Non è facile essere figli, Justin Townes Earle lo sa bene. Non è tanto questione di avere un padre celebre, come nel suo caso: piuttosto, è il fatto di dover fare i conti con qualcosa che è dato, con un bagaglio che non si può scegliere - e da cui al tempo stesso non si può prescindere. Magari solo per lasciarselo alle spalle, ma non prima di averci affondato le mani. "Tutti hanno paura di diventare come i loro genitori", confessa, "anche se hanno un profondo amore nei loro confronti".
"Nothing's Gonna Change The Way You Feel About Me Now", quarto album firmato dal figlio di Steve Earle, è un disco che ha molto a che vedere con quello da cui si proviene: famiglia, esperienze, eredità musicali. E proprio per questo si presenta come una delle più solide dimostrazioni del talento di songwriter di Justin Townes.
La notte, la radio, una voce che riapre le ferite del ricordo: "Hear my father on the radio/ Singin' 'Take me home again'". Le immagini con cui si apre "Am I That Lonely Tonight" introducono subito in una dimensione fatta di memoria, di legami spezzati e del doloroso tentativo di ricucire il proprio cuore. Ad affiancare la voce assorta di Earle c'è il gruppo ormai affiato di musicisti che lo segue da sempre, con l'aggiunta stavolta di una sezione di fiati, capace di virare l'impronta classica dei brani verso inedite tonalità soul: "è il suono che avresti potuto ascoltare a Memphis negli anni Sessanta", spiega Earle, "e quello che ancora oggi si può sentire in posti come New Orleans".
Da sempre il songwriter americano sognava di registrare un disco in presa diretta, ma solo grazie agli ottimi riscontri del precedente "Harlem River Blues" ha potuto permettersi il budget necessario per affrontare l'impresa. Così, il nuovo album è stato suonato tutto dal vivo negli studi Echo Mountain di Asheville, tra le montagne del North Carolina, nella vecchia sede dell'Esercito della Salvezza in cui gli Avett Brothers hanno realizzato il loro "Emotionalism".
Il timbro di Earle jr. si arrochisce sulle note di "Look The Other Way", alleviando solo in apparenza i toni: "I'm learning to be a better man/ I'm not certain but I think I can now", canta senza timore di mettere a nudo il suo animo. "C'è una grossa differenza tra una canzone e una pagina di diario", riflette. "È questo il problema delle canzoni personali: c'è un confine molto sottile tra personale e troppo personale". Le sue canzoni, però, sembrano riuscire a cogliere proprio quel fragile punto di equilibrio, pur rimanendo sempre saldamente ancorate a forme tradizionali.
I fiati lanciano riflessi Stax sulle pieghe nostalgiche dei brani, coniugando gli accenti folk del cantautorato di Jakob Dylan con la passione per la musica del Delta dell'ultima Cat Power. A movimentare la scena ci pensa il pianoforte rockabilly di "Baby's Got A Bad Idea", mentre "Memphis In The Rain" porta Van Morrison in gita nel Tennessee. Il passo, però, torna subito a distendersi, con i romantici echi di tromba di "Lower East Side" e la carezza della steel guitar di Paul Niehaus dei Lambchop in "Won't Be The Last Time".
Tra chitarre dal tocco nitido, sussulti di contrabbasso e bordoni d'organo dal sapore gospel, il taglio più marcatamente country-folk dei precedenti lavori di Earle torna solo alla fine del disco, con una "Movin' On" che sembra voler prendere in prestito da Johnny Cash il ritmo inconfondibile dell'era Sun Records.
Superata la soglia dei trent'anni, Justin Townes racconta tutta la sua debolezza, ma anche tutto il suo desiderio: "30 years of runnin's left me standing with my back to the cold/ And it's left me most days wondering if I've ever really learned a thing at all/ But I'm trying to move on". Una domanda instancabile, che nessuna caduta riesce mai a soffocare: è questo, alla fine, a rendere veramente uomini.
11/05/2012