Si sta facendo un gran parlare in rete di questo nuovo gruppo costituito da due simpatici e giovani freakettoni originari del Connecticut. L’esordio discografico è stato da poco distribuito in Europa e, dopo aver ottenuto ottimi riscontri in Inghilterra (forte anche del supporto mediatico fornito dall’Nme), l’”oracolo” si appresta molto probabilmente a conquistare le più importanti ribalte internazionali, aiutato anche dalla spinta promozionale di una major consolidata come la Columbia.
La produzione del lavoro è stata affidata ad un veterano del pop indipendente statunitense, vale a dire Dave Fridman, e questo è già un primo e fondamentale indizio: bene o male infatti, l’ombra frastagliata dei Flaming Lips aleggia su tutte le canzoni dell’album e la formazione capitanata da Wayne Coyne rimane senza dubbio uno dei referenti più immediati di questo gruppo, soprattutto a partire dai numerosissimi richiami alla psichedelia vaporosa e sognante dei medi Sessanta.
La principale novità di tutta l’operazione risiede tuttavia nelle sfumature apertamente elettro-pop che questi MGMT (da leggere: “Management”), riescono a innestare all’interno di un tessuto sonoro di per sé animato, come detto, da un spirito vivacemente psichedelico e neo-freak. I Klaxons e tutto il roboante arsenale scenografico (ai limiti della pacchianeria) del new rave incontrano così gli slanci visionari delle comuni folkeggianti appiattate nella polverosa suburbia newyorkese, da Devendra Banhart e Akron/Family fino a Animal Collective e Panda Bear (visibilmente richiamato anche nel retro di copertina del disco).
La prima metà dell'album è quella in cui tendono a prevalere i pezzi più ritmati e dalla maggiore propensione dancereccia. A spiccare sulle altre sono soprattutto l’ormai famosa “Time To Pretend”, con un giro di synth davvero irresistibile (e papabile per qualche remix di grido) e “Kids”, ancora più contagiosa (se qualche agenzia di pubblicità per disgrazia si accorge dell’esistenza di questa canzone, i nostri rischiano sul serio di diventare miliardari…). Anche se il pezzo più estremo è “Electric Feel”, in cui si assiste a un vero e proprio cortocircuito temporale in cui Chic, Prince, Rod Stewart e Michael Jackson si mettono a jammare, fingendo di essere i Bee Gees, dopo aver bevuto (o ingerito) qualcosa di molto ubriacante. A partire da “4TH Dimensional Transistion” il disco imbocca un binario più mistico e salmodiante, e il suono si arricchisce di digressioni dal tenore vagamente orientaleggiante e parentesi folk dal piglio più rarefatto e sfuggente, che finiranno con il far apprezzare questo prodotto anche a chi si è sempre tenuto scrupolosamente alla larga dal clubbing notturno (come il sottoscritto).
E il segreto in fondo sta tutto qui: suonare la chitarra alle fermate della metropolitana e al contempo ballare sui tavolini del Billionaire con gli zatteroni allacciati al collo, voler essere Syd Barrett e al tempo stesso Freddie Mercury (e in “Of Moons…” quasi ci si riesce).
A voler allargare lo sguardo (e lo spettro) critico sulle nuove tendenze della musica attuale, si inizia forse a capire che la cifra caratterizzante di tanta musica “giovane” di oggi è la trasversalità, il totale menefreghismo per divisioni di genere, di scuola, di tradizione, tutto ha lo stesso valore, tutto si colloca su un piano di completa simultaneità, niente è davvero passato, niente è del tutto presente. Finché i risultati sono questi, non ci si può certo lamentare.
23/04/2008