Se si ammette che la curiosità è fondamentale per godersi appieno la musica, allora si può capire perché, dopo il quarto End Of The Road, uno senta il bisogno di cambiare, pur con il sospetto - avendone provato solo un altro, il Route du Rock - che sia il festival migliore possibile per le proprie esigenze e i propri gusti, perlomeno da questa parte dell'Atlantico.
Mano a mano, nel corso degli anni, che della sorpresa per come la musica si manifesta nel festival - i palchi, il pubblico, il contorno, compreso il clima e il campeggio obbligato se non si è automuniti - rimane solo l'attesa per il rivelarsi della line-up, si vorrebbero appunto scoprire altri mo(n)di, e uscire un po' dalla ristretta orbita dei generi toccati dal festival, che, data la fama crescente, comincia ad affacciarsi (pericolosamente?) al nazional-popolare, con la doppietta domenicale Graham Coxon-Patti Smith.
Premessa essenziale per capire la vaga delusione che trapela a seguito di questa quarta edizione del festival. Non tanto, in realtà, per quanto successo sul palco, ma più per il netto anti-climax che ha contraddistinto sostanzialmente tutte le giornate del festival, che si sono chiuse con cocenti delusioni in due casi (Midlake e Villagers) e con una sensazione tra lo stordito e il compiaciuto e il sonnolento in un altro (Grizzly Bear).
Le delusioni derivano in entrambi i casi dallo sgonfiamento dell'ispirazione delle band, che hanno entrambe presentato buona parte del disco di prossima pubblicazione. La cosa ha assunto toni quasi tragici nel caso dei Midlake, che si rallegrano tanto della risposta del pubblico - come al solito, principalmente alle canzoni di "Van Occupanther" - da dire: "ci fate tornare a lavorare al nuovo disco col sorriso sulle labbra" e si profondono in salamelecchi diretti a Simon Raymonde, boss della Bella Union avvistato per tutto il giorno in loro compagnia; per meglio dire, alle loro costole. Ma, se le canzoni di "The Courage Of Others" potevano dirsi esistenti, pur nel loro limbo di foreste muschiose e intabarramenti fuori tempo massimo, le nuove non fanno che sformarsi progressivamente, sospese su un'armonizzazione, annegate prematuramente in chiusure cacofoniche, in un lamento svuotato.
Poche ma ben confuse le idee invece di Villagers, che le prova tutte per il nuovo disco: dalla b-side degli Wham! alla Band che fa post-rock. Cambia solo l'attitudine di Conor O'Brien e della band, che sembrano credere molto nella nuova creatura, fratello deforme del perfettamente proporzionato "Becoming A Jackal", del suo folk-pop crepuscolare e ammaliante.Dei Grizzly Bear, invece, è difficile parlare male. Ma cosa rimane, dopo un loro concerto, se non le schitarrate di Rossen, la voce di Droste che si impenna, e "Two Weeks"? Un mosaico di impressioni sconnesse, impossibili da ricostruire in un messaggio preciso, netto.
Ma, naturalmente, un anti-climax prevede anche un momento d'apice, e il primo a regalarlo è Jonathan Wilson, cui va dato anche il merito di "inaugurare" il festival, cosa importante quando sei arrivato da poco e ti sono capitati un paio di concerti interlocutori (Lawrence Arabia, che purtroppo ha un repertorio piuttosto impalpabile per quanto gradevole a livello epidermico, e Hannah Cohen, acerba e impacciata tanto da non ricordarsi di chi stava facendo una cover; peccato ma per l'età e la qualità del suo disco non ci sono drammi da fare).
Quasi one man band (non fosse per qualche intromissione dell'"organista"), Wilson è un grande musicista e, in misura minore, compositore; i suoi pezzi scorrono via come provvisti di energia tantrica anche nelle tirate di dieci minuti, propulsi dalla sua immensa conoscenza dei meandri dell'armonia, della mirabile manualità con la quale ne ammaestra il corso, senza mai fare di tutto ciò una dimostrazione di tecnica. Premesso che un suo concerto è consigliabile a chiunque, Wilson non riesce comunque a scacciare l'idea di essere soprattutto uno dei più abili artigiani del modernariato contemporaneo, abile, anzi abilissimo a ricreare un'atmosfera, un immaginario (la trasfigurazione mistica del paesaggio, il panismo, etc.). Ma sarà mai in grado di proporre qualcosa che suoni davvero come suo?
Ecco, prima di lanciarsi in una senz'altro attesissima disamina della differenza tra artista e artigiano, arriva, in un altro, meno importante, anti-climax, il vero highlight del festival: Roy Harper, al quale Wilson è legato non solo dal fatto che ha appena suonato e, quindi, dal confronto, che si offre molto facile ma che non è assolutamente generazionale (basti vedere l'esibizione sanremese di Patti Smith, anche se forse noi italiani siamo segnati inesorabilmente dall'immagine continuamente propinata del rock maledetto etc. etc.), ma anche dalla collaborazione che vedrà il secondo produttore del nuovo disco del primo (per parola di Jonathan, in uscita il prossimo marzo/aprile).
Se l'arte è proprio l'aver capito qualcosa della vita e il bisogno di donare insieme questo piccolo bagaglio e se stessi agli altri, fino all'ultimo, Harper rappresenta uno degli esempi massimi di ciò che si intende comunemente per "artista". Il suo concerto al Woods Stage, il più grande, delle sei del pomeriggio ha i contorni dell'eroico, concetto abusato quasi quanto quello di "genio". L'affetto del pubblico per una delle figure più importanti - e meno considerate - del panorama cantautorale di tutti i tempi è palpabile, e il poseidonico Roy ne dirige le mareggiate col suo vociare imperterrito (con una chiusura affidata a "Me And My Woman" che rimarrà impressa nella memoria), col richiamo metallico della sua chitarra - una vera tellurgia dell'anima, espulsa in maniera torrenziale, inarrestabile. Non capita spesso di lasciare un palco col magone. Emozione che si dilava lentamente grazie a un "nuovo" John Grant, che abbandona quasi del tutto il suo synth di fiducia, col quale aveva stravolto l'anno scorso le canzoni strazianti (straripante anche qui la title track) di "Queen Of Denmark", per ritornare a una più consona veste "voce e pianoforte", con l'accompagnamento di violino e batteria. Sono purtroppo sfuggite nella sovrapposizione le canzoni del nuovo disco in registrazione in Islanda.
Si apre invece il sabato coi Deep Dark Woods, ai quali il palco più importante non giova particolarmente (soprattutto al vocione di Ryan Boldt) ma che escono a testa alta dal mare di mestieranti del genere che affolla l'End Of The Road. I Dark Dark Dark si distinguono invece per essere un po' un crossover dei generi del festival: da una parte la sensibilità melodica e il senso del dramma alla Legrand della frontwoman Nona Marie Invie, dall'altra gli arrangiamenti, che coinvolgono fisarmonica e tromba. Il risultato, un pop cameristico-gitano di certo non facilissimo, è però affascinante anche dal vivo, dove la Invie prende ancora più il centro della musica del gruppo, in modo forse eccessivo.
Dopo i Sigur Ros che fanno piano bar che sono diventati gli Antlers, che sul palco non si sognano nemmeno di riprodurre le atmosfere ovattate di "Undersea", arriva l'unica sorpresa (a metà) del festival, che privo di sorprese è anche perché il livello medio è assai più alto che in passato e si ha quasi sempre qualcosa che si vorrebbe vedere. Si tratta del francese Yann Tambour, in arte Stranded Horse, che si spinge finalmente in una digressione di folk europeo dall'Americana che regna incontrastato. Difficile non bollare, però, le esibizioni con l'amato kora, strumento a corda maliano che campeggia anche nella copertina di "Humbling Tides", come vezzose (un po' come tutta la sua musica, volendo fare i cattivi), quando quelle alla chitarra si dimostrano ben più incisive, evocative e finanche coinvolgenti.Dopo una serata chiusa dai Grizzly Bear e preannunciata da un ascolto molto distante degli Alabama Shakes, una delle band più attese del festival, che tutti conoscono anche per le infiammate esibizioni live etc. etc., e da una capatina per l'inizio dei Tindersticks, che confermano che lo spoken word è il pezzo migliore dell'ultimo disco, bellissimo anche dal vivo, inizia una domenica assai intensa, nella quale il momento migliore si rivela, però, inaspettatamente il primo, ossia quello di Doug Paisley, bravo intrattenitore e appassionato cantautore, pronto a sfruttare le melliflue tracce dell'ultimo "Constant Companion", pregne della loro umanità solitaria, ma solo controvoglia.
Seguono i consigliatissimi, e da più parti, Shivers, che però non vanno molto lontani dal country-blues roco e di pancia dei Deer Tick, coi quali hanno effettivamente collaborato. Ben altra impressione, come previsto, è data dal torreggiante Richard Buckner, accompagnato a sorpresa da una band italiana - il cui nome riusciamo a ricostruire dopo un attento spelling in Sacri Cuori - cui vanno tanti complimenti per la collaborazione, che a quanto pare culminerà nella registrazione del prossimo disco di Buckner. Il suo non è certo un live freschissimo, non è facile apprezzarlo dopo qualche ora di concerti, e lui sembra mascherare con l'interpretazione qualche problema vocale, e il contributo di lead guitar ha un che di troppo tradizionale rispetto alle impressioni scheggiate e puramente gotiche di "Our Blood", ma qui siamo ancora dalle parti di Harper, per intenderci.
Dopo un paio di tentativi non andati a buon fine (Willis Earl Beal, apprezzabile solo da un punto di vista prettamente atletico, e Justin Townes Earle, altro mestierante) e gli apprezzabili Porcelain Raft e Woods (che hanno abbandonato le tirate kraut), arriva la volta dei Gravenhurst di Nick Talbot (che ci si aspetterebbe più carismatico, per qualche motivo), con un concerto di una sola mezzora, purtroppo mutilato dalla rottura di una corda dell'acustica. Grandi momenti, però, su "Saints" da "Western Lands" e "In Miniature", anche se qualche arricchimento live (una lead guitar?) farebbe al caso dei Gravenhurst.
Finisce così un'esperienza sempre grande, piena, consigliabile a tutti, anche a chi non ama la musica in particolare, che si vorrebbe dietro casa - non per comodità, ma come segno di un cambiamento nel modo in cui è concepita la musica da noi.
Contributi fotografici di Francesca Baiocchi.