Un occhio rivolto al presente, uno al passato musicale dell’ormai affermato indie-kid Zach Condon in questa nuova e inconsueta uscita a nome Beirut. Non si tratta infatti di un album ma di un doppio Ep, che da un lato raccoglie i frutti della sua ultima esplorazione della musica tradizionale condotta in giro per il mondo e dall’altro rispolvera vecchie registrazioni casalinghe a nome Realpeople, risalenti al periodo anteriore al debutto “Gulag Orkestar” e quindi alla sua rivelazione etno-folk.
Dei due Ep, il primo, “March Of The Zapotec”, è certamente il più significativo e quello che permette di contestualizzare una linea evolutiva nella musica di Condon, poiché rappresenta la testimonianza del suo più recente viaggio nella cultura tradizionale di un’area geografica. Questa volta la sua meta è stata il Messico, ma, come nei precedenti casi dei Balcani e dell’Europa centrale, la sua attenzione si è rivolta esclusivamente agli aspetti bandistici della musica di quei luoghi, realizzando pertanto sonorità assimilabili a quelle del resto della discografia di Beirut, se si eccettua un tocco solo parzialmente “latino” e una vena meno ridanciana ma parimenti magniloquente, determinata stavolta dalla collaborazione con una banda funeraria della regione messicana di Oaxaca, composta da ben diciannove elementi. Inni funebri e marcette in apparenza gioiose si alternano lungo le tre canzoni e i tre frammenti strumentali dell’Ep, tutti connotati dall’incedere imponente dei fiati e solo a tratti coronati da quell’andamento da ballata e da quell’attenzione per le melodie che in “The Flying Club Cup” denotava una certa crescita di Condon in termini cantautorali.
Ritmi sincopati e una sottile vena nostalgica, nella quale Messico ed Europa sembrano confondersi, costituiscono la cornice entro cui Condon convoglia i molteplici spunti della sua musica e un songwriting che solo nell’ottima “The Akara” e in parte in “La Llorona” conferma un’accresciuta sensibilità melodica e una cura ulteriore rispetto a quella per il mero suono, ormai già definito a sufficienza nei lavori precedenti.
Radicalmente diverso è l’aspetto del secondo Ep, i cui brani palesano la passione adolescenziale di Condon per il synth-pop, peraltro già affiorante in un paio di episodi dell’album di debutto. Qui però la pianola e le giocosità analogiche prendono il sopravvento, sfociando in una serie di suoni e versi sparsi senza troppo costrutto che, pur con tutte le attenuanti dell’ingenuità della loro composizione, risultano monotone e a tratti persino banali.
Meglio allora tornare al presente e seguire le tracce di Condon verso la prossima meta del suo itinerario di turismo musicale, auspicando magari la prosecuzione di quel percorso di maturazione riscontrabile in “The Flying Club Cup” e solo marginalmente presente in questo doppio Ep, accanto a troppi riempitivi e a tentativi non ancora compiuti di indirizzare l’obiettivo della scoperta verso ulteriori, inedite tradizioni musicali.
17/02/2009
Realpeople: Holland