Nei tre anni successivi a quell'autentico piccolo miracolo, s'è tanto parlato di Butler, della sua amichetta Kim Ann Foxman e della sua simpatica combriccola aperta a qualsiasi nuova esperienza. Automaticamente, l'aspettativa inferta alle qui presenti undici "Blue Songs" non poteva che confondere le idee in caso di mancata conferma della grazia palesata in principio. Allo stesso tempo, il rischio che la formula magica svanisse nel nulla pareva distante. Va inoltre precisato che l'esperto disc-jockey è un tipetto inquieto, uno di quei produttori a cui piace cambiare continuamente le carte in gioco. Tuttavia l'attrazione per l'estetica musicale dei mitici club newyorkesi (Studio 54 e derivati) ha continuato ad assumere in questi anni connotati preoccupanti, al punto da inchiodare il buon Andrew in un immaginario eccessivamente irto di richiami retrò e pulsazioni vintage spesso inconcludenti, inducendolo a smarrire una certa ispirazione nella diversificazione delle melodie, del groove. Cosi, il richiamo nostalgico alla primissima house ha finito con l'offuscare l'intera faccenda. Nel complesso, in queste canzoni blue manca quasi sempre l'incastro vincente, il ritmo giusto.
Per l'occasione Butler non s'è fatto ugualmente mancare nulla, ingaggiando la vocalist Aerea Negrot e Sean Wright, un fan della prima ora diventato poi collaboratore del "gruppo". Ma sopra ogni cosa è la presenza di Kele Okereke, vocalist e leader dei Bloc Party, a incutere curiosità e a far sì che nasca l'inevitabile parallelo con il tanto amato Antony Hegarty di "Blind", in un confronto resettato fin dai primi sussulti di "Visitor", sorta di disco-music mutante che strizza l'occhio ai suoni cibernetici in voga nella Grande Mela nei tardi seventies."Blue Songs" è un album concepito per il club, per la pista più modaiola. E si sente in ogni sua scossa.
A rievocare comunque i fasti dell'esordio sono solo l'introduttiva "Painted Eyes", proseguo afflosciato della già citata "Blind" con una sezione d'archi oltremodo magnetica, e l'ammaliante "Leonora", altra probabile b-side dell'omonimo esordio. Per il resto, a tentare di sedurre l'anima sono il ritmo incalzante in scia Owens di "My House" e la ballad lunare "Boy Blue", modello Sylvian (!). Tutto quello che segue è una manciata di contorsioni disco talvolta insipide e prive di mordente. Qualcosa di inaspettato e babelico.
Provaci ancora, Andrew.
(17/02/2011)