Ma niente da fare. Dopo i 18 brani di "Scarlet’s Walk", i 19 di "The Beekeeper" e i 20+3 di "American Doll Posse", eccone altri 17 e altrettanti visualette (filmati d’accompagnamento diretti dal regista Christian Lamb e inclusi nel Dvd dell’edizione deluxe) per "Abnormally Attracted To Sin", suo decimo lavoro sulla lunga distanza, nonché debutto per la nuova etichetta Universal.
Il "concept" stavolta è la definizione di "potere e di successo nelle relazioni interpersonali", in un mondo "capovolto dalla crisi economica", aggiunto alle solite ossessioni sessuali e religiose. Fil rouge già di per sé esile e che non può non sfrangiarsi nell’arco dei 73 minuti di un disco che regala comunque qualche accento lirico degno di nota, soprattutto nei bozzetti femminili.
Musicalmente, invece, siamo al cospetto dell’ennesima abbuffata di stili, scandita da batterie elettroniche downtempo e dal drumming del fido Matt Chamberlain (collaboratore principale del disco assieme al marito di Tori, il tecnico del suono Mark Hawley). Anche gli arrangiamenti sono sempre un po' saturi - archi, piano chitarre, elettronica - con la voce che ne esce a volte offuscata, quasi fosse trattenuta rispetto ai voli epici dei tempi d'oro.
La partenza però, a dirla tutta, è delle più convincenti dai tempi di "From The Choigirl Hotel" (di cui peraltro il disco appare una sorta di copia minore ultradiluita): il trip-hop à-la Portishead di "Give" è una folgorazione elettrica che ridesta da anni di torpori, col suo possente drumbeat e i volteggi vocali della Amos a planare su un robusto tappeto di piano, synth e chitarre. Anche il singolo "Welcome To England" si mantiene a galla, tra interplay synth-piano e un refrain di facile presa. Ma già "Strong Black Vine" (un'allusione all'ayahuasca, l'infuso psicotropo sudamericano caro alla Amos?) scivola in un'aggressività sopra le righe, enfatizzata dagli archi e dalla batteria. E da qui in poi l'ascolto si fa sempre più laborioso...
A uscire dal limbo dell’anonimato sono quei brani in cui Tori va alla ricerca di soluzioni nuove: il musichall di "That Guy", il cabaret di "Mary Jane" e soprattutto il soft-jazz ipnotico di "Lady In Blue", con il trascinante crescendo finale di piano e chitarra elettrica.
Anche la Tori balladeer fatica a estrarre dal cilindro quei prodigi melodici che l’hanno resa celebre: fanno eccezione la struggente "Maybe California", che costruisce attorno agli archi e al dramma di una madre californiana suicida il brano migliore del disco, e la title track, forte di un bel giro di Hammond e di una interpretazione calda e vellutata.
Non mancano, purtroppo, oltre ai tanti riempitivi, alcune clamorose scivolate nel kitsch: pezzi come "Not Dying Today", "Police Me" e "500 Miles" forse non sarebbero riusciti a entrare nemmeno nella tracklist del famigerato – e da lei stessa rinnegato – "Y Kant Tori Read".
In definitiva, sarebbe bastato solo dimezzare i brani, per ottenere un disco, se non memorabile, almeno sufficiente.
Sempre più levigata, smussata d’ogni asperità, la musica di Tori Amos sembra seguire sinistramente la stessa piega del suo aspetto fisico, di quei suoi capelli ch’erano rosso fuoco e riccioli incolti e sono diventati innaturalmente ramati o parrucche lisce come la seta, di quel suo bel volto sexy e sbarazzino, oggi tirato a lucido come una bambola di porcellana. Ma sotto la cenere cova ancora il fuoco di un talento unico che, se saprà ritrovarsi con la giusta convinzione (e misura), potrà ardere ancora.
(17/05/2009)