“Perché mi sto nuovamente facendo strada verso me stessa”. Forse risiede in questo passaggio di “Oysters” lo spirito che accompagna il nuovo lavoro della cantautrice del North Carolina, colei che un tempo era solita tenere spalancate le porte del proprio io più profondo. Impossibile apprezzare la sua opera senza prima averle attraversate, penetrando nella selvatica intimità di quelle confessioni infuocate che erano le sue canzoni.
Proprio nel momento in cui veniva dissolto questo connubio tra vita privata e artistica, Tori Amos finiva per sprofondare in un abisso, persa per anni in un guazzabuglio di concept e messe in scena improbabili. Tra dolls e mistress di porcellana, la cornflake girl diventava quindi irriconoscibile. Ma, al di là di stucchevoli considerazioni sulla genuinità di tali scelte stilistiche, erano proprio le canzoni a venire a mancare, con i pochi episodi davvero convincenti diluiti in lavori strabordanti e pasticciati. In pieno caos artistico, ancor prima che di identità, cercava conforto in quella musica classica un tempo ripudiata ma che paternalmente la riaccoglieva tra le sue braccia. I grandi maestri omaggiati in “Night Of Hunters” permettevano quindi una timida seppur incerta risalita in superficie, bloccando temporaneamente il pericoloso circolo vizioso. Ma, dopo anni dall’ultimo disco di inediti, un’ultima prova di appello l’avrebbe presto o tardi attesa al varco.
Oggi troviamo una donna cinquantenne che, forse consapevole degli errori del passato, decide di fare marcia indietro e tornare alle proprie origini. Sorprendentemente, “Unrepentant Geraldines” è un passo felice e convincente in questa direzione, proponendo finalmente un riuscito mix di melodie catchy, spezzate da intuizioni ispirate e finalmente libere dai bolsi arrangiamenti della scorsa decade. Il tutto con una ritrovata naturalezza e sobrietà che sembravano ormai perdute per sempre.
Com’è lecito aspettarsi, i rimandi al passato non mancano: “America”, “Wedding Day” e “Trouble’s Lament”, spruzzate di scarni arrangiamenti folk, trasportano quest’ultima fatica proprio lungo le highway percorse con “Scarlet’s Walk”, mentre “Wild Way” richiama prepotentemente gli episodi più melodici di “To Venus And Back”. Nonostante ciò, il ritorno alle origini della Amos sembrerebbe interiore ancor prima che stilistico, mirato più a ripristinare il dialogo personale con il suo Bösendorfer che a inseguire facili autoreferenzialismi. Non è quindi un caso se l’eterea “Weatherman” diventa uno degli episodi memorabili del lotto, così come la ballad “Selkie”. Ma è con l’ottima “Oysters” che l’Americana getta la maschera e torna a svelare il suo lato più vulnerabile con la sua tipica delicatezza: trovata la pace interiore, prova di nuovo a tramutare in perle le sue girls - così da sempre ama chiamare le sue canzoni - trascurate da troppo tempo. Di sicuro, al di là dei proclami, il brano mostra confortanti progressi anche da parte della voce, tornata espressiva e sicura.
Non mancano le sorprese: pattern elettronici scanditi da rintocchi di pianoforte (“16 Shades Of Blue”) e omaggi nientemeno che ai Police degli esordi nella toccata della title track, la quale sfuma in una fuga pianistica di pregevole fattura. Concedendoci un pizzico di ironia, il ritrovato minimalismo ha l’involontario merito di limitare gli interventi chitarristici di tale Mac Aladdin, aka Mark Hawley, marito della cantautrice di Newton nonché musicista ormai in pianta stabile nello staff della stessa; purtroppo non esattamente all’altezza dei suoi illustri predecessori.
Non sono comunque tutte rose e fiori, in quanto “Unrepentant Geraldines” è minato in alcuni punti da ingenuità e scelte discutibili. In una tracklist finalmente contenuta e con una coerenza stilistica fedelmente perseguita, una composizione come “Promise” difficilmente trova un senso: la banalità dello scambio tra Tori e sua figlia Tash (stavolta ospite per un solo brano) è aggravata da un lavoro di produzione davvero sciatto, tra percussioni plasticose ed effetti al limite dell’amatoriale. Altro errore maldestro sta nell’inserire la frivola e barcollante “Rose Dover” tra “Oysters” e la toccante conclusione “Invisible Boy”, spezzando in malo modo un possibile continuum emotivo che avrebbe posto un sigillo semplicemente perfetto sull’opera.
Tuttavia, dopo album in cui erano i brani da salvare quelli ghettizzati, queste cadute non pregiudicano la sensazione generale di un lavoro che finalmente ha qualcosa da dire e sopratutto di un trend positivo ormai evidente.
Ciò che rimane dopo questo gradevole episodio è un forte auspicio per il futuro: perseverare su questa via ritrovata, magari riportando in alto come un tempo il tasso tecnico dei propri lavori, al momento ancora troppo pregiudicato da un approccio eccessivamente “casalingo”. Memori di quei gioielli di produzione che furono “From The Choirgirl Hotel” o l’incompreso “Strange Little Girls”, realizziamo che i margini di miglioramento sono ancora evidenti.
In fondo, ora che le girls sono tornate a sorridere, perché non donar loro una veste adeguata?
15/05/2014