Il giovane dublinese Conor J. O’Brien (ex-The Immediate, effimero clone blockpartyano che qualcuno forse ricorderà...) appartiene a quella specie rara di bardi e menestrelli dallo spirito acuto e puro (viene in mente Andrew Bird, tanto per fare un esempio) che, quasi fosse una missione solenne, trascrivono fedelmente nello loro canzoni i soliloqui di fantasmi inconsolabili che soltanto essi, forse, sanno vedere e ascoltare. Il senso di un album ombrosamente fiabesco come “Becoming A Jackal” è in fondo anche e soprattutto questo.
“I Saw The Dead” è assai eloquente in tale prospettiva: una sorta di sottomarino incagliato nei fondali bui del sogno più denso nel quale prende corpo un minuscolo funerale che pare quasi di poter spiare in silenzio da un piccolo oblò appannato. Il pezzo lascia emergere un’abilità tutt’altro che comune nel dipingere con tratto nitido e preciso scorci paesaggistici di misurata variegatezza orchestrale che fanno a tratti venire in mente la geografia compositiva di un Sufjan Stevens riportata però su una scala narrativa più piccola e come raccolta in sé.
L’irlandese si presenta dunque al suo pubblico come autore di talento cristallino, dotato di mano esperta e cervello sottile, illuminato dal sole perenne di un alto e nobile lignaggio folk (vengono in mente Van Morrison, Nick Drake o John Martyn) e capace di aggrovigliare, in un nodo stilisticamente perfetto, immaginazione visionaria e certosina perizia compositiva. A questo proposito si osservi l’ordinata complessità architettonica di “Ship Of Promises”, mirabile combinazione di tensione dinamica tra pochi essenziali elementi sonori raccordati tra loro (un fraseggio di chitarra, una linea ritmica, la bellissima melodia vocale) e il rigore allucinato del loro non arrivare mai al compimento appagante di una forma chiusa nella sua prevedibilità.
Melodie morbide come velluto si adagiano sul marmo sinuoso di pochi profondissimi arpeggi di chitarra, sfumati spesso e volentieri dall’alone elegante e discreto di un respiro orchestrale (soprattutto archi e piano) che accarezza e riscalda senza mai soffocare (perfetta in questo senso l’idilliaca “Pieces”, dalle parti di Neil Hannon). Pezzi poi dall’incedere più garbato e gentile come “Home”, “That Day”, “The Pact (I’ll Be You Fever)” (che tripletta signori!) e, soprattutto, “Set The Tigers Free” (meraviglia nella meraviglia!), quasi ci convincono che, forse, l’erede di Paddy MacAloon, l’uomo che da troppi anni ormai molti di noi stavano pazientemente aspettando, sia finalmente giunto a redimere le nostre anime martoriate dalla noia. Non gridiamolo a voce troppo alta, ma potrebbe essere davvero il nostro giorno fortunato.
09/06/2010