Taglia e cuci? Forse nell'era del computer è più adatto copia e incolla? Suona male, troppo freddo… Meglio dire che si tratta di un gioco, di un collage di quelli che si facevano da bambini, di un frullatore impazzito da cartone animato che, acquisita improvvisamente coscienza, si diverte a mescolare ciò che qualcuno ha appena ricomposto. Ecco, forse queste sono definizioni che meglio si adattano a "Mellow Gold", il debutto su di Beck etichetta major, uscito all'inizio del 1994.
E che razza di debutto! Un album strapieno di tutto, di citazioni, variazioni, stravolgimenti di canoni che si credevano acquisiti ma anche, perciò, ricco di radici. Blues, folk, hip-hop, musica indiana, rock, indie-rock, rap, e chi più ne ha più ne metta, Beck Hansen padroneggia questi linguaggi con una maturità impressionante, tirando fuori dal cilindro ogni volta una cosa nuova, un mai sentito, una sorpresa. Ancora più sorpresi si rimane se si pensa che sebbene registrasse già dalla tenera età di diciotto anni, quando ha inciso gran parte delle canzoni di questo disco, Beck aveva solo ventuno anni e ha suonato praticamente tutto da solo, con una mano in fase di composizione di alcuni pezzi del suo amico hiphopparo ultra indipendente Karl Stephenson.
Beck aveva già licenziato, oltre a singoli sparsi, due album/raccolta delle sue numerose registrazioni casalinghe, entrambi usciti nel 1993 ed entrambi diventati successi underground . Quando comincia a girare il singolo "Loser" è ancora il 1993 ed è una folgorazione, in molti rimangono colpiti dalla strana miscela di stili unita all'immediato impatto Fm della canzone. Impossibile dimenticare il ritornello anti-"We Are The Champions" (Queen), con il suo inno spanglish per i perdenti di tutto il mondo: "Soy un pierdedor, I'm a loser baby so why don't you kill me?" (Sono un perdente, sono un perdente piccola e allora perché non mi uccidi?). Impossibile non farsi catturare da un riff acustico blues campionato e ossessivo, con l'accompagnamento di una ritmica indolente basso/batteria, su cui è montato un cantato rap decisamente surreale.
Ma non è che l'inizio. In tutto il disco i testi sono un cantico all'orgoglio della sconfitta, alla vita disastrata e allo squallore quotidiano dei panorami urbani abbandonati a se stessi, tra vicini che litigano, ubriacature di birra e sogni di fuga, oppure alla solitudine di anime perse nel nulla delle grandi pianure "cercando fortemente di non pensare". "Gli azzurri cieli suburbani" dei Beatles di "Penny Lane" sono adesso tramonti in "cieli color pallido spazzatura", dove "un gigantesco dildo schiaccia il sole". L'umanità di Beck fa lavori come il lavapiatti o il commesso-sguattero, ma, a partire proprio dalle sconfitte, prende tutto con filosofia e anzi arriva a vantarsene e a sbattere in faccia al mondo il suo essere perdente, sfoderando soprattutto l'ironia di chi non ha nulla da perdere, con soltanto qualche anelito di ribellione. Ride di ciò che gli accade intorno, di quelli che si affannano per nulla, ed esalta le piccole gioie di tutti i giorni, come quelle che può dare il vecchio divano di casa.
Spesso si rischia di sconfinare nella rassegnazione, di crogiolarsi nel fallimento, ma in un mondo che ti vuole per forza vincente, meglio essere un perdente convinto che credersi un vincente e scoprire troppo tardi di essere stato preso in giro. Il tutto potrebbe essere l'opera di un J. Mascis meno egocentrico e rockettaro, ma più poetico (e non manca la sua influenza anche musicale). Oppure potrebbe essere la filosofia di un Homer Simpson rock, non a caso questo personaggio dei cartoon diventa una celebrità proprio in quegli anni, ancora spontaneo e sincero "perdente di successo" prima di diventare in tarda età l'ennesimo fautore dei buoni sentimenti familistici e borghesi (Beck sarà anche ospite in una puntata de "I Simpsons"). "Tentare è il primo passo verso il fallimento" potrebbe essere benissimo una citazione da "Mellow Gold". Non si deve credere però che questo "orgoglio perdente" sia necessariamente funzionale al potere costituito, contestazione troppo facile a farsi; un perdente conscio di esserlo, soprattutto delle trappole che gli tende la vita, è più pericoloso per il potere di uno che non sa di esserlo il quale invece è facilmente manovrabile con mille illusioni. Beck in quest'album smitizza lo smitizzabile, sparge cinismo (i Devo sono un'altra influenza) e diffonde a piene mani coscienza dello stato misero di una generazione priva di riferimenti e di eroi.
Anche musicalmente i ragazzi occidentali a cavallo del decennio Eighty sono "presi nel mezzo": infanti negli anni 70, troppo giovani per l'età d'oro del punk e della new wave, disadattati nelle discoteche fighette e schifati dalla musica mainstream delle classifiche, trovano nella seconda metà degli anni 80 nel rock delle etichette indipendenti e nell'hardcore una valvola di sfogo che faranno crescere e crescere fino ad esplodere. Non a caso quella fu chiamata "generazione X" e Beck, che all'epoca di "Mellow Gold" ne fa parte a pieno titolo, saprà diventare uno dei suoi cantori per eccellenza.
Se questa è la filosofia di fondo delle liriche, la musica, come detto, è un concentrato/riassunto dei trent'anni precedenti: il blues, base di partenza di molte composizioni, viene stravolto e strappato in mille pezzi con inserti rumoristi, fughe folk dylaniate , mantra indo-moderni, psichedelia, backward tape con ridicoli messaggi nascosti o parti delle stesse canzoni in cui sono inseriti cento deliri di ogni genere, ma tutto è incredibilmente semplice da capire e diretto come un hit da classifica. Su uno sfondo di nuvolaglia malata e infiammata da un tramonto tossico, "Last man after nuclear war" come recitano le note interne, ovvero il minaccioso mostro biomeccanico di copertina fatto di parti meccaniche di scarto, teschi e ossa di animali, è il perfetto simbolo della musica de-composta e ricomposta, esplosa e ricompattata, disassemblata e riassemblata che ci attende. Se qualcuno era arrivato già da tempo a mescolare rap e metal, o disco-music e ritmi latini, Beck li sorpassa alla grande nella corsa al mix più ricercato, al montaggio del puzzle più originale e con il maggior numero di pezzi. Non due, ma tre o quattro generi diversi e distanti che più non si potrebbe in una canzone sola. Emerge incontenibile la smania di suonare e mescolare di tutto. La smitizzazione di cui si diceva poco sopra passa anche e soprattutto dallo stravolgimento delle musiche dei padri, senza rispetto per i confini di genere e tantomeno per i "non si può fare". Beck riesce a fare tutto perché se ne frega di tutto: "I pay no mind". Difficile non rendersi conto al primo ascolto che ci si trova di fronte a un disco epocale, destinato a rivoluzionare molte cose.
La critica "ufficiale" accoglie il lavoro in delirio, ma, come spesso accade in questi anni cruciali del rock, arriva in ritardo sulla next big thing , subito l'artista di culto, la cui canzone simbolo fino ad allora aveva un titolo che è tutto un programma "Mtv Makes Me Want To Smoke Crack" ("Mtv mi fa venir voglia di fumare crack"), si guadagna da solo uno stuolo di fan assetati di novità in piena era di rinascita del rock. E' il successo, alimentato da video surreali e concerti fuori di testa, a metà strada tra certe performance epilettiche alla Talking Heads e il cabaret psicotico dei Residents. La X generation ha un nuovo antieroe.
Ancora una volta la Geffen ha visto giusto e si conferma insieme alle etichette indipendenti tra le quelle veramente al passo con i tempi e tra i simboli di quegli anni stralunati.
L'artigianato grezzo ma incredibilmente sicuro di questo ragazzo magro e timido, che ha messo insieme una serie di registrazioni casalinghe e di "scherzi" musicali (l'ironia e il gioco sono infatti la cifra comune dell'album), suona a ogni nuova canzone sempre diverso, dando una eccezionale dimostrazione di come, se si hanno idee musicali da vendere, non ci sono ostacoli e non esistono barriere tra generi, né patemi produttivi. Anzi, uno dei punti di forza dell'album è proprio la mancanza di una produzione coerente, essendo frutto, come detto, di semplici registrazioni casalinghe che solo a cose fatte egli ha piazzato alla casa madre per gli ultimi ritocchi, e di totale libertà espressiva, unita a tanta voglia di giocare con la musica senza porsi limiti e confini di genere. Questo gli dà una freschezza che in altri dischi manca, gli toglie quella patina di "costruito" che aleggia magari sulle migliori prove di composizione e inventiva lirica. Tutto sembra sorgere spontaneamente, naturalmente, come da una sorgente, che è la mente dell'artista, non inquinata e libera dai patemi del "dover essere". Se esiste il transgender in musica, "Mellow Gold" ne è il simbolo.
Partendo dal blues/folk/hip-hop/rap di "Loser", di cui si è già detto, si piomba nello urban-folk di "Pay No Mind (Snoozer)" che è come dire un Dylan low-fi degli anni 90, con tanto di armonica, il quale fregandosene di tutto e tutti non canta più di pace ma, con nichilista disillusione urbana, di cessi che strabordano e di mandare a farsi fottere i cantanti rock. Non si fa in tempo a superare il senso di lieve straniamento che arriva un altro "strumming" acustico a disegnare un riff di sapore stonesiano per la successiva "Fuckin' With My Head", con inserti lo-fi e deliranti mugolii nasali.
"Wiskeyclone Hotel City 1997" è un folk-blues lentissimo, mantrico, con voce cantilenante, resa stanca dal caldo, dalle mosche implacabili e dalla vita penosa dei rassegnati a (e da) una eternità di fallimenti: "Everything we done is wrong" ("Tutto quel che abbiamo fatto è sbagliato"). Dopo la linearità del pezzo che lo precede,"Soul Sucking Jerk" è nuovamente un puzzle di idee e stili: rullate fuori tempo, un assolo di chitarra acustica clamorosamente scordata, voci storpiate da mille effetti di tremolo e distorsione, una specie di "Summertime Blues" rappato nel ritornello. Un conato di ribellione torna a far capolino in mezzo allo squallore: "I ain't no work for no soul sucking jerk" ("Non lavorerò per nessuno stronzo sfruttatore").
Si potrebbe continuare a lungo a descrivere quel che attende dentro l'assurdo ballabile di "Beercan", con registrazioni rovesciate, voci infantili che proclamano: "Sono triste e infelice" e improvvise schitarrate distorte e fischianti fino a essere quasi inudibili, il nuovo mantra indiano di "Steal My Body Home", con tanto di sitar, che nel finale si trasforma in folk-country bianco a suon di colpi su lattine e fustini (o almeno potrebbero esserlo) con assolo di kazoo (!), o la cantilena ossessivo-compulsiva di "Nitemare Hippy Girl" e ancora linee di basso smagnetizzate e cori in falsetto e campionamenti e bordoni di violino e persino una ghost-track . Si potrebbe continuare a lungo, dicevo, ma a forza di parole non si riuscirebbe comunque mai a dare un'idea compiuta dei mille contenuti e delle mille sorprese di quest'album. Va semplicemente ascoltato e riascoltato e allora si riuscirà a penetrare sotto la superficie della spontanea genialità di chi lo ha messo insieme e a scoprirne tutti i riferimenti e gli stravolgimenti.
Questo disco suona ancora oggi fresco, tanto che potrebbe essere uscito ieri. Beck ha costretto molti a confrontarsi con una nuova "pietra di paragone", mostrando quello che era possibile fare con una mente aperta e senza costrizioni, ha piazzato la sua bandierina dove nessuno era giunto prima, spostando un po' più in là i confini della musica popolare.
Egli, però, saprà andare persino oltre nella sua smania di mescolare e con/fondere, ma questa è un'altra storia.
27/10/2006