Deep Dark Woods

The Place I Left Behind

2011 (Sugar Hill)
roots-rock

Nel piccolo e autoreferenziale mondo della musica indipendente si fa un gran parlare della "retromania", a seguito del saggio "a tesi" di Simon Reynolds sulla musica di questi anni; l'allarme del celebre critico musicale non suona, in realtà, così nuovo: è ancora possibile una musica "innovativa", che esplori nuove forme e suoni? L'argomento non suona proprio freschissimo, sia nella storia della Musica, sia nell'esperienza personale: a chi non è capitato di chiedersi la stessa cosa, dopo ogni anno monopolizzato dal revival di questo o quel decennio? Come se la Rete avesse represso la personalità, invece di incentivare le band a cercare una propria impronta. Chi, dal lato più "giornalistico", cerca di creare fenomeni cade insieme ad essi, trascinato a fondo da scene e movimenti che si creano e si distruggono nell'arco di poche settimane.

Da un certo punto di vista - forse limitato, forse ottuso - che liberazione, invece, poter semplicemente pensare a quanto la musica è bella, piuttosto che a quanto è nuova. In questo rallentamento delle aspirazioni di "progresso" musicale forse entrano le paure e le insicurezze di cui si parla tanto, cancellate a volte dalla consapevolezza che qualcosa di buono, fatto disinteressatamente con cura, è ancora possibile.
Soprattutto nel campo in cui si muovono i Deep Dark Woods, quintetto canadese di Saskatoon, gli ascoltatori dovrebbero essersi già strappati tutti i capelli, dopo i vagoni di tributi a Neil Young, alla Band, a Dylan. Il gruppo guidato da Ryan Boldt è sulle scene dal 2005 e si è conquistato un posto nella sovraffollata scena americana a colpi di premi e di date per tutto il continente, tra cui varie apparizioni al South By Southwest.

"The Place I Left Behind" è, però, decisamente il disco della consacrazione, quello in cui riescono a esprimere, in un unicum ben definito, la somma dei loro contributi individuali. Il fattore unificante è forse la voce di Boldt, misurata e struggente; uno stile coltivato negli anni, seguendo la stella polare dei Grandi: "Oggi non senti grandi emozioni nella voce della gente, come la sentivi in quella di Dylan o di Waylon, porca miseria! Quelli lì riescono davvero a "farla piangere", capisci cosa voglio dire? Così mi piace chi riesce a farti soffrire solo cantando".
Forse è tutto qua il segreto della musica di questi anni, nel risultato che questa provoca nell'ascoltatore. Ma non è questo che, in fondo, è sempre contato? Questo sembrano dire canzoni come la title track, col loro forse ingenuo (una saggezza che ha bisogno di un travestimento per rivelarsi) fascino da "lupo solitario", consumato dalla Strada, che tanto piace ai Deep Dark Woods. Il gruppo canadese non fa mistero della propria "retromania", tanto che Boldt confessa di ispirarsi alla "musica delle radici", che emerge con prepotenza dalle staffilate di fiddle di "Virginia" o dal ballo popolare di "Sugar Mama".

Dalla tradizione in senso stretto si passa poi ai classici più recenti, da quel Young ormai parte della mitologia nazionale ("The Banks Of The Leopold Canal", "Never Prove False") al piglio virile e polveroso dell'iniziale "Westside Street", che sembra portarci in una dimensione alternativa, in cui è Springsteen a unirsi a Crosby, Stills e Nash. Oppure, nell'epico valzer di "The Ballad Of Frank Dupree", i Deep Dark Woods sembrano riesumare il sodalizio tra Dylan e la Band, dipingendo un affresco di rimuginante struggimento.
E tutto questo è, se vi basta, "The Place I Left Behind": l'arte declassata ad artigianato di una band che ci ha messo sei anni per imparare davvero a suonare insieme. Ma ora possono davvero dire di essersi conquistati la loro parte di eredità.





West Side Street


05/12/2011

Tracklist

  1. West Side Street
  2. The Place I Left Behind
  3. Mary's Gone
  4. Virginia
  5. Sugar Mama
  6. The Banks Of The Leopold Canal
  7. Big City Lights
  8. Back Alley Blues
  9. I Just Can't Lose
  10. Never Prove False
  11. Dear John
  12. The Ballad Of Frank Dupree
  13. Oh, What A Life

 

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