Incontro John Grant a Milano, in Santeria, un paio d’ore prima dello showcase in cui presenterà alla stampa il suo nuovo disco, “Pale Green Ghosts”, proprio nel giorno dell’uscita ufficiale. È visibilmente stanco, reduce da un tour de force di ospitate in numerosi studi televisivi e radiofonici della città, a conferma della grande attenzione che il cantautore di Denver sta attirando sulla propria produzione. Fin dalle prime battute, al mio arrivo all’appuntamento, è chiaro che la nostra sarà più una chiacchierata che una vera e propria intervista, e la cosa aiuterà a portare alla luce dei lati ancora poco noti della musica dell’ex Czars.
Sei stata a qualche festival...
Sì!
Lo vedo dal tuo polso...
Ah, sì! Sono i braccialetti dell’End of the Road.
Oh! È un festival così bello!
Sì, lo è veramente
È veramente stupendo, no?
Sì, sì. Non ci torneremo quest’anno e un po’ ci dispiace. Siamo andati per due anni di seguito.
Ho visto, e anche quest’anno è molto buono!
Sì, ci saranno i Sigur Ros, Belle & Sebastian...
Ho letto anche io, sarà di nuovo eccellente!
Allora, oggi è il giorno della pubblicazione ufficiale del tuo disco. Come ti senti?
Sono molto agitato, anche se continuo a dimenticarmene... voglio dire, per me ormai è uscito da un anno [ride]. È emozionante, sono contento che sia finalmente fuori.
Cosa ti aspetti, questa volta?
Non mi aspetto mai niente! [ride] Mi limito ad aspettare e vedere. Spero che alla gente piaccia, e al momento sono più concentrato sul partire e suonare nei primi spettacoli live, è questo quello di cui mi preoccupo ultimamente. Ho due concerti molto grossi questa settimana, a Londra e di ritorno a Reykjavik.
Ah sì, perché adesso sei in Islanda...
Sì, ed è eccezionale.
Come si vive lassù?
È veramente bello, molto rilassato, il paesaggio è bellissimo, ho incontrato delle grandissime persone, ho trovato molti amici.
Hai registrato lì “Pale Green Ghosts”...
Sì, tutto l’album.
Ne hai anche scritte delle parti?
Qualche cosa è stata anche scritta lì, per esempio “Glacier”, e vi ho finito molte delle canzoni, tipo “Blackbelt”. Ho scritto anche molto, lì.
Ti ha influenzato il luogo, in qualche modo?
Sì, assolutamente, ma penso che ciò che mi ispiri di più sia andare in studio tutti i giorni, cosa che alle volte è un po’ difficile. Comunque, lassù è semplicemente splendido, penso l’ispirazione sia stata più generale, anche se “Glacier” è nata guardando un paesaggio.
Quando è uscito “Queen of Denmark” ti saresti aspettato l’accoglienza che ha avuto? Ha vinto un Mojo Award come miglior disco dell’anno...
No, non me lo aspettavo per nulla, ed è ancora difficile crederci...
Davvero?
Sì, anche ora non ci credo. Non me lo aspettavo, quindi è stato molto emozionante per me.
Ciò che mi ha stupito quando ho sentito la prima volta “Queen Of Denmark” è stata la sua sincerità, il raccontare tutto esattamente come fosse, senza bisogno di aggiungere fiction – sai, mi è capitato di parlare con alcuni cantautori, che mi hanno detto “devo aggiungere della finzione alle mie storie perché non posso lasciare tutto esplicito”– ma tu non l’hai fatto...
No, infatti. Anche se, certamente, in qualche modo potrebbe essere considerata finzione, perché è solo la mia percezione del mondo, che magari non è necessariamente la realtà per qualcun’altro. Ma per me è la verità, o, per lo meno, tanto quanto posso essere vero con me stesso. Ci sono tanti modi di differenti di guardare alle cose, no? E qui ce n’è invece solo uno, il mio, per questo sono sicuro che possa essere considerato fiction, perché è stato tutto filtrato dalla mia mente, e ciò che avresti visto tu se ci fossi stata mentre quelle scene stavano accadendo, sarebbe stato molto diverso, ne sono sicuro. È passato tutto dall’apparato della mia mente. Ma credo che ciò che è importante, per me, sia essere il più onesto possibile su come percepisco le cose.
Non hai avuto paura di essere giudicato dalle persone che avrebbero ascoltato il disco?
No. Proprio no. Qualche volta ci penso, e non voglio essere giudicato, ma onestamente, non mi importa molto; sono stato giudicato a lungo, e lo sarò sempre di più, io stesso giudico gli altri, credo che tutti lo facciano.
Beh, è umano.
Sì, è una cosa molto umana, e non importa. Ciò che mi importa è imparare a vivere la mia vita, in un modo che non sia per me distruttivo. È importante per me cercare di imparare a divertirmi, a essere compassionevole, a entrare in relazione con le persone; imparare a amare, e a permettere a me stesso di essere amato, che sembra essere una cosa molto difficile per me. Sono queste le cose importanti.
Leggendo tutte le interviste e gli articoli su di te che sono usciti online finora mi sembra che molto spesso la tua storia personale preceda la tua musica. Come cantautore, come la vivi?
Sì, le persone vogliono parlare di me prima di voler parlare della mia musica. Non mi dà fastidio. Perché la musica puoi ascoltarla, è lì per quello, e magari non vuoi discuterne più di tanto. Ma parlare di me, di chi sono, è parlare della mia musica, non si possono tanto separare le due cose, nel mio caso. Non è un problema.
Tu sei un ottimo pianista...
No, lui è un ottimo pianista, il tizio che sta suonando ora [Chris Pemberton, che nell’altra sala sta facendo le prove per lo showcase, ndr], io sono solo ok...
Sono molto curiosa di sapere quale sia stata la tua “educazione musicale”, non ti ho mai sentito parlarne.
Beh, non ho avuto una grande istruzione musicale, sono cresciuto prendendo lezioni di piano, pianoforte classico, ma in modo privato, non sono mai andato a scuola.
Con quali ascolti sei cresciuto?
Dal punto di vista classico, mi piaceva molto suonare musica ragtime, come Scott Joplin, Joseph Lamb, William Bolcom. Allo stesso tempo –andavo spesso a lezione negli anni Ottanta– mi piacevano molto il pop e l’elettronica, ascoltavo gli Eurythmics, i Missing Persons erano una delle mie band preferite, poi Devo, Cabaret Voltaire, Yello, Chris & Cosey, Fad Gadget, D.A.F., New Order, Depeche Mode –tonnellate di Depeche Mode–, Ministry, Skinny Puppy; anche molta elettronica industrial, il genere era chiamato Electronic Body Music Order, cose che arrivavano dal Belgio, tipo Play It Again Sam, Click Click e Front 242. Ma mi piaceva anche Jean Michel Jarre e tanta Italo Disco italiana, anche se non ne so molto. L’Italia ha un’ottima produzione elettronica.
Come funziona il tuo songwriting? Come nasce una tua canzone?
È sempre diverso, molto spesso da un ritornello, altre volte può essere qualsiasi cosa, anche solo un’idea o una parola che mi piacciono. Può essere un’intuizione al piano, una melodia, ma molto spesso è il ritornello. Certe volte tutta la canzone [schiocca le dita] arriva immediatamente, in dieci-venti minuti, magari mezz’ora, cose del genere. È raro, ma alle volte succede. Altre volte mi viene una parte della canzone, e poi non riesco a finirla per mesi, ma so che ce la farò se non mi ci ostino, se lascio che arrivi da sé. Certo, ci puoi lavorare, ma se qualcosa non viene subito non bisogna preoccuparsi, perché arriverà più tardi – anche se è difficile ricordarselo mentre ci sei dentro [ride].
Quindi, la sonorità di “Pale Green Ghosts” è legata ai tuoi ascolti del passato; ma sei partito dall’inizio con l’idea di un disco elettronico, o il sound è arrivato mentre ci lavoravi?
Ho sempre voluto farlo, lo volevo fin dagli inizi, ma non è mai stato il momento giusto. Ora, finalmente, lo era. Mi è sembrata una cosa molto naturale, perché è una parte importante del mio passato, e anche un’enorme parte del presente, ascolto ancora molta musica elettronica, e, sai, amo i sintetizzatori, amo il loro suono!
La prima volta che ti ho sentito suonare live è stato nel 2011 all’End of the Road Festival. Eri sul palco con solo un synth, ed è stata una sorpresa, non mi aspettavo una cosa simile. Poi ti ho sentito, sempre all’End of the Road, l’anno successivo, nel 2012, stavolta avevi un piano e un violino, e il risultato era completamente diverso...
Sì, è vero. Stavo finendo il disco in quel periodo, e non volevo esibirmi, perché non avevo mai suonato quelle canzoni prima, e non ero davvero pronto. Ero stanco, e volevo rimanere concentrato sul disco da ultimare, perché mi mancavano ancora due mesi prima del termine. Ma è stato lo stesso una bella occasione
Come presenterai “Pale Green Ghosts”, live?
Con una band completa. Ci sarà molta elettronica, ma anche una chitarra, il basso, e computer e tastiere. Suoneremo per lo più i pezzi nuovi, dall’ultimo disco, con qualcosa di vecchui qua e là.
Sempre all’ultimo End of the Road ho sentito per la prima volta “GMF”, che è la canzone a cui mi sono immediatamente legata nel nuovo disco. Ho visto un video, che credo sia la clip ufficiale, in cui giochi a basket, l’ho trovato la chiave esatta per riuscire a capire “Pale Green Ghosts”. Sei d’accordo?
Sì, posso capirlo, ha senso. Concordo sul fatto che possa essere così, per qualcuno. È difficile da dire, per me, perché lo capisco, e arriva da me. Ma è interessante che tu lo dica.
Allo stesso modo, il titolo del disco, che hai raccontato riferirsi agli alberi sulla strada che eri solito percorrere quando abitavi in Colorado, suggerisce qualcosa di intimamente legato a fantasmi dal passato più personali...
Sì.
Quindi, forse ancora più che “Queen Of Denmark”, questo disco può essere ritenuto una specie di auto-aiuto?
Non lo so. Può essere. È molto possibile. Non ho mai pensato in questi termini, ma è decisamente un disco molto più dark per me, per alcuni aspetti.
Riesco a vedervici molte, diciamo, “contraddizioni”. Un pezzo come “Blackbelt”, per esempio, con il suo testo, ha invece una base e un sound dance; di primo acchito uno può pensare a qualcosa di disimpegnato, che possa essere ballato in discoteca, ma ascoltandone attentamente il testo, invece...
Sì, mi piace fare queste cose, mi piace mettere insieme elementi che non necessariamente si appartengono. Ma per quanto riguarda l’auto-aiuto, per me anche “Queen Of Denmark” era una cosa simile. Mi interessa un tale punto di vista, ma non ne sono sicuro, suppongo che quello che sto facendo sia cercare di capire la mia storia, e cercare di capire il mondo, che sembra una cosa per me molto difficile. Tendo molto a scappare, in tanti modi diversi, come nei film –tutto pur di evitare di guardare allo specchio e dover avere a che fare con questo [indica il proprio corpo]– quindi per me è anche un modo di affrontare me stesso.
Parlando di influenze, mi ha incuriosito che tu abbia usato Rachmaninov come ispirazione, come fonte per un sound elettronico tipo quello della title track.
Ci sono state molte persone che hanno lavorato così nel passato, come questo artista giapponese, Tomita, che ha fatto un intero disco con Debussy suonato esclusivamente con un sintetizzatore, quindi magari è un’idea vecchia, ma ciò che credo lo renda differente è che ho usato Rachmaninov in “Pale Green Ghosts” per la sezione di archi, basandomi sul Preludio in Do# minore, che è una delle mie composizioni preferite.
Sì, è bellissimo. Io amo molto Rachmaninov.
Anche io, e mi è semplicemente successo che, lavorando a “Pale Green Ghosts”, il preludio vi calzasse perfettamente, e fosse per me un modo di omaggiare una delle cose che amo di più, oltre a farmi sentire anche molto intelligente [ride]. Ma adoro quel pezzo, è una delle cose più belle che abbia mai sentito.
Riesco anche a cogliere –ma magari questo è più legato al mio background, piuttosto che al tuo – un suono molto jazz nei tuoi dischi. Forse maggiormente in “Queen Of Denmark” che nell’ultimo, penso per esempio al piano in “Where Dreams Go To Die”. È possibile?
Sì! È molto interessante questo commento, non l’avevo mai sentito prima, ma ha senso, perché il jazz è stato una parte molto importante anche per il mio background, per lo più con Nina Simone, che è una delle mie influenze più grandi. Credo sia una delle migliori cantanti di sempre, non penso che qualcun altro possa... no, è la migliore, la GMF [ride], l’ho anche sentita dal vivo una volta. Lei è riuscita tantissimo a mettere insieme jazz e musica classica, in tanti incredibili modi diversi, come in “Little Boy Blue” con Bach. Credo sia un commento veramente interessante, e penso sia vero, anche se non ci ho mai pensato.
Io lo sento più nelle esibizioni live che sul disco, ma quella parte di piano nella canzone è così jazz, ed è stano perchè allo stesso tempo, in “Queen Of Denmark” sento tantissimo i Beatles. Il modo in cui riesci a far convivere le tue influenze jazz e classiche con il pop è sorprendente – mi chiedo se tu lo faccia intenzionalmente.
Oh, grazie, è molto bello sentirselo dire. Lo faccio intenzionalmente, e non è per niente semplice, perché si cerca sempre di lasciar accadere le cose in modo naturale. Ma è la mia intenzione. E deve funzionare. Se non funzionasse non ci sarebbe da preoccuparsi, perchè non arrivererebbe.
Un’ultima domanda: so che hai collaborato con Hercules & Love Affair. Come è stata quest’esperienza, e cosa dobbiamo aspettarci?
A dire il vero non lo so. Trovo difficile collaborare con altre persone, perchè mi sembra sempre di non fare le cose bene con loro quanto riuscirei a farle da solo, credo di riuscire meglio quando lavoro da solo. Non so se [Andrew Butler] userà qualcosa di ciò che abbiamo fatto insieme nel nuovo disco, ma credo sia possibile, e dovremmo anche tornare in studio, non so quando però, suppongo alla fine di marzo, quando avrò due minuti liberi. Adoro lavorare con Andy, è una persona estremamente intelligente ed è un amico, quindi è anche un’ottima opportunità di stare un po’ insieme, che è la cosa più importante per me. Credo anche di poter riuscire a fare meglio con lui, abbiamo bisogno di più tempo per lavorare insieme, quindi non so cosa uscirà da questa relazione, ma sicuramente qualcosa di cool.
Grazie, John.
È stato un piacere, grazie a te.
(Grazie a Marco Aimo/ Cooperative Music per aver reso possibile l’incontro)
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Dipingi la luna e le stelle (in un cielo d'autunno)
Avete, comunque, scritto degli album notevoli e un certo numero di canzoni da ricordare. Sei d'accordo? E quali preferisci? Non so, lo spero. 2. Yello - Sometimes 3. Icehouse - Icehouse 4. Kate Bush - Night Of The Swallow 5. Eurythmics - No Fear, No Hate, No Pain (No Broken Heart) 6. Missing Persons - Noticeable Ones 7. Dead Can Dance - De Profundis 8. Cocteau Twins - Beatrix 9. Sinead O'Connor - Success Has Made A Failure Of Our Home 10. Journey - Something To Hide
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CZARS | ||
Moodswing (1996) | 6 | |
The La Brea Tar Pits Of Routine (1997) | 6 | |
Before...But Longer (Bella Union, 2000) | 6,5 | |
The Ugly People Vs. The Beautiful People (Bella Union, 2001) | 7 | |
X Would Rather Listen To Y Than Suffer Through A C Of Z's (live ep, Bella Union, 2002) | 7 | |
Goodbye (Bella Union, 2004) | 7,5 | |
Sorry I Made You Cry (Bella Union, 2005) | 7 | |
Best Of (Bella Union/Pias, 2014) | 7,5 | |
JOHN GRANT | ||
Queen Of Denmark (Bella Union, 2010) | 8 | |
Pale Green Ghosts(Bella Union, 2013) | 7,5 | |
Gets Schooled (Ep, Rough Trade, 2013) | ||
Grey Tickles, Black Pressure(Bella Union, 2015) | 7 | |
Love Is Magic (Bella Union, 2018) | 6 | |
Remixes Are Also Magic (Ep, PTKF, 2019) | 5 | |
Boy From Michigan(Bella Union,2021) | 7,5 | |
The Art Of The Lie(Bella Union,2024) | 7,5 | |
CREEP SHOW | ||
Mr. Dynamite (Bella Union, 2018) | 6 |
Sito ufficiale | |