Stavo per prendere un anno di pausa, ma le canzoni hanno preteso che io ne raccontassi la storia, ed essa parla di ciò che avviene sotto al rosa. Ecco perché l'album si intitola “Under The Pink”. Questa è soltanto una piccola parte di quanto avviene in quel mondo. Se si staccasse la pelle da ciascuno di noi, tutti quanti saremmo rosa, per come la vedo io. E l'album racconta di cosa avviene al suo interno. (…) Molte altre canzoni vivono sotto quel rosa. Queste sono alcune tra esse, queste sono le ragazze che hanno deciso di presentarsi alla festa.
(Tori Amos, 1994)
1994: difficile, se non impossibile, obiettare sulla centralità che quest'anno ha assunto per l'evoluzione delle più disparate forme di quel maxi-calderone a cui genericamente può essere dato il nome di “rock”. Dai
Bark Psychosis ai
Nine Inch Nails, dai
Low ai
Portishead, passando per i
Soundgarden e
Beck, la convergenza in una sola stagione di dischi che a loro modo hanno saputo stabilire punti fermi e lanciare nuove sfide per le generazioni a venire ha dell'inverosimile, se non del miracoloso.
Ed è un “miracolo” che nella sua audace alchimia si porta appresso anche un pizzico di rosso. Rosso come fieramente rossi sono i capelli di Myra Ellen Amos, in arte semplicemente
Tori Amos, tra le cantautrici, se non la cantautrice, che al chiudersi del secolo scorso ha contribuito a traghettare il
songwriting delle muse del passato verso una forma più impetuosa, irruenta e passionale dello stesso, ridefinendone tematiche ed estetica. Prima però di procedere con i perché e i percome, è necessario compiere due passi indietro.
In prossimità dell'uscita del suo secondo disco solista, la Amos era infatti tutt'altro che una novellina. Con alle spalle una lunghissima gavetta nei bar di mezza America (da Los Angeles passando per il Maryland), e addirittura con un doppio esordio, prima come spavalda leonessa a capo dei
synth-popper "Y Kant Tori Read", successivamente in solitaria, fiancheggiata dal fido pianoforte nei suoi piccoli terremoti, aveva acquisito un'esperienza che non la poneva come l'ennesima piccola chanteuse da un bel disco e via.
Piuttosto, in quelle dodici ballate, in quella febbrile messa a nudo di un'anima sensualmente tormentata, spiattellata nero su bianco lungo tutto quanto “Little Earthquakes”, si annidava il presagio di tensioni e passioni ancora tutte da scoperchiare, di segreti inconfessati e sguardi inediti con cui osservare il mondo. Le premesse per un lavoro sensazionale, già sfiorato con quelle intime scosse telluriche per altro, erano una solida realtà.
Se infatti nel suo primo atto non mancavano né le idee melodiche originali (e ve ne erano a profusione, vedasi l'approccio tutt'altro che convenzionale con cui la Amos affronta ballate pianistiche come “Silent All These Years” e “China”, ballate che nelle mani di altre avrebbero avuto il sapore di mere imitazioni
bushiane), né la caratura interpretativa (basterebbe la sola “Crucify” per mettere a tacere un numero imprecisato di fatine al pianoforte), era quel
quid, quella scintilla necessaria a fare di un gran disco un capolavoro, che ancora non si era presentata all'appello.
E la scintilla, in maniera quasi
dickinsoniana si potrebbe dire, è arrivata puntuale con l'isolamento: una fuga dal caos e dalla frenesia urbana, in una
hacienda nel New Mexico, a scavare fin quanto fosse possibile nei lati più nascosti dell'interiorità e lasciare che da essi la poesia affiorasse pura, incontaminata. Sbucano così, senza forzature, ma col fremito di chi ha qualcosa di avvincente da raccontare, le sue ragazze, le dodici tra le confidenti che hanno voluto rivelarsi al creato e affidare il proprio messaggio ai quattro venti.
L'introspezione martoriata che aveva permeato solo due anni prima la musica della Amos giunge quindi a un punto di svolta incontrovertibile: laddove era il gelo di un inverno infinito a suggerire emozioni e indignazione in punta di piedi, è una rabbia ostinata, l'avvisaglia di una ribellione feroce, a mettere in subbuglio le piccole storie che scorrono sottopelle. E da piccole, finiscono per diventare grandi, grandissime. Superate con agilità le fiabe romantiche di
Kate Bush, riposta in un cassetto l'influenza
mitchelliana, la cantautrice statunitense concepisce alla seconda prova importante una peculiare forma di cantautorato che ha finito per fare scuola. Perché se è vero che l'inizio degli anni 90 ha favorito lo sbocciare in ogni dove di donzelle armate della propria bile e poco altro, ben poche hanno saputo catalizzare il risentimento in un'espressione artistica che avesse una validità musicale sua propria.
L'epopea
riot grrrl/
grunge che in quegli anni furoreggiava per ogni dove in America mostra dunque il suo lato più calibrato e “misurato” (si prenda il termine con le pinze) all'alba del 1994, allorché “Cornflake Girl”, pezzo apripista per il disco (quantomeno in Europa, negli States il compito venne assegnato a “God”) e destinato a segnare per sempre la carriera dell'autrice, arrivò sugli scaffali dei negozi. Un giro di mandolino, una batteria swingata in quattro quarti, e quel pianoforte a grondare sentimento ad ogni nota: tutto ben congegnato, con scelte stilistiche particolari, ma fin troppo educato, almeno inizialmente, per poter essere accostato anche alla lontana con le schitarrate sferzanti dell'ultima band dallo stato di Washington. Parte poi il ritornello, quella voce che si protende in un grido liberatorio (“you bet your life it is, you bet your life it is, ooh, you bet your life... it's a peel out the watchword, just peel out the watchword) e forse, quel contatto col
soft/loud che ha caratterizzato un'intera stagione del rock non parrà così strano, anche senza l'appoggio soverchiante delle sei corde iniettate di elettricità.
Di fatto, è proprio nell'avere conciliato, gettato un ponte tra le forme più peculiari e spregiudicate della canzone d'autore (principalmente di dissacrante stampo 70's) e lo sdegno esistenziale distintivo della generazione grunge, che “Under The Pink” coglie una lettura particolare del proprio
zeitgeist, decifrato con una sensibilità totalmente rinnovata sotto ogni profilo (stilistico
in primis, com'è ovvio), e capace di testi tra i più viscerali e ispirati del periodo. I dialoghi che si instaurano tra il pianoforte (Bösendorfer, un assoluto culto per la cantautrice che non se ne separerà più da allora in poi) e la voce, libera come mai in precedenza di esplorare tutte le sue possibilità comunicative, si presentano infine come uno scontro tra due personalità dotate di vita propria, una battaglia indefessa in cui a spuntarla non è nessuno dei due contendenti, ma che forse per questa ragione risulta essere necessaria.
E' da questa singolar tenzone che infatti escono fuori le ruvide scariche di “The Waitress”, rette sul nervosismo delle strofe che ben esemplificano il detto “la quiete prima della tempesta” (per quanto il testo poi si lanci in un'amara invettiva verso un'altra interlocutrice femminile che ben poco ha di quieto), come anche i fulminei abbrivi vocali che si affacciano durante lo sviluppo dell'introduttiva “Pretty Good Year” (dedica a una lettera ricevuta da Greg, misterioso ragazzo inglese convinto di essere arrivato al capolinea della propria vita). E' su questa polarità e unione tra i due attori principali su cui gran parte del lavoro poggia di fatto le fondamenta, anche quando, e ogni tanto accade, i tratti melodici approdano a una cooperazione decisamente meno nervosa, quasi conciliante, con la loro controparte sonora.
Accanto alle imponenti impennate dallo spirito rock, la Amos mostra infatti di non voler fare piazza pulita delle fertili intuizioni che ne avevano caratterizzato l'esordio, ed ecco che a contraltare di canzoni ben più piene negli arrangiamenti (basso e batteria assumono un ruolo sicuramente più importante rispetto al passato) trova spazio quel lato della sua indole artistica votato alla ricerca dell'essenzialità, in delicate ballate che stemperano l'impeto grandioso di quelli che si ergono a mo' di voluttuosi e trascinanti
j'accuse in musica.
Il pianoforte modificato a mo' di glaciale carillon che accompagna l'artista in “Bells For Her” (unica deviazione in tutto l'album dal suo vero feticcio), nel suo sofferto mormorare, con quel tintinnare di tasti che pare il suono di mille frecce scagliate al cuore, ammansisce le sincopi viscerali che intrecciano la velenosa filippica di “God”, ad oggi il più vivido, fisico, conturbante dei suoi attacchi verso la religione, da sempre vissuta in maniera conflittuale e oppressiva (“God sometimes you just don't come through, do you need a woman to look after you”, “a few witches burning gets a little toasty here, I gotta find find find, why you always go when the wind blows”, chiosa con amaro sarcasmo nelle prime due strofe del brano). Allo stesso modo, la toccante ammissione della propria freddezza emotiva verso un lui non meglio precisato, nel classicismo addolorato di “Baker, Baker”, funge da ponte tra le evoluzioni pirotecniche di “Past The Mission” (che in tre minuti e mezzo vanta i
backing vocals di
Trent Reznor, una partenza simil-reggae e un inciso sottilmente
arty, di cui d'ora in poi sarà assoluta maestra) e il circolare tiro vaudeville di “The Wrong Band”, ironica e appassionata metafora sulla vita delle prostitute, anch'essa corredata da repentine ascese vocali.
E' quindi anche nell'ampio ventaglio di tematiche affrontate nei testi che la Amos porta a segno la sua seconda grande vittoria, dando sfoggio di un istinto poetico innato. Non soltanto una personalità complessa da sviscerare in tutti i suoi lati e dare in pasto agli ascoltatori (per quanto già questo sarebbe stato sufficiente), al simposio della pianista si uniscono anche altri convitati, ognuno a fornire il proprio personale contributo. Filosofia, religione, sessualità, condizione della donna spostano il baricentro della proposta lirica ben oltre le paturnie post-adolescenziali di tanti colleghi. Da sempre osservatrice attenta della psicologia femminile e dei rapporti tra i due sessi, anche se lontanissima da posizioni di spicciolo femminismo barricadero, la rossa del North Carolina non ha mai accennato a diminuire i suoi sforzi in tal senso, firmando versi che gettano uno sguardo, potente e vulnerabile allo stesso tempo, nei confronti dell'esistenza e del mondo.
E lo sguardo raggiunge una messa a fuoco inaudita proprio nei brani racchiusi in questo disco (a cui risponderà quattro anni dopo l'abissale voragine emotiva di “From The Choirgirl Hotel”), contagiando inesorabilmente il tessuto compositivo del lavoro. Storie di amicizie che si sfaldano, lasciando dietro di sé vuoti difficilmente colmabili (le famose blankettes di “Bells For Her”), donne che ammetterebbero candidamente di annientare altre donne senza provare alcun rimorso (“The Waitress”), parabole di tradimenti ed emarginazione (la stessa “Cornflake Girl”) moltiplicano i punti di vista e gli attori messi in campo, con un motore immobile a coordinarne le fila. Capita così, che tra fallimentari tentativi di riacquistare l'innocenza perduta (“Icicle”, retta sul tono crepuscolare della linea di pianoforte), rapimenti narcotici dettati da droni di basso e chitarra (“Space Dog”), e sonate squarciate da un'indifendibile malinconia (“Cloud On My Tongue”), il demiurgo-Tori trovi il modo di sfruttare il rigore formale delle amate-odiate
piéce di musica classica e veicolarlo in una
suite che di “classico” ha forse soltanto le influenze.
Capita infatti così, che durante i nove minuti e mezzo di “Yes, Anastasia”, omaggio alla
Gran Duchessa di Russia uccisa assieme al resto della famiglia reale (secondo varie dicerie, l'unica superstite), il connubio di minuetti d'impronta
debussiana, altisonanti e epiche distese orchestrali e maestose iterazioni melodiche, la Amos riassuma, e al contempo porti alle estreme conseguenze, la carica dirompente e impetuosa della sua arte: un'arte fatta di spigoli e laceranti contrasti, ma anche e soprattutto un'arte capace di restituire lustro e raffinatezza alla figura della cantautrice al pianoforte, legata fino a quel momento a pochissimi modelli da cui era difficile sottrarsi. Con “Under The Pink” il processo subisce un'inversione di tendenza nettissima, spianando la strada a tante nuove figure dotate dell'elegante strumento a coda.
A seguito dell'importante risultato commerciale raggiunto (numero uno nel Regno Unito;
long seller negli Stati Uniti, dove si ferma a una dodicesima posizione, ma arriva a vendere oltre due milioni di copie; ripubblicazione in Oceania con tanto di secondo disco contenente le
b-sides dei vari singoli), e delle impressionanti
performance dal vivo, che le doneranno il titolo di “Goddess of rock”, il mondo accoglie a braccia aperte il carisma felino della cantautrice, che farà succedere a questa opera seconda, per tutti gli anni 90, una serie di lavori che ne confermeranno lo
status di icona alternativa del decennio. E nonostante la musa dell'ispirazione si sia appannata con l'avvento del Nuovo Millennio, l'onda lunga dei suoi primi cinque dischi, specialmente di questa brulicante vita sotto il rosa, sta a testimoniare a tutte le
piano-girl emerse da lì in poi quanto un simile scrigno di canzoni rappresenti ancora un baluardo inespugnato. E scusate se è poco.
06/01/2013