John Martyn se n'è andato il 29 gennaio scorso: era un sessantenne scozzese a cui la vita con una mano aveva donato un talento vocale incommensurabile, mentre con l'altra gli aveva tolto progressivamente tranquillità e pace. Certo, anche lui ci aveva messo del suo, andandoci giù pesante con l'alcool, ingaggiando di volta in volta una battaglia a Risiko! con la sua timida volontà di smettere e col fascino voluttuoso della bottiglia; superfluo aggiungere che per lui era sempre una guerra persa. In amore non gli è andata meglio: il matrimonio con la cantante Beverly Kunter, sua collaboratrice agli inizi di carriera, era andato a rotoli nel 1979 dopo dieci anni, lasciando entrare John in quello che è rimasto, parole sue, il periodo più buio della sua vita. Ma non era finita qui: nel 2003 aveva perso una gamba ed era finito su una sedia a rotelle, ciononostante aveva continuato a fare concerti.
Ma non è una storia triste, quella di John Martyn; piuttosto è beffarda e subdola nel suo destino. Gli album che vanno dal 1971 al 1975, da "Bless The Water" a "Sunday Child", sono considerati dalla quasi unanimità della critica dischi importantissimi, dai quali però Martyn non caverà granché dal punto di vista delle vendite. Il suo nome diverrà invece popolare negli anni Ottanta, quando inizierà a collaborare con star quali Phil Collins ed Eric Clapton, in un periodo decisamente minore della sua carriera artistica.
Come già accennato in precedenza, la produzione migliore di Martyn sta tra il 1971 e il 1975 e i suoi due capolavori, capaci di riscattare tutte le brutture di quella vita con lui un po' generosa e un po' carogna, stanno in mezzo a "Bless The Weather" e "Sunday Child": "Inside Out" e il suo predecessore "Solid Air", entrambi del 1973. Dischi questi che gli valsero paragoni importanti e ingombranti con Tim Buckley e Nick Drake. Certo, anche Martyn come Buckley era un "navigatore delle stelle", uno che ha fatto della sua voce uno strumento, che ha usato il canto come fosse un flusso di coscienza , che ha trasformato le parole in suoni sublimi o terrificanti. Certo, anche Martyn come Drake nascondeva il tormento e il sentimento di solitudine umana dietro armonie celestiali e arrangiamenti mai sopra le righe. Ma John Martyn non era che musicalmente se stesso: aveva iniziato nell'underground folk di Glasgow con Hamish Imlach come mentore e Davey Graham come idolo, iniziando a contaminare trasversalmente il folk-rock con le strutture ritmiche e armoniche del jazz e del blues.
"Solid Air" è il disco esemplare dell'equilibrio stilistico raggiunto da John Martyn, laddove il successivo e ugualmente imprescindibile "Inside Out" è in un certo senso il suo irripetibile superamento.
In "Solid Air", prodotto dal fedele John Wood, la voce e la chitarra di Martyn sono accompagnate dai Fairport Convention (Richard Thompson alla chitarra, Sam Nicol al violino, Dave Pegg al basso, Dave Mattacks alla batteria), dal contrabbassista dei Pentangle Danny Thompson e dal tastierista John Bundrick.
La title track è un viaggio astrale dedicato all'amico Nick Drake, allora ancora vivo ma già vittima di una depressione asfissiante. L'ipnagogico canto blues di Martyn si liquefa nei tocchi vellutati di vibrafono (Tristan Fry) e nella melodia soffusa del sax (Tony Coe). La sofferenza notturna di "Solid Air" scema nel folk agreste, scolpito dal mandolino e dal violino di Richard Thompson, di "Over The Hill", contraddistinta da una melodia vocale gioiosamente malinconica.
"Don't Want To Know" ricrea l'atmosfera trasognata del brano d'apertura (è ancora il dialogo immaginifico tra chitarra acustica e vibrafono a donare intensità al pezzo), ma poi si trasforma in un folk-rock jazzato grazie ai pirotecnici fraseggi d'organo di Bundrick. Il capolavoro del disco è la cover di "I'd Rather Be The Devil" del bluesman Skip James, trasformata in un pandemonio infernale: il canto mannaro di Martyn si infervora su un incedere tribale e minaccioso di congas (Neemoi Acquaye), tastiere elettroniche e chitarra elettrica, fin quando, all'improvviso, le percussioni si acquietano e il brano si dilata in un folk psichedelico interstellare. Tale forma di blues indemoniato viene ripresa in "Dreams By The Sea", dove il mood licantropo viene stemperato per mezzo di fenomenali inserti di sax e piano elettrico.
È giusto precisare che John Martyn, oltre a possedere grandi abilità vocali, era anche un ottimo chitarrista folk, capace di tirar fuori dal suo estro tanto gli arpeggi sospirati di "Go Down Easy", quanto le armonie ondulanti e ariose di "May You Never". A proposito di quest'ultima traccia, John Wood raccontò che Martyn, alla fine delle sessioni di registrazione dell'album, insoddisfatto della versione definitiva di "May You Never", entrò in studio alle due di notte, solo con la sua chitarra, per registrarne la versione definitiva.
I due brani finali sono la summa dell'arte presente in "Solid Air": "The Man In The Station" scorre in un folk malinconico e trapassa in un blues energico; l'elegante anima britannica che incontra le tribolazioni del delta del Mississippi. Tribolazioni che diventano fantasmi da scacciare tra le cascate di accordi che inondano "The Easy Blues" e che si spengono in un finale delicatamente jazz.
Arrivato alla fine, chi scrive vi risparmia qualsiasi panegirico svenevole sull'artista che se n'è andato in silenzio, risparmiandosi anche lacrime di inchiostro con le quali commuovervi a colpi di frasi forbite: troppo facile fare i poeti sulla pelle degli altri. Adesso è il momento del silenzio: che si oda solo la voce vagante, senza meta, di John Martyn in "Solid Air". Ovunque quella voce stia andando, buon viaggio vecchio John.
Alla memoria di John Martyn (1948-2009)
01/02/2009