28/06/2012

Jonathan Wilson

Santeria, Milano


Jonathan Wilson arriva per la prima volta a Milano con uno showcase acustico nell'estremamente intima atmosfera della Santeria, intercettato in un giorno di pausa dal tour che lo sta portando in giro per l'Europa ad aprire i concerti di Tom Petty & the Heartbreakers. Jeans a zampa, maglietta tie-dye arcobaleno e capelli lunghi raccolti, il cantautore del North Carolina incarna perfettamente l'immaginario che vive nella sua musica, in bilico tra la nostalgia dei primi anni Settanta e un profondo radicamento nel presente.
Con lui, questa sera, solo la dodici corde di Omar Velasco e il Mellotron di Jason Borger. La sala è piccola, raccolta, i muri ospitano una mostra di illustrazioni e i led verdi che illuminano la parete di fondo non fanno che aumentare la sensazione di trovarsi a un raduno nella San Francisco di fine anni Sessanta - sensazione che, nel corso della serata, sarà continuamente crescente.

Sono le note di "Can We Really Party Today?" a dare l'inizio al climax fortemente ascendente del set. Una scelta sicura, ma non per questo sottotono, quella di continuare la prima parte dello showcase con le comfort zone di "Gentle Spirit", l'avamposto di "Desert Raven" seguito a ruota dalla title track. Ma è solo il tempo necessario a prendere confidenza con l'ambiente, a trovare la propria dimensione, quelle vibrazioni giuste che facciano della musica un'esperienza mentale, ed ecco "Moses' Pain", anticipazione dal disco che uscirà la prossima primavera - basta chiudere gli occhi un attimo per ritrovarsi sulle sponde del Mississippi.
Chiudere gli occhi e non riaprirli. Far scorrere dentro di sé le note di "Magic Everywhere" e "Valley Of The Silver Moon", la psichedelia delle chitarre che lo stesso Wilson decide di scollegare dagli amplificatori per farne percepire ogni sfumatura, lo scenario immaginifico della natura, la potenza della mente umana. È il momento dell'ultimo pezzo, e la scelta è quella di una cover, "Just For Love" dei Quicksilver Messenger Service. Neanche il pubblico, che pian piano abbandona la sala per l'avvicinarsi del calcio di inizio di Italia-Germania, aiuta a ricordare che no, non è il 1970 ma il 2012.

È subito dopo questa ora di showcase che incontro Jonathan Wilson per una chiacchierata:

Allora, come sta andando il tour?
Bene! Sì, bene, è stato molto bello, ogni concerto è stato veramente un grande show.

Hai fatto da supporter ai Wilco lo scorso inverno, e ora sei in giro con Tom Petty - anche se dopo le date alla Royal Albert Hall sembra che il tour da supporter si sia trasformato in un doppio headline...
Oh, wow! È un'ottima cosa. Ma loro sono i migliori, per noi essere in tour con loro è veramente un onore. Quando hai sessant'anni e continui a suonare così, sai che quello che stai facendo è la cosa giusta.

Senti la differenza tra un tuo concerto e uno da supporter?
Sì, c'è una grandissima differenza tra i due pubblici. Nei tour da supporter la gente molto probabilmente non è lì per vedere te; in questo caso sono lì per Tom, ma per ora il pubblico ha risposto molto bene. Essere il supporter è duro, ma è una cosa che è necessario fare, e con Tom, probabilmente, per me è la situazione migliore che possa esserci al mondo. Non riesco a pensare a qualcosa di meglio.

In questo tour avete suonato in posti molto grandi, con un pubblico veramente numeroso, ma stasera ti abbiamo sentito suonare in una situazione veramente intima e raccolta. Quale di queste situazioni ti si addice di più?
Credo che per me sia qualcosa di intermedio... sai, siamo appena stati a Parigi, dove abbiamo suonato in uno splendido teatro [il Grand Rex, ndr], con una balconata e una seconda balconata. Ecco, locali di questo tipo sono quelli ideali per la mia band - di solito tengono poche migliaia di persone, è la dimensione ideale. Per noi suonare in questi posti enormi è difficile, sono così grandi, le cose rimbalzano ovunque, è così sentire il concerto, il suono, le chitarre si perdono.

E per quanto riguarda l'atmosfera?
Sì, anche le sensazioni sono migliori.

Ad essere sincera non riesco a immaginarmi "Gentle Spirit" suonato in uno stadio o in una grande arena.
Ma sai, anche quello è divertente, le canzoni rendono molto bene all'aperto, è un bell'ambiente. È divertente suonare con quei muri di amplificatori, a volte.

Vorrei andare un po' indietro nel tempo, all'inizio della tua carriera. Sei nato e hai iniziato in North Carolina, terra natale anche di musicisti come Thelonious Monk e John Coltrane. Questa cosa ha in qualche modo influenzato la tua formazione e il tuo songwriting?
Assolutamente sì. C'è una sorta di orgoglio che si ha nei confronti di questi artisti, è una cosa di cui spesso ci si vanta, e alla fine significa che quello è un posto speciale. E lo è davvero, per quanto riguarda i musicisti che ha generato, è stranissimo che ce ne siano stati così tanti - non è così, per esempio, per il South Carolina, mentre lo è per il Texas... succede.
Per quanto mi riguarda ascolto tanto jazz, sono un grande fan; l'inizio di "Gentle Spirit" ha quest'atmosfera alla McCoy Tyner, con il pianoforte.

Quell'introduzione mi ha molto impressionato: "Gentle Spirit" è fondamentalmente un disco di chitarre, ma inizia con questo gran piano che uno non si aspetta, disorienta, ma in senso positivo, è incredibile.
Grazie, è una cosa molto positiva.

Il disco è uscito dopo quattro anni dalla tua pubblicazione precedente, "Frankie Ray". Che cosa è successo nel frattempo?
Onestamente mi ci è voluto molto per trovare il team giusto. Ho rifiutato dei contratti, ho rifiutato anche cinque offerte molto più grosse, perché sapevo fosse la cosa giusta. Ci è voluto un sacco di tempo per trovare Simon [Raymonde], che è a capo della Bella [Union], è il migliore di tutti, unico; sai, certe volte per trovare un'anima gemella ci vuole tutta una vita, e io mi sono rifiutato di far uscire le mie cose con delle vibrazioni negative e l'energia sbagliata, non avrebbe funzionato, sarebbe sprofondato e io sarei impazzito e caduto in depressione.
Quindi, questa è fondamentalmente la storia. Quando è uscito non sapevo cosa aspettarmi, e invece la risposta è stata fantastica.

Nei primi anni 2000 ti sei trasferito a Los Angeles, a Laurel Canyon. Cosa ti ha spinto lì?
Ci ero già stato, ma poi mi ero rispostato sulla costa Est. Nel 2005 però ho deciso di tornare in California, a Laurel Canyon. Penso siano stati per lo più il sole e l'atmosfera, che sono così buoni, a convincermi a tornare; poi, una volta lì, le cose sono esplose, con il mio studio e tutto il resto, sì, mi sono occupato per lo più di questo in quegli anni.

jonathanwilson_01So che il tuo studio è l'unico esistente al momento con apparecchiature interamente analogiche. Perché questa scelta?
Sì, è vero. Fondamentalmente è per il suono, è come vedere la bellezza di un vecchio film rispetto a certe immagini in HD, tipo quelle nuove trasmissioni televisive come "90210" che sono veramente brutte; ma se vedi uno splendido film su pellicola è tutto così bilanciato, i colori così belli. È esattamente la stessa cosa: il nastro fa lo stesso con il suono, sistema tutto. Con il digitale bisogna lottare ogni volta, ci sono sempre milioni di cose da azionare per farlo funzionare; il nastro, basta farlo partire e il suono è quello giusto.

È lo studio che appare nel video di "Canyon In The Rain"?
Sì, esatto.

Sei generalmente indicato come colui che ha riportato in voga l'atmosfera degli anni 60 e 70 a Laurel Canyon, ho letto che spesso nel tuo studio sono ospitate lunghe jam session. Era veramente così?
Sì, l'atmosfera era esattamente quella. Un sacco di feste e improvvisazioni; quando i musicisti erano in città, magari durante un tour, passavano da me, veramente per tante ottime jam.

I tuoi testi sono un mix di vita reale e visioni lisergiche. Cosa ti ispira per scriverli?
Decisamente la California. Per alcune canzoni sono davvero andato in Big Sur, o nel deserto, e una volta tornato a casa mi sono messo a scrivere. Succede, perché quello che ti circonda è di una grande bellezza. Poi ci sono altre cose che hanno a che fare con diversi stati di coscienza, che per me sono importanti, come semplicemente pensare sotto l'effetto di sostanze.

Nelle canzoni parli spesso di vita, di spirito, dell'Universo, di cerchi: che rapporto hai con la spiritualità?
Molto buono, nel senso che so che c'è, è solido, è una cosa che in definitiva sento, su cui tengo sempre un occhio vigile e cerco di concentrarmi, come una relazione tra me e ciò che in primis ispira me, poi da raccontare alla gente. Anche prima, mentre suonavo, sono io e la musica, siamo una squadra, devi solo cercare di stare a cavallo, come un fantino.

Sento molta psichedelia britannica nella tua musica, ad esempio i Pink Floyd o gli ultimi Beatles. Ho ragione?
Sì, assolutamente sì!

È una cosa strana per un cantautore americano, non succede così spesso.
Sì, ed è una cosa positiva. Uno per cui vale la stessa cosa è proprio Tom Petty, lui è molto appassionato di musica britannica, anche se non delle stesse cose che piacciono a me, ma ha lavorato con membri dei Beatles, è stato un po' come uno di loro, è strano.

Non so esattamente, non ci sono tante band che suonano quello che faccio io, si tratta soprattutto di non farsi intrappolare in un'etichetta - una jam band, un cantautore - ma cerchiamo di essere ogni volta qualcosa di diverso, ed è la parte più divertente.

Uno dei tuoi ultimi lavori da produttore è stato "Fear Fun" di Father John Misty. Come è nata questa collaborazione?
Josh è arrivato in città, si è trasferito in California, ha impacchettato tutta la sua roba e ha lasciato Seattle - aveva una ragazza là, l'ha lasciata, è salito sul furgone ed è arrivato a Los Angeles. Ci siamo semplicemente trovati nello stesso posto, io stavo lavorando e lui aveva un concerto in città: è stata la prima volta in cui l'ho incrociato, ma siamo immediatamente diventati grandi amici.
Appena è arrivato nel mio studio ha preso tutti i contatti presenti nel mio iPhone, compresi i miei migliori amici, la mia fidanzata e tutte le mie ex, non poteva che diventare a sua volta uno dei miei migliori amici.

Ancora prima di leggere i crediti del disco, ho immediatamente riconosciuto la tua chitarra in "This Is Sally Hatchet".
Oh, grande! Quella è super Beatles!

Assolutamente sì, sembra presa direttamente da "Abbey Road".
Sì! Quello sono proprio io che mi diverto.