanda dove è stato registrato l'album) e lo scabroso humour di “Ernest Borgnine” che affida al sax di Gudjónsson il dolore della sua scoperta di essere sieropositivo.
E di fatto sono anche i testi, lucidi e amari, a rappresentare un ulteriore elemento di forza della collezione. Se è senz'altro struggente il racconto del suicidio di un amico (la già menzionata “Sensitive New Age Guy”) è negli scenari di autodistruzione di “Gmf” che John, su una delle più agili melodie, tocca ulteriori apici d'ispirazione, cantando “sono il più grande figlio di puttana che potrai mai incontrare”. E come in quest'ultimo brano, sia in “Vietnam” che in “It Doesn’t Matter To Him” l’ex-Czars incontra nuovamente i Midlake e rinnova la magia di “Queen Of Denmark”; la rabbia è ancora però alle porte, tanto che suonano come una frusta su una pelle morbida e innocente il flusso elettronico che scuote “Why Don’t You Love Me Anymore” e il quasi perfetto ibrido electro-pop di “You Don’t Have To”, con gli inserti di sintetizzatori d'antan a tornare nuovamente protagonisti.
E quando cala il sipario con le note di “Glacier”, è come se si cancellassero i titoli di coda di un film che scorre verso un finale tragico; il pianoforte cerca di ripristinare una normalità che nasconde timori e incertezze, e solo il tempo potrà dirci se le risposte che John Grant tenta di darsi/ci siano quelle giuste. Per adesso, è il viaggio ciò che conta davvero, e messa da parte l'iniziale avversione per quello che potrebbe sembrare come il più scontato dei voltafaccia possibili, questo nuovo itinerario in undici tappe non mancherà di elargire frangenti di assoluta poesia.
(07/03/2013)