Mi trovo ora ad ascoltare questo “Americal Doll Posse” e di una cosa sono particolarmente stupìto: delle mancate grida per un nuovo lavoro di Tori Amos, poetessa che ha segnato indelebilmente le pagine del songwriting al femminile (e non). Manca l’hype, come se la rossa passasse ormai inosservata, come se venisse considerata alla stregua della vecchia cantautrice ormai decrepita o della novellina che nessuno si fila.
La Amos di fortuna e bravura ne ha avuta molta, ma pare che l’ispirazione l’abbia abbandonata diverse stagioni fa. E allora partono i ricordi, e quelle deliziose note che uscivano come acqua e sapone da quei gioielli che rispondono ai nomi di "From The Choigirl Hotel" o "Under The Pink", note dolci e sbarazzine che sussurravano che sognare è ancora possibile. E tornano alla mente le delicate filature pop di "Cornflakes Girl", e torni d’un botto indietro di una decade. E ci si sente invecchiati nel pensare che, sì, è passato in fondo un mucchio di tempo. E l’effetto della vecchiaia, musicale s’intende, Tori Amos pare lo stia scontando dal 1999, da quel "To Venus And Back" che poteva essere, comprensibilmente, un album sbagliato, una caduta di stile che ci può stare. E invece no, era un po’ l’inizio della fine. Da allora ha inanellato, uno dietro l’altro, album mediocri, di poco spirito e sostanza.
Eppure nella rinascita noi ci credevamo. C’era il desiderio di sentire un buon disco, un disco convincente che ci facesse dire che la poetessa era tornata forte, che la sua voce esile ancora tuonava, che avrebbe ancora potuto toccare vertici di pura eccellenza. Eppure nulla. E forse non doma, forse volendo cercare il capolavoro, aspirando alla perfezione pop, ha sfornato queste 23 tracce. Tracce che puzzano di megalomania, quasi la Amos volesse dimostrare a tutti i costi che è ancora in grado di comporre ottima musica. Ma nulla: "Mr. Bad Man", "Digital Ghost", "Posse Bonus", "Body and Soul" sanno di marcio.
La voce, tirata a lucido, è sempre capace di disegnare archi sinuosi, ma quello che manca a "American Doll Posse" è l’umiltà, l’umiltà di mettersi al tavolino e scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa che ti faccia sobbalzare, qualcosa di emozionante. Il pattume generalizzato sembra invece incontrastabile e gli spartiti si rincorrono in un autoreferenzialismo quasi sfrenato.
Pare allora piuttosto naturale tentare uno skip (che diviene quasi sistematico) di fronte al banale country-pop di "Big Wheel" o in "Teenage Hustling", traccia nella quale la Amos modella la voce a immagine e somiglianza di un vecchio rocker che non vede l’ora di andarsene in pensione. E se in "Girl Disappearing" si segue la scia di una melodia ariosa e dai contorni quasi gotici, "Secret Spell" rincorre (ancora!) le orme di quel pop facile facile, quello da singolo fumante da dare in pasto a quattro fan sfegatati, come se potesse bastare così poco a sfamarli. E anche quando cerca di estrarre qualcosa di originale dal cilindro, vedi "Programmable Soda", sorta di teatrino con marionette in vago odore Cocorosie, Tori pare non trovarsi a suo agio.
Non ce ne voglia, se la stroncatura è piuttosto netta, ma un ennesimo passo falso non ce lo aspettavamo. D’altronde, come si fa a non rimanere delusi quando sono praticamente assenti i guizzi, quando l’album ruota attorno a una proposta, oltre che inconsistente e noiosa, anche sgradevole e irritante? La delusione è totale, perché speravamo nel colpo di coda dell’artista di classe, e invece ci ritroviamo fra le mani un disco che dura 80 minuti (Dio ce ne scampi!), 80 minuti scialbi e opachi, dove di perle se ne conta forse una ("You Can Bring Your Dog”, riuscito jappo-rock). Un album dal quale si potrebbero estrarre moltissimi singoli à-la Coldplay per intenderci. Ma non è questa la strada, cara Tori. Di nuovi sconforti non avevamo davvero bisogno.
E ora, come giovani traditi dal loro primo amore, ci togliamo le cuffie, le riponiamo e preferiamo ricordare. Perché è ormai nel ricordo della Tori Amos degli anni d’oro che riusciamo a riconciliarci con lei.
03/05/2007
Bonus Track con Dvd