L'anello mancante fra post-punk e visioni sintetiche d’inizio anni 80 ha un nome (Associates) e due volti: quelli di Billy MacKenzie e Alan Rankine, bellimbusti cresciuti all’ombra del sottobosco scozzese, presto sedotti dal richiamo del new pop albionico e quindi approdati, in ultimo stadio, alla sintassi obliqua del synth-pop. Volendo essere pragmatici, già l’umanoide Gary Numan aveva provveduto a plasmare in carne e fili elettrici l’ideale simbiotico fra istanze umane e artificiali, ma se l’immaginario "numaniano" alla "1984" (peraltro mutuato, in alcuni suoi elementi, da nuances tardo-glam) secerne un’evidente anemia emotiva, quello degli Associates pulsa di passione – ancorché algida, come da manuale tascabile del perfetto dandy – e tensione vitale. E’ anche per colmare questa lacuna affettiva che la nostra S.p.A. è scesa in campo e, grazie all’operato dei due soci fondatori, ha intrapreso un percorso volto a distillare la linfa da ogni branca principale della "nuova ondata", quasi a voler riassumere in sé la natura polimorfa dell’intera corrente.
Durante il loro breve periodo aureo, gli Associates hanno fatto in tempo a dire la loro sul versante più tipicamente post-punk (l’esordio The Affectionate Punch), mettere su nastro uno dei più strazianti inni alla libertà creativa mai uditi (Fourth Drawer Down), infine avvicinarsi al versante più edonistico (ma mai puramente ludico) del pop e concepire, con Sulk, una suadente (e subdola) forma di allucinazione psichedelica rivestita di patina glamour, sintesi ultima dell’affronto fra il loro canzoniere melodico e la "tortura subacquea" dello studio di registrazione.
Tuttavia, nonostante tanto ingegno e indubbia preveggenza, MacKenzie e Rankine hanno raccolto poco di quanto seminato, fallendo proprio nel raggiungere quel tanto sospirato successo di massa che, se si esclude la parentesi marzo-ottobre 1982 (giusto il tempo per un assaggio di caviale e una coppa di champagne), i due hanno sempre visto col cannocchiale. Un fatto che la dice lunga sul quasi sempre arrovellato rapporto fra arte e business ma che, soprattutto, spiega più di mille parole circa l’ambigua qualità della musica proposta dal combo.
Ambiguità, per l’appunto. Il sound degli Associates è un tripudio arty dove la sintassi del post-punk anglosassone collide con il cabaret schizoide degli Sparks, l’epica dei Kraftwerk e il baratro esistenzialista del guru Scott Walker. Un raffinato intrigo di sensi audio e video (il "Sound & Vision" di bowiana memoria), capace di coniugare platealità del gesto e indecifrabilità del messaggio. Persino l’immagine double face del duo sembra studiata per coltivare questo gioco degli opposti: da un lato il fascino oscuro e introverso di Rankine, orso bruno dallo sguardo magnetico che tesse le fila delle musiche, dall’altro la pallida androginia di MacKenzie, la "personalità beefheartiana" (stando alle parole di Paul Lester su "Uncut"), che parla per metafore incomprensibili e ostenta modi da giovane rampollo aristocratico.
Le tipiche due facce della stessa medaglia, insomma; enigmatiche come il loro intero sistema di codici espressivi, perennemente in bilico – accadeva anche per il night-club atemporale dei Roxy Music – fra classicismo e urgenza modernista, ossia fra la canzone d’autore europea e americana fra le due guerre, in quanto baluardo di rigore espressivo, e la new wave come grado zero della deriva rock. E’ fra suddetti estremi stilistici – qui riassunti in grossolane categorie ermeneutiche – che si gioca la partita del team scozzese e si delinea, in parallelo, il peculiare mondo poetico del vocalist.
Con quel canto traboccante di soul, epitome della sofferenza come dionisiaco trasporto attraverso la musica, MacKenzie rilegge e trasfigura la tradizione delle "torch songs" convogliando gioie, dissapori e pene amorose in un ermetismo lirico di totale virulenza. Non c’è trucco (che non sia quello palese, almeno) e non c’è inganno: le affinità elettive con le varie Billie Holiday, Peggy Lee e Sarah Vaughan sono sotto gli occhi di tutti, eppure sfuggono allo sguardo, quasi come le ascendenze alla Frank Sinatra – ancora una volta filtrate dalle ugole di Walker e Bowie – di cui il Nostro si pavoneggia orgoglioso. Ma la lista della spesa non finisce certo qui: dove li mettiamo l’incidere teutonico e l’enfasi brechtiana? E il falsetto psicotico degno del miglior Tim Buckley? E il tenore squillante ma dai risvolti effeminati che tuona peste e corna a pieni polmoni, dipingendo così un portentoso ibrido fra il mensch wagneriano e la Marlene Dietrich de "L’Angelo Azzurro" che si fa aria con una piuma di struzzo? Tutto fa brodo, insomma, finché garantisce l’unicità di questo nodulo bipolare: "Mi piace il kitsch di artisti visuali come Jeff Koons o Pierre et Gilles" confermerà MacKenzie. "Le cose non devono essere troppo serie nè tenute sotto controllo. Dopotutto, quello del kitsch è il reame della classe lavoratrice e quel lato delle cose deve essere esplorato".
Incredibilmente, siffatto coagulo di stili e tecniche sortisce un effetto opposto alla semplice pantomima e, anzi, si fa tramite di un sentire così sincero e autentico che, per un attimo, sembra far vacillare le impalcature alla carta di zucchero della tarda musica del gruppo. Alla fin fine, la verità canora che MacKenzie sceglie di comunicare rasenta un aplomb fanciullesco quanto mai distante dallo stordimento "sessuale" di un Marc Almond e, in un certo senso, persino dalla concezione ancora fondamentalmente "estetizzante" nella quale restava ancorato il recupero degli stilemi crooning messo in atto da Bowie.
Bramoso di fama e riconoscimenti ma, al tempo stesso, troppo altezzoso per contaminarsi con la filosofia del compromesso e degli "scatti fantozziani", MacKenzie è il cherubino che guarda il mondo dall’alto della sua purezza acquisita, un Principe Myskin che nemmeno la corruzione del peccato originale (celebri i suoi appetiti pantagruelici in fatto di sesso) ha privato del suo intimo e accecante candore. "Altra contraddizione" si obietterà; nulla di più vero: il personaggio, come la sua musica, ha vissuto sguazzando nel paradosso e in stravaganze gratuite.
Non dimentichiamoci che sono state proprio le sue intemperie umorali ad aver portato a scatafascio prima la ditta Associates e poi la sua stessa esistenza, conclusasi tragicamente nel 1996, per suicidio. Un insano gesto, il suo, che lungi dall’averlo elevato al rango degli eroi romantici di cui si ciba la mitologia rock, lo ha invece riposto nel novero dei tristi Pierrot di mezza età incapaci di venire a patti con il proprio passato e le occasioni sprecate. Ritratto, ancora una volta, assai distante dal concentrato di esuberanza che MacKenzie è stato in vita: un artista che ha sempre percepito il successo più come possibilità di essere al centro dei riflettori (preferibilmente eccedendo con quei comportamenti strampalati che tanto lo aggradavano, tipo passeggiare sui treni vestito da donna con i suoi barboncini al guinzaglio o ubriacarsi con litri di crema di whisky) che come mezzo attraverso il quale gestire con oculatezza immagine e sostanze. Come dire: esibizionismo e sensibilità manageriale non sempre vanno a braccetto (per fortuna!).
Proprio in una delle sue ultime interviste, interrogato su cosa provasse nei confronti di chi aveva ottenuto il successo grazie all’influenza degli Associates, ha risposto con calma olimpica: "Evidentemente loro volevano il successo molto più di me. Io avevo di certo molto più da imparare dietro le quinte. Loro erano stelle del cinema, io sono sempre stato più attratto dal teatro." Ma va', e chi l’avrebbe mai detto?
20.000 Anni di Tortura Mentale
Quando decide di lasciare la nativa Dundee e cercare all’estero gloria come cantante, Billy MacKenzie ha soltanto sedici anni, ma è un adolescente ben diverso dallo smidollato "Sixteen, clumsy and shy" che il futuro amico Morrissey eleverà a proprio alter ego nell’apologo "dickensiano" di "Half A Person".
Vulcanico primogenito di una figliata che conta ben sei fratelli e sorelle, il Nostro cova fin da "pulzello" un estro creativo difficile da domare e, soprattutto, da incanalare in forma compiuta. "Mi chiamavano Billy Whizz (maghetto, ndr)" ricorderà anni dopo. "A volte è arduo stare al passo con tutta l’energia che scorre dentro il tuo essere". Appena undicenne, comunicò alla madre il pruriginoso desiderio di affermarsi come popstar: "Ti avverto: voglio diventare un tipo 'pop' e tu dovrai darmi i vestiti e tutto ciò che serve per diventare quel tipo di persona, altrimenti mi butto giù dalla rampa delle scale", le sbraitò con fare arrogante. Impossibile per la premurosa Lily non soddisfare i capricci del figlioletto, sia che si trattasse di arricchirgli il guardaroba con capi estrosi o, nel peggiore dei casi, assistere alle sue esibizioni casalinghe, durante le quali canticchiava stridulamente la top ten dei singoli più venduti.
Intanto gli anni passavano e quella vocetta imberbe si faceva sempre più profonda e battagliera: una voce fiera di proclamare la propria "diversità" all’interno di un ecosistema arido, popolato da maschere di mezza età e piatta gioventù senza meta. L’unico sbocco restava la fuga, architettata giustappunto nel 1973: il giovanotto utilizza il premio in denaro vinto a un concorso canoro locale per far rotta verso la Nuova Zelanda – dove vive per qualche mese assieme a due zii fricchettoni – e successivamente stabilirsi negli Stati Uniti, luogo ideale per giocherellare alla rockstar immaginaria e seminare qualche figlio qua e là come prezzemolo (peculiare, considerato che era già tendenzialmente gay).
Richiamato in patria due anni dopo, in seguito alla malattia della madre, il novello dandy si ricicla come gestore dell’emporio di abiti in stile art deco "The Crypt" (la cui macabra peculiarità è di avere bare al posto dei camerini!) fino al giorno in cui, spavaldo, si presenta a un’audizione per la band di cabaret Mental Torture ed entra nelle simpatie del loro talentuoso chitarrista.
Un vero e proprio momento epifanico: soltanto così può definirsi il primo incontro con Alan Rankine, in quel di Edimburgo, nel 1976. Nonostante le trascurabili differenze di background "sociale" ("Alan veniva dall’upper class, dalla zona residenziale. Io sono cresciuto nella parte malfamata di Dundee, quella in cui se lasci per sbaglio le scarpe in cortile durante la notte, puoi star sicuro che la mattina dopo non le trovi più!", ci terrà a precisare), i due entrano subito in sintonia sul piano musicale, scoprendosi non solo estimatori di rock "krauto" e glam, ma anche grandi appassionati di soul, easy listening, colonne sonore e disco-music (tutte influenze che si riverbereranno, in proporzioni variabili, nella musica degli Associates). Poche storie: MacKenzie ha finalmente trovato il suo gemello artistico.
Trascorrono quindi diciotto mesi di sudata gavetta nelle hall degli alberghi, a suonare per platee di turisti e quarantenni distratti (pensate che scocciatura per il cantante – il quale, come puntualizzerà Rankine, "allora era al 90% gay" – declinare tutte le proposte indecenti delle attempate Mrs. Robinson presenti in sala!). L’acme dello show è una versione bossanova di "The Fool On The Hill" (santi numi…), ma i due si divertono soprattutto a storpiare brani popolari e riproporli in chiave umoristica, come "The Shadow Of Your Lung", la loro versione della celeberrima "The Shadow Of Your Smile". Ben presto, al dilettantismo confezionato su misura per guadagnarsi la pagnotta subentra la voglia di fare sul serio e dedicarsi a un progetto ben più ambizioso. E’ allora che nasce la sigla Associates.
Siamo nel 1977. In perfetta coincidenza con l’apogeo/crisi del punk e la simultanea germogliazione delle sonorità che di lì a poco saranno inquadrate col prefisso "post", MacKenzie prende armi e bagagli e si trasferisce nell’appartamento "arancione monocromatico" di Rankine. Lo aspettano giorni folli, tossici e incredibilmente creativi, durante i quali, grazie soprattutto alla sapienza tecnica del padrone di casa, riesce finalmente a riordinare le idee e abbozzare i tratti essenziali di una grammatica musicale inedita. Risalgono proprio a questo periodo le stesure di futuri hit come "Party Fears Two" e "Club Country", ma occorre aspettare sino alla fine del ’79 per veder pubblicato il primo singolo targato Associates – guarda caso, la cover del Duca Bianco "Boys Keep Swinging" – per la Double Hip, etichetta nuova di zecca creata dai due per l’occasione. Inserendosi nel nuovo fermento "scozzese" che vede in Orange Juice, Positive Noise, Altered Images, Fire Engines e Josef K i nomi di punta, il gruppo attira l’interesse della Fiction, succursale della Polydor, che li accoglie in scuderia.
Nell’agosto dell’anno successivo arriva il destro potente ma carezzevole di The Affectionate Punch (Fiction, 1980): un grumo di ferro arrugginito avvolto nel velluto blu, quello marchiato dalla bruciatura di sigaretta di Lynch; "musica della decadenza", come lo definisce un entusiasta Paul Morley su "Nme", individuando il sottile nesso intercorrente fra scadimento morale e ontologico della civiltà contemporanea e rimpianto per un ideale perduto di virtus (per ora confinato alla cura del corpo, all’esercizio fisico come contraltare della salute dell’anima) che fin da subito informa la poetica del gruppo.
Le idee sono semplici ma efficacissime: tempi ossessivi alla Joy Division, basso pieno e in bella vista, un pianoforte sospeso sull’oceano che esala inebrianti aromi roxyiani e occasionali intrusioni di tastiere cheap e assai poco tronfie, come da scuola Magazine ("Would I…Bounce Back" e l’emozionante "Deeply Concerned" sembrano sbucate fuori direttamente da "Real Life"). Un suono decisamente post-punk, insomma, con Rankine che usa la sua chitarra per pungere, dissezionare o intorpidire le memorabili linee melodiche (il vortice "shoegaze" che risucchia la materia di "Transport To Central", le rasoiate acutissime di "A Matter Of Gender"), spesso vestendo i panni di un Keith Levene appena più lirico e introverso, come nelle spirali sulfuree di "Amused As Always".
MacKenzie, da par suo, domina l’intero album con un registro imperioso e operistico, capace di passare con nonchalance dal crooning setoso di Scott Walker al balbettio di un Howard Devoto (il collagene di "A", musicalmente affine agli U2 prima maniera), toccando vertici di passionalità nell’elegia "Logan Time".
Ciò che più impressiona, comunque, è la qualità sorprendente della scrittura, nonché la capacità di coniugare attenzione per la melodia e fantasia a briglia sciolta in fatto di arrangiamenti: "Paper House" è una scatola ritmica vagamente lounge, punteggiata da tastierine alla Sparks e intricate diteggiature della sei corde; la title track flirta ammirevolmente con lo schematismo di "Station To Station", mentre è addirittura un fischiettio "morriconiano" a fare a pugni con il fantasma di Kurt Weil virato glam-rock nella magnifica "Even Dogs In The Wild".
Netti e definiti i suoni, quasi spartani se confrontati con la "tridimensionalità" delle produzioni future; proprio per questo, l’incontentabile MacKenzie avrà parole sprezzanti per il disco, definendolo "soltanto spazzatura, un demo glorificato". In realtà, per quel suo innestare chirurgicamente una sensibilità "antiquata" nelle strutture taglienti del post-punk, The Affectionate Punch è già un lavoro ambizioso che racchiude la veemenza "nietzscheana" (ma tutto sommato bonaria, suvvia) dei due atleti immortalati sulla cover, pronti per una corsa sfrenata verso l’olimpo del pop. Beata ingenuità… Ancora non sanno, infatti, che la strada sarà un tantinello più lunga e soprattutto assai più tortuosa del previsto.
"Singles: il successo è un gioco"
Nonostante le incensate della stampa musicale, The Affectionate Punch vende davvero pochino, persino se paragonato ai numeri non certo stratosferici delle uscite Factory o Rough Trade. Tanto basta per far pigliare a MacKenzie e Rankine un colpo apoplettico: che siano destinati a condividere la sorte dei tanti (troppi) gruppi "di culto" confinati nella lista aurea di qualche critico e sostanzialmente ignorati dalle masse? La paura è tanta (troppa), così i due lasciano in fretta e furia la Fiction e la Scozia per accasarsi a Londra, fra le mura della Situation Two (sottomarchio della Beggar’s Banquet). Lì definiscono a tavolino il piano di battaglia che da un po’ frulla nei loro cervelli e che dovrebbe finalmente portare il marchio Associates all’attenzione del pubblico.
L’idea è quella di dedicarsi interamente ai singoli, pubblicarne una serie con cui sfondare nel mercato indipendente e da lì affacciarsi alle classifica nazionale. Per MacKenzie, però, bruciare l’agenda-tipo della rock-band (disco, tour e via daccapo) resta la vera priorità: "Abbiamo cercato di demolire quel lato della faccenda ed è una delle ragioni per cui ce ne siamo usciti con la storia dei singoli", conferma il cantante. "Vogliamo mostrare alla gente che non bisogna necessariamente affidarsi a una disgustosa formula, perché quello è uno dei motivi per cui il business musicale è alla frutta." La versione di Rankine è persino più succulenta: "Nel 1980 eravamo un gruppo rock, quattro ragazzi, stesse basi, suonavamo in tutti i locali tipici. Ma Billy voleva una routine diversa, voleva suonare nelle discoteche gay! E questo per il fatto che il rock’n’roll è una cosa molto da ‘macho’ e quell’intera iconografia lo disgustava. Se gli dicevi: ‘Partiamo per un tour di 48 date’, lui rispondeva ‘Naah’".
Sono ancora giorni incredibilmente creativi e forse anche più tossici. Lucrando sulla fiducia della Situation Two per racimolare un po’ di quattrini extra con cui stipendiare il bassista Mike Dempsey (ex-Cure) e il batterista John Murphy, si incide soltanto nei week-end e per di più la notte, in una "Saturday Night Fever" che sfuma sovente nel delirio allucinogeno.
Da veri animali da studio, MacKenzie, Rankine e il produttore Mike Hedges usano il mixer in modo creativo e trafficano con utensili fattisi strumenti improvvisati (tamburi riempiti d’acqua, McKenzie che canta in un tubo dell’aspirapolvere, forme primitive di sampling ottenute battendo a tempo il tasto "Invio" di una macchina da scrivere…) secondo un approccio giocoso che discende dalla "musique concrète" di Pierre Schaeffer e una tensione alla lotta vagamente riconducibile al futurismo sonoro d’inizio Novecento. Il termine "vagamente" è però d’obbligo, dato che il motto di Marinetti "Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto", scritto a lettere argentate sui volti dei primi synth-popper, mal si adatta a un sentire equivoco come quello degli Associates.
I brani estratti dal cilindro in quel glorioso 1981 non mentono circa la febbre sperimentale che avvolge le session: se McKenzie si giostra come vuole il pentagramma e spazia, con furia aliena, fra tutti i registri umanamente concepibili, dal falsetto psicotico al baritono e ritorno, Rankine lo segue infittendo le trame sonore e portando al parossismo l’alterazione timbrica dei suoni, che ora appaiono snaturati (ascoltate la tastiera gracchiante di "The Associate") e fissati su nastro a mo' di screziature al litio. Il procedimento, a conti fatti, porta il gruppo ad avvicinarsi parecchio alla sintassi "synth" pur non ripudiando le proprie radici "organiche". Tanto per dire: "Kissing" (il retro della splendente "Tell Me Easter’s On Friday") è pervasa da uno sciame di frequenze elettroniche che guarda avanti di almeno un decennio e lambisce l’isolazionismo techno dei primi Autechre, ma il suo "abito sonoro" esibisce anche una chitarrina scartavetrata che strizza l’occhietto al recente passato. Quel che ne esce è una sorta di "Play For Today" (Cure) raccontata dal punto di vista di un robot, se mi passate il paragone, ma è proprio in questo "tenere un piede in due scarpe" che, paradossalmente, risiede il grandioso potenziale del sound targato Associates.
La scia dei singoli continua implacabile fino ad ottobre e viene raccolta nel secondo e capitale album della band. Fourth Drawer Down (Situation Two, 1981) è un germe sviluppatosi nel corpo già esangue di "Low", un cancro che si nutre delle stesse ansie, ma ne esaspera i tratti deviati. Il pellegrinaggio fra le rovine post-belliche del Bowie "teutonico" è evocato fin dai primi secondi di "White Car In Germany", dove un tappeto di vagiti industriali alza il sipario su una Dusseldorf fattasi pura idealizzazione, microcosmo devastato dai synth glaciali di Rankine e dalle ottave impossibili di McKenzie. Un trionfo di epicità perduta (quasi archeologica), ribadito dal coda strumentale "Another White Car" fra il clangore di presse, timpani e campane tubolari: l’epitaffio "crimsoniano" per un impero asburgico ormai consegnato all’oblio.
Più che nella culla dorata del "superuomo", ora l’affannoso cammino degli Associates cerca ristoro in quella pietas eletta a codice di riconoscimento della propria natura sì effimera, ma in ultimo profondamente umana. In tal senso, non si può che concordare con Richard Cook di "Melody Maker", quando afferma che "nel cercare di smantellare le nozioni consolidate di esecuzione organizzata e ricostruendole con irriverente sprezzo per l’accessibilità (…), gli Associates riaffermano la loro umanità nella musica elettrica".
Ecco quindi le chitarre pulsanti di "A Girl Named Property" trasfigurarsi in epilessi di sentimenti marmorizzati, circuiti emozionali dalle sublimi intelaiature europee. Ecco i celatissimi(ssimi) umori disco di "Tell Me Easter’s On Friday" (lo scheletro bianco di "I Want Your Love" degli Chic messo a bagno nelle cromature degli Human League più marziali) portare mortigno benessere in un deserto che ha barattato il calore del sole con il ghiaccio secco della luce al neon. Ecco la danza russa "Q Quarters" procedere alla moviola sul binario di un minimalismo ipnotico e assorbire le striature gelide della pioggia, rumori di passi e colpi di tosse messi in loop (i Faust di "Miss Fortune" colpiscono ancora…).
E ora un po’ di domande retoriche: come resistere a una dinamitarda "Kitchen Person" che si dimentica del basso e punta tutto su tom tom tribali alla Virgin Prunes, un riff pesantissimo di Rankine, ticchettii di marimba e un farfisa che pare stuprato da Sun Ra in persona? Come reagire di fronte a digressioni chitarristiche alla Fripp incastonate nel metallo dei D.A.F. e un chorus stile Peter Hammill (il MacKenzie più progressive che possiate immaginare) di "Message Oblique Speech"? E che dire, infine, del girotondo strumentale "The Associate", se non che pare di assistere a un planare isterico che sposa le urla "alienate" di David Thomas alle scorie high energy di Giorgio Moroder? Brividi, signori. Brividi veri.
A prescindere da come lo si voglia inquadrare – se, cioè, si tratti di un post-punk già partito per la tangente sintetica o un synth-pop spurio e troppo arty – Fourth Drawer Down resta il capolavoro degli Associates, nonché uno dei lavori più eccentrici di tutta la new wave.
Peccato che fra tanto armeggiare di aspirapolveri e macchine da scrivere, il giochetto dei singoli si riveli soltanto un mezzo successo. Non bastano infatti i paroloni spesi da una critica ormai conquistata per ottenere il plauso unanime di pubblico che – non si sa con quanta cognizione di causa – i due si aspettavano, e così gli Associates si vedono costretti, ancora una volta, a vestire i panni degli outsider in un mondo del quale vorrebbero invece far parte a tutti gli effetti.
Il punto è che se la cercano, siamo sinceri. Ha un bel da dire Rankine, quando ammette che il look "bagnato" sfoggiato sulla cover di Fourth Drawer Down (il titolo si riferisce al cassetto in cui i due amorevoli junkie custodiscono i sedativi naturali con cui far "svaporare" gli effetti dell’acido) sia stato architettato allo scopo di compiacere l’audience gay e attirare così il più alto numero di portafogli possibile… Non è l’immagine il "problema" e non lo è mai stato; la musica, semmai: come si può pretendere di sbancare il mondo del pop con un album magnificamente astruso come questo? Gli appigli melodici ci sono, per quanto rari, ma il sound brucia gli occhi come cloro (magari proprio quello dell’acqua della piscina da cui riemergono i due adoni) e l’insieme è troppo straordinariamente urticante. Il vero merito del disco, piuttosto, è quello di riaffermare con prepotenza la natura di "anomalia" del gruppo in un panorama, come quello post-punk, in cui a fronte di una palese eterogeneità stilistica è facile reagire eccedendo in sbrigative (e poco utili) ghettizzazioni.
Facendosi beffa della routine dei "musicisti contabili" e portando all’estremo il patto fra teoremi sintetici e afflato post-modernista, gli Associates sono riusciti a condurre un gioco sordido ma appagante, dal quale è stato generato un disco storico. Poco importa che le vendite ancora non diano loro ragione: quelle arriveranno di lì a poco. Purtroppo, dureranno anche poco.
Il Nuovo (Pop) che avanza…
A dire il vero, un risvolto concreto la messe di singoli l’ha avuto, se si considera che è proprio grazie al raccolto dell’annata ‘81 che una non troppo entusiasta Wea fa opera di carità e propone agli Associates il tanto sospirato contratto discografico con una major. Il sogno non è ancora perso, in fondo, e il duo di Scozia ci tiene a giocarsi tutte le carte in suo possesso prima di sventolare bandiera bianca. Per di più, i sensori delle multinazionali rilevano mutate condizioni del terreno britannico, adesso finalmente recettivo verso le doti "spettacolari" e l’immagine glamour che MacKenzie e Rankine hanno cercato di vendere a man bassa fin dagli esordi.
Le loro preghiere sembrano essere state esaudite: il tanto sospirato reflusso art-rock verso le classifiche è all’ordine del giorno (un percorso di "ammorbidimento" che gli stessi Joy Division forse avevano iniziato a valutare, come testimoniano gli hook da fischiettare di "Love Will Tear Us Apart" e le sublimi gesta della metamorfosi New Order), mentre la celebrità torna improvvisamente a essere cool, dopo anni in cui si è tentato sistematicamente di smantellarne le logiche intrinseche.
Adesso occorre mostrarsi, non nascondersi. La visibilità e la disponibilità diventano doti imprescindibili per evadere da una realtà sotterranea dominata da un "predicare ai convertiti" che ha stancato anche i più ferventi discepoli dell’anarchia (sonora e non) del Regno Unito. Si affievolisce, in una parola, l’intero senso del pudore verso il successo e fiorisce una "nuova" (?) mentalità ben disposta a sfruttare il potere mediatico della musica popular (l’ecstasy delle masse) per erodere lo stesso concetto di mainstream dall’interno.
D’altronde, già nel 1980 Green Gartside degli Scritti Politti era approdato a teorizzare – non si sa quanto in buona fede – l’hit parade come metro di giudizio per il "culturalmente rilevante" (?): perché quindi non vedere questa corsa all’oro come il propellente con cui ravvivare la fiammella creativa? In fondo, non è la classifica il problema, quanto chi la classifica la decide, e i tempi sembrano propizi per uno sdoganamento in massa del nuovo esercito pop britannico di chiara/sfumata/inesistente derivazione post-punk, prontamente ribattezzato "new pop" da un inesauribile Paul Morley, in preda a un eccesso di esaltazione.
Ad ogni modo, fare di tutta l’erba un fascio non porta a nulla, perché se è vero che molte delle universalmente denigrate fiere del new pop (ossia coloro che ci sguazzeranno in tempi sospetti, tipo Culture Club e Wham!) restano meritevoli di epiteti spregiativi, non può nemmeno negarsi che nel calderone ci sia pure roba buona, per non dire squisita: gli Abc "diretti" da Trevor Horn, ad esempio, o le ultime incarnazioni degli Human League e degli stessi Scritti Politti, che sono tutto fuorché semplici progetti messi in piedi per capitalizzare. O meglio: sono anche questo, ma non solo.
Per gli Associates, la chiave giusta per entrare – anche se dalla porta di servizio – nel pantheon del new pop si chiama "Party Fears Two" ed è quel gioiellino composto nel lontanissimo 1977, poi riposto nel cassetto (non certo il "quarto a partire dal basso", però), riportato in vita grazie alle scosse telluriche della "underwater production" di Mike Hedges e infine esibito con spavalderia a "Top Of The Pops" nel marzo dell’82. Autentico diadema dalle venature rosso rubino, questo "nuovo pop" al vetriolo stupisce per la costruzione a cerchi concentrici, tutta giocata su una luminosa fanfara di pianoforte e canto tenorile che nel finale si smaterializza in una nuvoletta color porpora a metà fra coro da stadio e gorgheggio astrale. Qualcosa di essenziale; per il cuore, intendo.
Nell’amoreggiare di quell’"Awake Me!" urlato a squarciagola si respira vera aria di liberazione, di emancipazione da anni di ricercata, ostinata solitudine. Come se risvegliassimo le membra intorpidite dall’inverno "emotivo" del post-punk e scoprissimo che fuori è primavera, gli uccellini cantano, i prati sono in fiore e, in fondo, non è così brutto. C’è tutta l’urgenza di affermare il proprio disimpegno a testa alta (non riesco a non pensare alla filosofia da "M’importa ‘Na Sega" degli ultimi e dimenticabili Csi), d’intonare la somma delizia che deriva dal dimenticarsi per un attimo del dolore proprio o altrui e godere la vita, semplicemente. E, si badi, è un atteggiamento che nulla ha a che spartire con il menefreghismo yuppie, quanto piuttosto con l’accettazione serena della propria essenza transitoria, nel non permettere che il male del mondo arrivi a farci perdere la bellezza del viaggio.
"Party Fears Two" schizza al nono posto nella classifica nazionale e, per chi avesse ancora dei dubbi, resta uno dei brani pop definitivi degli 80s.
Il long playing Sulk (Wea, 14 maggio 1982) compare nei negozi con la copertina improntata a un curioso tropicalismo "futuristico-decadente": un dedalo di luci e tonalità accese, piante plasticose, ispida vegetazione da salotto, gli "associati" comodamente sdraiati su divanetti coperti con lenzuola alabastrine… manca soltanto la testuggine ingioiellata di "Des Essentes" e il catalogo delle raffinatezze può dirsi completo. Un tale sfarzo visivo non può che preludere a un ancor più straripante lusso sonoro: frammenti ritmici dispersi fra i due canali, grappoli di strumenti isolati dalla massa e poi impastati fra loro, voci che si moltiplicano a diverse altitudini, timbriche così artefatte da dare al tutto un sapore stonato, troppo (magnificamente) deciso.
McKenzie implora Hedges di far suonare l’album "il più costoso possibile" e il produttore lo prende in parola, lavorando da fine orefice per conferire grandiosità e prestigio a ogni secondo di musica. Le indicazioni del cantante sono piuttosto singolari, per non dire criptiche ("Questo deve suonare come gli ABBA che incontrano Bet Lynch in acido" o "Quest’altro deve suonare come dopo la pioggia, mentre il sole sta uscendo"), ma la sintonia fra i due è sempre perfetta, almeno a giudizio di Hedges: "E’ stato davvero un periodo appagante. Da una lato avevi Billy, il miglior cantante degli ultimi vent’anni, dall’altro le canzoni sue e di Alan che erano al tempo stesso avanguardistiche e pop, radicali ma senza mai cercare di esserlo…".
Il risultato di cotanto sforzo produttivo è un synth-pop variegato madreperla e smeraldo, fondato su strutture pericolanti e sospeso con grazia fra il desiderio di possedere la forma e l’ansia di eluderla. Una finta vitalità esibita fin dallo strumentale "Arrogance Gave Him Up", che apre le danze in un turbinio di rullanti esplosivi e girandole di carnevale, come una mano gentile che mette un fiore (forse un’orchidea) fra i capelli del Bowie extraterrestre di "Speed Of Life".
L’idea è proprio quella di insistere su colori e materiali, cercando di conferire ai brani il luccichio del pregiato: "Skipping" è così ametista bruna, felino tutto curve che sgattaiola nell’ombra di un arpeggio acustico, basso funkeggiante, tenui pennellate impressionistiche da caffè parigino e il canto di un Jacques Brel in esilio temporale; "It’s Better This Way" onice di grana sottile, con gli accenti noir delle tastiere già indirizzate verso i Depeche Mode di "Black Celebration"; "Club Country" uno spolvero di topazio purissimo con screziature metalliche, tanto cattura quel chorus infetto che, duettando con gli staccato della chitarra semi-amplificata e le intrusioni del sintetizzatore, si propaga in un maligno gioco di specchi.
Purtroppo, fra tante pietre preziose si nasconde anche la bigiotteria di "Bap De La Bap" e "Nude Spoons", episodi piuttosto debolucci che lasciano intendere come questa stratificazione sonora, se non supportata da ordine nella scrittura, conduca soltanto a un continuo accavallarsi delle prospettive e, in ultimo, all’annullamento del baricentro. Non a caso, saranno proprio questi brani a sparire dalla scaletta nell’edizione tedesca e americana dell’album, in favore di due ripescaggi da Fourth Drawer Down (i sempreverdi "White Car In Germany" e "The Associate").
"No" finisce invece per essere "il" capolavoro: un dub de-pigmentato e incredibilmente abbinato a una melodia balcanica nel cui Dna sono rintracciabili i Massive Attack che verranno (i rintocchi di pianoforte così carichi di eco, il pullulare di voci morenti sullo sfondo, i bassi livellati su frequenze abissali). Seducente come un labbro insanguinato.
L’attenzione per il songwriting (e soprattutto la melodia) è alta, ma è il suono, in ultimo, il vero protagonista di Sulk. Un suono che, come una versione ingentilita del maelstrom di Fourth Drawer Down, sbrodola programmaticamente dai perimetri in cui si cerca di racchiuderlo e sparge petali di rosa sul tappeto vermiglio della celebrità soltanto sognata. Un suono nel quale, d’altra parte, aleggia un non so che di irrisolto, un carico di nubi che getta la sua ombra minacciosa su una tela altrimenti fastosa e arlecchinesca. Ecco perché Sulk può esser visto un po' come il barocco degli Associates, la decadenza dell’Impero dietro il cui trucco volgare già si intravede la crisi. E ben si sa che, quando una crisi è alle porte, spesso sceglie il momento meno opportuno per manifestarsi in tutta la sua asprezza. Manco a farlo apposta, per gli Associates il punto di non ritorno coinciderà in toto con la fase di massima gloria.
…And Then They Were…One?!
Ottobre 1982: con il secondo singolo "Country Club" reduce da vendite sensazionali e il terzo "18 Carat Love Affair" ancorato a un più modesto ventunesimo posto in classifica, ma ancora potenzialmente foriero di soddisfazioni commerciali, il gruppo sembra davvero sul punto di fare il grande salto, almeno in termini quantitativi. L’alcool scorre a fiumi, l’eroina pure; anche i soldi iniziano a diventare parecchi, ma quelli si sperperano in frivolezze, non sono un problema. Ciò che davvero inizia a preoccupare è il comportamento di MacKenzie, l’ex centometrista ora quasi riluttante a raccogliere le forze per lo sprint finale e men che mai pronto ad affrontare un imminente e sfiancante tour nel Regno Unito. A complicare ulteriormente la faccenda ci pensa il supermegadirettoregenerale della Warner, Seymour Stein, che sbuca dal nulla e sventola sotto il naso di Rankine un assegno a sei zeri per convincere il gruppo a trasferirsi negli States.
Di fronte a tutto questo trambusto, la sfinge MacKenzie compie una scelta drastica: come un generale ferito (e presumibilmente schifato da quel business che finora aveva corteggiato ossessivamente), fa improvvisamente marcia indietro e oppone un secco rifiuto alle esibizioni dal vivo (il che, in soldoni, significa ritirarsi dalla battaglia per la conquista delle chart). Rankine, non credendo ai propri occhi, sbatte la porta e se ne va. Gli Associates – quelli veri – non esistono più.
Nel frattempo, "Melody Maker" elegge Sulk album dell’anno e pompa a dismisura il senso di sconcerto che si prova nell’assistere, increduli, allo sgretolarsi di una delle collaborazioni più prolifiche dell’epoca. "Ho ancora una considerazione molto alta di Alan come musicista", confesserà MacKenzie nel 1983. "Non capiva, però, che era il suo talento a dovergli dare sicurezza, non i soldi o le agevolazioni che ricevevamo a causa di essi. Era insicuro e completamente preso dal denaro." Parole che suonano un po’ bislacche, se pronunciate da uno che, fino a pochi mesi prima, ambiva al successo tanto quanto il socio dimissionario, ma che riescono a catturare l’anima di questo scugnizzo fin troppo volatile e capriccioso.
Domanda: è possibile che, nei suoi quindici minuti di gloria, il damerino di Dundee abbia intravisto il proprio volto riflesso nello specchio ("Even the greatest stars see themselves in the looking glass", commenterebbero impassibili i Kraftwerk) e si sia riconosciuto come parte di quella inclemente catena alimentare nella quale l’artista è soltanto un anello e nemmeno quello più importante? Possibile, certo. Fatto sta che "Billy non voleva diventare parte di quella che Joni Mitchell chiamava la 'fabbrica di star' dietro al successo pop", spiegherà Max Hole, ex capo della A&R alla Warner. "In più, si deliziava nel caos. Era capace di sparire per una settimana e rifugiarsi a Dundee, cosa che, ovviamente, faceva incazzare a morte Alan".
Sia come sia, fino al 1984 il cantante resta ai margini del business e assiste dal salotto di casa all’avanzata irrefrenabile della compagine New Pop e ai loro festini che tirano avanti fino all’alba. Alla fine però non resiste e, surclassato dalla folla che reclama a gran voce un ritorno degli Associates, rimette in piedi la band con il chitarrista Steve Raid e il tastierista L. Howard Huges. Vengono quindi pubblicati, in rapida successione, i singoli "Those First Impressions" e "Waiting For The Loveboat", sospesi fra movenze da sirena e salmodiare dolciastro, con stucchevoli inserti di sax e ritmiche spumeggianti. In fondo non sono nemmeno così malvagi, se assunti in piccole dosi.
Il nuovo Lp Perhaps (Wea, 9 febbraio 1985) completa la metamorfosi "synth" e si presenta come un discreto fiasco artistico, se paragonato ai due lavori precedenti. Diversi produttori si alternano alla console ma, tranne poche eccezioni, la ricchezza sonora di Sulk resta un lontano miraggio. Da par suo, l’ascesso purulento di Fourth Drawer Down è ormai rientrato del tutto, in favore dell’estasiata contemplazione di superfici asettiche (la title track), sebbene in alcuni episodi permangano flebili chiaroscuri (l’epica "Thirteen Feelings", il bailamme cibernetico alla Devo di "Helicopter Helicopter"), capaci di riportare alle narici indistinti sentori dei bei tempi che furono.
Non potendo più contare sul talento di Rankine come arrangiatore e polistrumentista, MacKenzie si affida interamente al suo talento melodico e confeziona ballate da cui traspare, una volta in più, la sua latente anima operistica ("Breakfast"); tutto sommato, i momenti più riusciti sono però quelli in cui tenta di rifare il verso a "Party Fears Two", come nella commovente "The Stranger In Your Voice", che ne segue alla lettera la struttura, o nel bla bla desolato di "Don’t Give Me That I Told You So Look" e quel pianoforte "trattato" che piange, inconsolabile, la sua triste cantilena. Contagiosissima, invece, l’accoppiata basso-batteria di "The Best Of You": un numero teso e drammatico, tutto archi sintetizzati che danzano ai bordi dello spettro sonoro e inserti di voce femminile vagamente black – come da prassi new pop – che non avrebbe sfigurato su Sulk. Un consiglio: mettete in loop soltanto questi ultimi tre pezzi e lasciate perdere tutto (o quasi) il resto.
Da Perhaps a Wild And Lonely (Circa, 24 marzo 1990) passano ben cinque anni ma, a parte un lost-album che vedrà la luce soltanto nel 2002 (tale The Glamour Chase) e un inevitabile cambio d’etichetta, ciò che promana dai solchi è soltanto il respiro affaticato di un uomo che ora annaspa sia nell’arte che nella vita (le cronache raccontano di un MacKenzie ormai ridotto sul lastrico e sempre più assuefatto all’eroina).
I pezzi scorrono levigati e tirati davvero troppo per le lunghe, specie considerati gli evidenti deficit d’ispirazione, mentre ogni tentativo di lavorare sul suono viene buttato alle ortiche in favore di una piattezza produttiva da far rizzare i capelli. "Just Can’t Say Goodbye" e "Something’s Got To Give", due dei brani più ascoltabili, sembrano bruttissime copie dei Pet Shop Boys periodo "Introspective"; il resto si adagia su melodie anonime ("When There’s Love", "People We Meet"), con gli immancabili siparietti melò di "Strasbourg Square" e della title track a rimettere in chiaro la natura maudit del Nostro.
Le vendite di questo e del seguente album Outernational (Circa, 1992), accreditato al solo MacKenzie, sono a dir poco disastrose e gettano il leader in uno sconforto ancor più nero: "Non mi reputo un artista torturato come Nick Cave, ma a volte il peso della sofferenza riesce a obliterare tutto ciò che c’è di esaltante nella vita", confida in una delle rare interviste concesse in questo periodo. Servono altri commenti?
International Loner(s)
Se MacKenzie si trascina, con passo pesante, nel baratro artistico, l’altra metà degli Associates non se la sta certo passando meglio. Distaccato in Belgio, dove ha inciso tre album ignorati un po’ da chiunque – The World Begins To Look Her Age (Crepuscule, 1986), She Loves Me Not (Virgin, 1987) e lo strumentale The Big Picture Sucks (Crepuscule, 1989) – Rankine fatica a ritrovare il bandolo della matassa e arranca su idee e temi obsoleti. Ciò non toglie che almeno l’opera prima, seppur irrisolta e deficitaria nel songwriting, riesca a irradiare rari squarci di talento sotto forma di romantici instrumental (il Lou Reed berlinese della pianistica "Love In Adversity", quell’impensabile connubio fra Leo Kottke, Ennio Morricone e Vangelis che è "Elephant’s Walk In The Morning") e morbidose canzoni pop-rock ("The Sandman", "The Best In Me") non troppo ispirate, ma nemmeno orripilanti. Come cantante, Rankine non vale un decimo di MacKenzie, però non stona ed è già molto.
A un certo punto si vocifera di una reunion con il vecchio partner, supportata dal fatto che, effettivamente, nel ’93 i due si riuniscono per registrare una ventina di pezzi. C’è pure un nuovo contratto discografico messo lì sul patto d’argento, ma MacKenzie non gradisce le restrizioni dell’accordo imposte da Rankine ("Alan voleva che fossimo soltanto noi e nessun altro, mentre io non potevo accettarlo. A lui non piaceva che stessi lavorando anche con Paul Haig, considerava questo comportamento una sorta di tradimento") e così l’intero progetto va in fumo. Un film già visto, verrebbe da dire. Alcuni brani registrati durante quelle session finiranno sulla scialba compilation Associates: Double Hipness (V2, 2000), che raccoglie per lo più demo risalenti al triennio ’77-’80. Esclusivamente per fan.
Archiviata anche quest’ultima disavventura, a Rankine non resta che riciclarsi come autore di teen hit per boy-band e dedicarsi saltuariamente all’attività d’insegnante nel corso di "Music Business" allo Stow College di Glasglow. Sarà proprio lui, per ironia della sorte, a fornire indirettamente l’appiglio per emergere a Stuart Murdoch e i suoi Belle And Sebastian (thanks Alan). Poveretto… Chissà quante volte si sarà divorato le unghie al solo pensiero di ciò che poteva(no) ottenere, se soltanto la magica alchimia fosse durata e se, soprattutto, il suo ex socio in affari non fosse stato così volubile. Già me lo immagino Rankine, come un novello Gene Wilder in quella sublime visione "brookisiana", a rigirarsi nel letto in preda agli incubi, urlando "Il destino è quel che è, non c’è scampo più per me…". Ma d’altronde, quando uno il destino ce l’ha già scritto…
Deluso dal comportamento della sua controparte "affarista", MacKenzie si tira su le maniche e prova a salvarsi/ricostruirsi la carriera: registra nuovo materiale, firma per la Nude Records (l’etichetta degli Suede) e, in attesa di dare forma compiuta all’intero programma, riallaccia i rapporti con la stampa. L’artista è un fiume in piena, irrefrenabile; mille idee, mille progetti. Poi, improvvisamente, il buio: in seguito alla morte della madre, una grave crisi depressiva cancella la scintilla dell’entusiasmo dagli occhi del nostro uomo, che ora dubita di tutto e persino di se stesso.
Nel Natale del 1996, con la coda fra le gambe e un libro di autostima sotto il braccio, fa ritorno a Dundee e si riconcilia col padre: non vuole avere conti in sospeso, evidentemente. "La notte in cui arrivò mi accorsi che non riusciva a dormire", ricorderà papà James. "Mi parlò per ore, dicendo che amava la sua famiglia, i suoi fratelli e sorelle. Disse che era stanco e non aveva più motivazione. Non riusciva nemmeno a guardare la tv, e questo non era proprio da lui. Aveva toccato il fondo, ma non mi resi conto di quel che intendeva fare a quel punto".
Il 22 gennaio 1997 il trentanovenne William MacArthur MacKenzie si toglie la vita con un mix di alcol e antidepressivi. Il suo corpo verrà trovato proprio dal padre, disteso sulla veranda, accanto alla cuccette dei suoi amati cagnolini; vicino al cadavere un bigliettino con su scritte le sue ultime parole: "Sorry".
Postumo viene pubblicato Beyond The Sun (Nude, 1997), il rinnovato gesto di un Icaro che non ha mai imparato a volare basso, nonostante le ali di cera gli si siano sciolte in numerose occasioni. I demo registrati (alcuni completati da Simon Raymonde dei Cocteau Twins) mostrano un entertainer consumato che punta per lo più su ballate per pianoforte e chitarre acustiche come "Blue It Is" o la meravigliosa "Winter Academy", entrambe dense di un classicismo a metà fra Jacques Brel e Bing Crosby, finalmente senza filtri o menomazioni. E’ un MacKenzie in completo da sera, seduto composto, autore maledetto che si crogiola fra tonalità lugubri e accordi diminuiti, a volte immergendosi in un’accattivante aura liturgica (le tastiere quasi ambient di "At The Edge Of The World") o assorbendo timidi accenni del trip-hop che all’epoca impazza per l’Europa ("Give Me Time"), ma sempre conservando il proprio sguardo in un mondo musicale radicalmente cambiato rispetto ai giorni felici degli Associates.
"Era ossessivo in studio, ma non era mai soddisfatto dei risultati", ricorderà il suo collaboratore Steve Sutherland. "Era eternamente scontento, un po’ come Brian Wilson. Ciò che queste persone racchiudono nelle loro menti è irraggiungibile: per loro, tutto suona come un fallimento." Già, un fallimento… Proprio impossibile non confrontarsi con questo cruccio. Chissà se MacKenzie si sia davvero sentito un fallito mentre rincasava nell’amata/odiata Dundee, da figlio abbattuto che torna a cercare il conforto di quel focolare domestico abbandonato così presto. Un’immagine forse troppo lacrimevole che lui avrebbe detestato, presumo.
Negli anni successivi, ad ogni modo, si assisterà al rinascere di un moderato interesse nei confronti del gruppo e dello scomparso leader, come testimoniano alcune antologie e materiale live pubblicati nel corso dei 90 e del decennio successivo (le interessanti session per Radio One, la raccolta delle ultime e inedite registrazioni di MacKenzie, equamente spartite dalla One Little Indian fra le due raccolte Auchtermatic e Transmission Impossible etc.). E’ il primo sintomo di quel revival degli "Eighties" che impazzerà all’alba del nuovo millennio e che permetterà al duo scozzese di riemergere come souvenir d’epoca, comunemente ricondotto a un’estetica forse eccessivamente denigrata ma in cui, d’altra parte, è facilissimo restare intrappolati come mosche nella melassa.
Ora che gli Associates sono tenuti a debita distanza temporale (come se prima dessero fastidio o mettessero a disagio, proprio perché così "diversi"), sembra stiano ritornando a galla anche quelle qualità squisitamente musicali che, più di venticinque anni or sono, fecero gridare al miracolo gran parte della stampa specializzata. La strada sembra quella giusta: basterebbe soltanto aggiustare di poco la mira e ricordarsi che oltre a Sulk esiste anche un certo Fourth Drawer Down che grida vendetta per non essere ancora osannato come meriterebbe. Pazienza, il tempo gli darà ragione. O almeno così si spera.
Words (Between the lines of age)
Mi si permetta di chiudere questo lungo intervento con un rapido – ma non troppo indolore, purtroppo – sguardo su uno dei tratti più manifesti e ingiustamente ignorati di quella ambiguità eletta dal sottoscritto (forse arbitrariamente, chi può dirlo…) a summa di tutta la poetica del duo scozzese: i testi. Troppi gli articoli dell’epoca in cui si preferisce sorvolare la questione, limitandosi a menzionare di sfuggita quelle "liriche scarsamente decifrabili" che, come tali, sembrano destinate al macero in una società che pretende chiarezza e prese di posizione nette. Di fronte a questo disinteresse generale, sarebbe facile cedere alla tentazione e caricare di significati spropositati un campo in cui è spesso il gioco (inteso nella sua accezione più elevata e fruttuosa) a farla da padrone, ma anche questo, ovviamente, non sarebbe corretto.
Come approcciarsi quindi ai testi degli Associates in modo coscienzioso ma, al tempo stesso, senza farsi prendere la mano? Beh, un buon punto di partenza è evitare di trincerarsi dietro l’inintelligibilità come pretesto per escludere a priori qualsivoglia tentativo di analisi: "Se gli Associates stanno trovando le pecche nelle meccaniche umane per poi smascherarle, allora credo questo sia il nostro scopo" è il suggerimento (vaghissimo) messo da MacKenzie sul piatto d’argento a beneficio dello sciocchino di turno (ehm…) che intenda lanciarsi in quest’impresa.
Un’impresa che sa tanto di sfida, di vero e proprio duello fra l’interprete e una lingua ricercata a cui piace riesumare terminologie arcaiche e, passando per il simbolismo "virtuale" di un T.S. Eliot ("Fourth Drawer Down" è l’equivalente della sua celeberrima wasteland, ma senza l’ottimismo rigeneratore del finale), crogiolarsi nel ballonzolante raptus della rimembranza. Non a caso, quando ci si è trovati in difficoltà nel superare i dualismi della musica degli Associates, si è parlato di fascinazione per un immaginario apocalittico che cozza irreversibilmente con la nostalgia verso qualcosa di perso, di remoto: un passato "ideale" che ci incatena a una triste riflessione sul presente. E’ una scorciatoia utilissima (e giusta, mi pare), ma che non riassume la magmaticità e il disordine di quello che, spesso e volentieri, degenera in un cut-up di scuola Borroughs, incline a tracimare chilometri di prima di rendersi conto dei limiti del motore (ossia del linguaggio stesso).
"Ma che si pretende, la luna?", strepiterebbe MacKenzie di fronte a questo incalzare di affermazioni stentoree. In fondo, le sue parole potrebbero apparire come un mero escamotage, un trucco escapista non così lontano, sul piano formale, dalla pedissequa ricerca del nonsense operata dai vecchi leoni di Canterbury (la poesia fonetica di "A" sembra un miscuglio fra il "Coincise British Alphabet" dei Soft Machine e la "Alphabet Song" degli Hatfield & The North: "Leave out U the leave out V keep W, Y because of Z/ Zed is the black sheep of the alphabet/ Zed is the masculine letter").
In verità, a me pare che il tratto principe della scrittura degli Associates sia il mimetismo dei sentimenti, quando non il fallibile (ma non per questo meno interessante) tentativo di farsi manifestazione – e indiretta indagine – di un subconscio collettivo "fantastico" della vecchia, arcigna Europa. Caso vuole che proprio in quegli stessi anni, dall’altra parte dell’Atlantico, un certo Michael Stipe stesse compiendo un’operazione analoga, attingendo da un immaginario differente – l’America rurale dei pionieri etc. – ma col medesimo intento di reinventare la storia, scomporla, deformarla a proprio piacimento attraverso il motore creativo della fantasia, dell’immaginazione.
In questa nuova luce, tali versi sibillini appaiono come messaggi in codice studiati con astuzia per depistare l’esegeta ("Tell me Easter’s on Friday and I’ll splint my hips/ Tell me Easter’s on Friday and I’ll bruise my lips/ And if I must be frank well I must be tone deaf"… Ma che caspita significa?) o confessioni che si trascinano instancabilmente fra ripensamenti e metamorfosi intestine.
Se il linguaggio di The Affectionate Punch è piano ma frammentario, limitato a movimenti circolari di verbi e immagini (il fascinosissimo "His jawline’s not perfect but that can be altered" di "Transport To Central", "The affectionate punch draws blood" ripetuto allo sfinimento nella title track) o a istantanee di vita marsupiale ben radicata nel suo habitat ("Logan Time", "Paper House"), su Fourth Drawer Down dominano invece puzzle strategici alla Brian Eno o sculture fibrose partorite dalla mente di un Matthew Barney appena meno eccessivo ("Hypothermic ice cubes are melting down/ With prisoners from BSA and the Royal Crown/ A fertilising agent for the parasitic fool/ Well, he drinks double hernias and spits out wooden stools" da "Message Oblique Speech"). Un universo fuligginoso in cui il regista MacKenzie, come un curioso ibrido fra l’Orson Welles più noir e il David Cronenberg più "existenzialista", guida la macchina da presa e gestisce gli spazi tramite illuminazioni improvvise, ricercando una sorta di genealogia affettiva fra luoghi prosciugati dalla vita ("Aberdeen’s an old place/ Dusseldorf’s a cold place, cold as spice/ Slide your way through Zurich/ Walk on eggs in Munich (…)/ I’m not the one for surgery/ Premature senility/ White car in Germany/ Anonymous like bathrooms (…)" da "White Car In Germany") o deviando in versi ricchi di predicati visivi (si pensi alla tragica conta dei morti di "Q Quarters", uno degli esempi più crudeli dell’abilità "visiva" del leader: "Obsolete children/ Their populations died en masse/ Concrete civilians/ Statues to the house of rest/ Washing down bodies/ Seems to me a dead-end chore/ Floors me completely/ Beauty drips from every pore").
La constatazione del vuoto dei sentimenti si fa man mano più articolata e l’abbandono viene stracciato da voci incongrue: ecco i cocci di una relazione finita sparsi lungo la sala da ballo – non diremo dancefloor, no – di "Party Fears Two". Sulk, di conseguenza, attenua le granulosità di Fourth Drawer Down, ma non la violenza delle immagini ("Tore my hair out from the roots/ Planted them in someone’s garden/ Then I waited for the shoots/ Then I waited for the shoots" da "No"), né la vanità di concettualismi che richiamano la gracile incompiutezza di un Syd Barrett ("At all’s two words, could they be soldered as one/ Therein lies the pseudonim/ You think you’ve learned to know someone and find/ That you don’t know, don’t know all’s at all" da "Club Country"). Abbandonata l’oscurità, la nebbia si gonfia ora di carne e vesti, assumendo le sembianze di showroom dummies che ci fissano dalle vetrine o d’impiegati part-time persi nei covi domenicali dei new romantics ("…We’re always sickening at the Country Club/ Your limitations are our every care/ Every breath you breathe belongs to someone there").
L’illusione della fama spinge però a strafare e il nostro presunto vate, accecato dalle luci dei riflettori, rimane presto a corto di cartucce e di (anti) slogan. Con l’affievolirsi delle musiche, anche il vocabolario s’impoverisce, riducendosi alla nuda enunciazione del proprio piacere/dolore, senza veli, senza gioco. E se sparisce il gioco, il gusto per la strategia e i percorsi "alterati", allora perde consistenza anche il fragile appeal dei versi. C’è giusto il tempo per un’ultima strofa di spoglia commozione ("The stranger in your voice sings songs/ You’ve never heard before/ The shadow of a legionnaire/ Who’s here to even score/ Exiled in a dreamworld/ North south east and west/ From where I’m standing I can see/ Love triumphs by request/ Where all you need is disappointment/ To end all your disappointments" da "The Stranger In Your Voice") prima che il capitolo Associates si chiuda all’insegna della sciattezza. Restano i riccioli scompigliati di MacKenzie e i suoi cappelli stilosi, quel suo modo di nascondere le emozioni dietro uno sorrisetto beffardo. La sua voce titanica, soprattutto.
Certo, la lettura può apparire confusa o contraddittoria e di questo chiedo venia, ma cosa non lo è nel mondo in provetta degli Associates (e persino nella nostra realtà)? Quel che ci è concesso è di provare a sfidarne i limiti e tentare così di penetrarne la scorza, gongolando in silenzio ad ogni minuscolo successo. E’ una sfida, si diceva, esattamente come affrontare la loro musica. Il passe-partout è escluso. Aperta una porta, altre cento si chiudono. Alcune poi "ti lasciano entrare e uscire, ma non si aprono mai" (qui mi viengono in soccorso Yorke & C.). Richiede molta più pazienza di quella che parrebbe necessaria, ma sempre meno di quella che vi sarà servita per arrivare (si spera) alla fine di questo scritto, che non ha altro scopo se non quello di invogliare all’ascolto. Ricordando sempre che cercare di risolvere il rompicapo Associates è un po’ come mettersi alla ricerca dell’Hortensia decantata da Rimbaud: un groviglio di sentieri che sembrano condurre ovunque ma che, in ultimo, eludono il punto di fuga e non portano da nessuna parte, giacché i veri misteri restano tali anche e soprattutto se ci si attiva per risolverli.
Cercate A.
THE ASSOCIATES | ||
The Affectionate Punch (Fiction, 1980) | 7,5 | |
Fourth Drawer Down (Situation Two, 1981) | 9 | |
Sulk (Wea, 1982) | 7,5 | |
Perhaps (Wea, 1985) | 6 | |
Wild And Lonely (Circa, 1990) | 4 | |
Popera: The Singles Collection (Sire, antologia, 1990) | 7,5 | |
The Radio One Sessions (live, Strange Fruit, 1994) | 7 | |
Double Hipness (antologia, V2, 2000) | 4 | |
The Glamour Chase/ Perhaps (Wea International, 2002) | ||
Radio One Sessions, Vol. 1: 1981-1983 (Strange Fruit, 2003) | ||
Radio One Sessions, Vol. 2: 1984-1985 (Strange Fruit, 2003) | ||
Singles (antologia, Warner Strategic Marketing, 2004) | 7 | |
ALAN RANKINE | ||
The World Looks Her Age (Crepuscule, 1986) | 5 | |
She Loves Me Not (Virgin, 1987) | 5,5 | |
The Big Picture Sucks (Crepuscule, 1989) | ||
BILLY MACKENZIE | ||
Outernational (Circa, 1992) | 4,5 | |
Beyond The Sun (Nude, 1997) | 6,5 | |
Eurocentric (Rhythm of Life, 2001) | 5 | |
Auchtermatic (One Little Indian, 2005, antologia) | ||
Transmission Impossible (One Little Indian, 2005, antologia) | 6,5 |
Sito su Billy MacKenzie | |
Testi |