La fugace apparizione dei Bark Psychosis ha lasciato in dote al rock uno dei tesori più preziosi degli anni Novanta. Prima dell'inaspettato ritorno nel 2004 con "Codename:Dustsucker", infatti, "Hex" è rimasto per diversi anni l'unico vero album di questa peculiare formazione britannica, riuscita nell'impresa di "sublimare" la lezione psichedelica del passato in miniature sonore avanguardistiche, al crocevia tra sonorità ambientali e musica da camera.
Nata nel 1990 e costruita attorno al duo Graham Sutton (voce e chitarra)-Daniel Gish (tastiere), la band dà vita a una serie di singoli, che saranno poi raccolti su "Independency". Quindi, nel 1994, decide di affrontare la sfida della lunga distanza. Il risultato è quello strabiliante ibrido di suoni, rumori e silenzi di nome "Hex". Sì, anche silenzi, perché non va sottovalutato il ruolo giocato dalle pause nella musica dei Bark Psychosis. Sutton stesso ne ha spiegato la motivazione: "Se vivi in una città rumorosa come Londra, l'ultima cosa che hai voglia di sentire è nuovo rumore, così siamo arrivati a scoprire che il silenzio può essere molto più potente di qualsiasi rumore".
Ecco, dunque, un uso scientifico dell'indugio, del rallentamento, della stasi, non come mero esercizio di stile, ma come fattore decisivo nella costruzione di un suono autenticamente "psichedelico". L'approdo, tuttavia, non sono i paradisi artificiali di baudelairiana memoria, bensì un incubo a occhi aperti o, nel migliore dei casi, una dolorosa catarsi. Si prenda, ad esempio, l'ouverture di "Loom", con quella intro classicheggiante, costruita su arpeggi delicati di chitarra, rintocchi di piano e un languido basso "fretless", da togliere il fiato, prima che più sinuosi ritmi elettronici, di matrice funk, prendano il sopravvento. È un avvio così toccante da riportare alla mente gli scenari più celestiali dei Talk Talk di "Spirit Of Eden".
Ma nei vortici sonori dei Bark Psychosis non è difficile scorgere anche l'eco lontana degli shoegazer - My Bloody Valentine in testa - di quel rock rumoroso e melodico al contempo, che ha segnato la scena britannica dei primi anni Novanta. In più, la band di Sutton riesce ad aggiungere una sensibilità squisitamente jazz e una propensione all'ambient music, due elementi che contribuiscono a estendere il nucleo melodico di partenza in dilatatissime jam session. È il caso anche di "A Street Scene", che inizia lenta, con un andamento ipnoticamente monocorde, quindi prende forma, tra trombe lugubri, riff jazz-funk e chitarre dissonanti, per impennarsi in un crescendo mozzafiato e infine stemperarsi lentamente in un lago di accordi diluiti, sconfinando in territori vicini a certo neo-jazz da camera.
Tra le varie fasi delle jam non c'è mai discontinuità, ma un susseguirsi fluido di arrangiamenti. Splendide trame tastieristiche e la chitarra cristallina di Sutton fanno da padrone in "Absent Friend", che sfocia in un finale sinistro con una lunga scia di sibili minacciosi. L'atmosfera notturna di "Big Shot" si colora di oscure venature funk, con un basso dub sornione che si fa largo tra i vapori di nebbie "ambient".
Forse, però, il capolavoro nel capolavoro è "Fingerspit", ammaliante alchimia di minimalismo e rumore, rabbia e romanticismo. Una ballata crepuscolare che cerca di scrutare nel silenzio, attraverso le poche luci e le tante ombre. Le impalpabili frasi di chitarra, le aspre dissonanze, i tenui rintocchi del piano tessono una filigrana sonora tanto eterea quanto tesa e angosciante. Alla fine, la musica pare spegnersi inesorabilmente, dissolvendosi in uno scenario di cupa desolazione urbana ("every night/ streets leave their mark on my skin.../ I can't find any way out"). Andamento simile anche per "Eyes And Smiles": i limpidi arpeggi di chitarra e le suggestioni del mellotron si combinano con le note dolenti di una tromba e con il drumming corposo di Mark Simnett, prima che il brano si sgretoli in una sequela infinita di tremolii di tastiere e che la fanfara torni a ruggire.
Il disco si chiude in bellezza, con i quasi dieci minuti di "Pendulum Man", incanto sonoro interamente strumentale, che sembra fungere da colonna sonora a un film immaginario. È probabilmente il brano più ambizioso del lotto: i riverberi del piano e degli strumenti a corda si fondono con i sibili cosmici delle tastiere, in un paesaggio sonoro all'insegna della più estatica contemplazione. È un collage di sonorità liquide, al limite della new age, che penetrano la mente delicatamente, instillando un senso di serenità profonda. Una dolce catalessi alla quale abbandonarsi completamente. L'esito non è così lontano dai momenti più "trascendenti" di David Sylvian e Slowdive.
Quelle di "Hex" non sono canzoni, ma pura tessitura sonora. La lezione degli shoegazer e del dream-pop, quel gusto tipicamente britannico per costruzioni sonore dilatate, che fluttuano libere come nebulose, senza peso e senza forma, si combina nei Bark Psychosis con i primi semi del post-rock (l'attitudine "free-form", il recupero delle vecchie jam, seppur svuotate di ogni aspetto ridondante) e con il retaggio del rock languidamente anemico di gruppi come Galaxie 500, Spacemen 3 e Mazzy Star. Il risultato è un disco unico, che assorbe tutte queste influenze e le riveste di nuova energia, proiettando una scia luminosa sugli anni a venire.
26/10/2006