L’accostamento tra il vocione di John Grant e la musica elettronica – bella danzereccia, meglio se suonata con synth analogici e accompagnata da un cassone dritto – non fa più notizia da tempo. È ormai dal 2013 di “Pale Green Ghosts” che il gigante barbuto del Michigan – ma ormai trapiantato in Islanda – fa man bassa di questi suoni e li piega alle esigenze del suo cantautorato intenso e ironico. A giudicare da tutto quanto Grant ha prodotto da cinque anni ad oggi, non fa meraviglia sentirgli spesso dichiarare amore incondizionato per l’industrial e la minimal wave della Sheffield degli ultimi anni Settanta, con un particolare riguardo per i Cabaret Voltaire. E quindi questo progetto denominato Creep Show, che Grant condivide con Stephen Mallinder (che dei Cabaret Voltaire è stato voce e basso), in fin dei conti non è chissà quale sorpresa. Completano la formazione Benge e Phil Winter – compagni di Mallinder nei Wrangler.
Creep Show, di nome e di fatto. Manco parte, che “Mr Dynamite” si presenta – letteralmente – per quel che è. Un ribollio di synth analogici rubati a chissà quale rigattiere e voci filtratissime, impegnate in un continuo cabaret nonsense. Insomma, basta far scorrere la title track per due minuti per capire che la descrizione che lo stesso Mallinder ha fatto del progetto non è stata buttata lì per fare scalpore: “Spores of Seventies sci-fi, post-punk electronic music, bad taste, broken synthesisers, luscious film soundtracks, and dubious band t-shirts”.
Difatti lungo la scaletta di “Mr Dynamite” le stramberie si sprecano, tipo quando Mallinder si fa un dialogo in giapponese con la voce automatica della metro di Tokyo (”Tokyo Metro”). Sono più misurati, invece, i momenti dove a comandare sono i toni caldi e densi della voce di John Grant, come “Modern Parenting”, che sfocia in un finale di coretti pop al femminile, o la conclusiva “Safe And Sound”, un pezzo che non ci si sarebbe stupiti di trovare nel suo recente catalogo solista.
Il sale dell’intero lavoro è proprio l’eterno confronto tra i modus operandi dei due protagonisti, uno composto e suadente (Grant) e l’altro mascherato, frammentato e schizoide (Mallinder).
L’unico problema – non da poco – di un disco altrimenti completamente affascinante è la mancanza di mordente di alcuni suoi momenti (“K Mart Johnny”, “Lime Ricky”), che privi come sono di spunti melodici interessanti e di sussulti, ne rendono impotente, invero un po’ noioso, anche il forte impatto estetico.
Tocca prenderlo come un capitolo introduttivo volto a inscenare un mondo. Sperando che ce ne siano di nuovi, colmi di altre storie ancora più queer e movimentate di quelle qui raccontate.
26/03/2018