Per tutto il decennio 90 Tori Amos ha tenuto testa alle più virtuose esponenti del songwriting al femminile.
La sua freschezza da eterna bambina, la sua tenerezza irresistibilmente sensuale e il suo immenso talento da musicista classica mancata (per scelta) si sono ritrovati in una sequenza di magiche ballate piano/voce che riportavano dritto ai tempi d'oro di Laura Nyro, Carole King e Kate Bush.
Quello che di Amos ha sempre lasciato stupefatti è la capacità di far decollare improvvise aperture melodiche da trame apparentemente ostiche e monocordi, un forza emotiva dirompente, frutto di una personalità tanto istintiva quanto complessa e contraddittoria.
Al successo del personaggio, poi, avevano contribuito un pizzico di sfrontatezza sexy nei videoclip e negli act dal vivo e l'immagine da ragazza fragile, profondamente segnata dai traumi dell'infanzia.
E' nato così un piccolo mito, alimentato dal morboso culto dei fan, che le è valso perfino lo smisurato appellativo di "Goddess of rock".
Purtroppo, però, siamo già costretti a scriverne al passato.
Niente panico: la rossa cantautrice del North Carolina gode di ottima salute, è la moglie felice del suo ingegnere del suono, l'inglese Mark Hawley, è mamma di una bambina di 4 anni di nome Natashya e appare in splendida forma nel reportage fotografico che le ha dedicato un mostro sacro della fotografia musicale come Mick Rock.
Il problema di Tori Amos è che sembra aver del tutto smarrito il filo delle sue canzoni, proprio dopo che con "From The Choigirl Hotel" era riuscita nel miracolo di rivoluzionare il suo sound senza minimamente snaturarlo.
Da allora, sono passati ormai sette anni e tre dischi uno più deludente dell'altro: il confuso collage live+b-sides+inediti di "To Venus And Back", l'inutile raccolta di cover di "Strange Little Girls" e il logorroico polpettone on the road di "Scarlet's Walk".
Lavori infarciti di brani e parole, ma che - come spesso accade nel rock - mascheravano con la quantità la carenza di qualità.
Il nuovo "The Beekeeper" anziché invertire la tendenza la accentua, costringendo l'ascoltatore a sorbirsi un'ora e 20 minuti di litanie soporifere: diciannove tracce che scorrono piatte, senza il minimo guizzo, affogate in arrangiamenti bolsi e stucchevoli (ovvero l'opposto di quanto aveva sempre fatto Tori Amos fino al 1998).
Eppure non mancavano i motivi d'interesse attorno al nuovo progetto dell'ex Cornflake Girl. A cominciare dalle fascinazioni irlandesi che l'avevano irretita, spingendola a comprare una villa georgiana nella contea di Cork (la sua residenza attuale è però in Cornovaglia, Inghilterra) e a collaborare con il cantautore Damien Rice, astro nascente dell'Isola verde, appena reduce dall'exploit di "O".
C'era poi la curiosità di vedere Amos alle prese con il suo personale amarcord, tra cori gospel, percussioni afro-cubane e tastiere vintage. E intrigava lo stesso spunto narrativo dell'album: il racconto delle atrocità della guerra e dell'attualità internazionale filtrato dal rapporto materno di Tori con la piccola Natashya.
Alla prova dell'ascolto, però, resta davvero difficile trovare una ragion d'essere per questo disco, concepito "come un'ape operaia che può impollinare in completa libertà tutti i fiori che vuole", secondo le parole della stessa Amos, ma trasformato - ahinoi - in un mieloso pasticcio.
Alla totale libertà compositiva nella scelta degli strumenti, infatti, corrisponde una altrettanto incontrastata confusione nella scrittura, che impedisce di individuare nei brani un qualsiasi barlume di personalità. E stavolta non basta neanche la voce di una delle più prodigiose interpreti degli ultimi vent'anni a riscattare la povertà d'idee.
Tori, infatti, sembra cantare col freno tirato, lontana dai gorgheggi acrobatici che l'hanno resa celebre: smussati gli acuti a la Kate Bush, il suo registro si è tramutato in un vellutato bisbiglio da cocktail-lounge compromettendo così la tensione drammatica che aveva sempre contraddistinto le sue canzoni.
Musicalmente, il disco gioca soprattutto sulla relazione tra il pianoforte Bosendorfer e l'organo Hammond B3 che tessono il canovaccio di base, con inserimenti sporadici degli altri strumenti, percussioni in primis. Dominano le tinte calde e i timbri soffusi, con aromi funky e jazzy sparsi e un retrogusto vagamente soul-gospel.
La voce di Tori è spesso doppiata, ma con esiti dubbi, come nell'iniziale "Parasol", che cerca invano di ritrovare quell'equilibrio tra ritmo e melodie che aveva fatto la fortuna di "From The Choigirl Hotel". Nel voodoo-boogaloo di "Hoochie Woman" l'ex-soprano azzarda perfino un registro profondo alla Chrissie Hynde che non le è decisamente congeniale.
Delude anche l'episodio più atteso, il duetto con Damien Rice in "The Power Of Orange Knickers", piatto e monocorde, nonostante il bizzarro spunto del testo (una sorta di ricerca delle valenze semantiche del termine "terrorista" e delle diverse reazioni che suscita nelle persone, "per alcuni è una persona con un turbante, per altri in uniforme, per mia figlia un bullo che dà fastidio agli altri bambini nel parco giochi").
Amos torna a graffiare per un attimo quando si cala nei panni della gatta sensuale di "Sweet The Sting", con cori gospel sudisti a far da contorno a un accattivante ritmo funky-soul: è probabilmente l'unica traccia che potrebbe meritare un posticino in un suo ideale "Best Of".
I geniali strateghi della Sony, però, le hanno preferito come singolo una delle ballate più ottuse del lotto, quella "Sleep With Butterflies" che occhieggia maldestramente ai Coldplay.
I riferimenti letterari che affollavano "Scarlet's Walk" tornano in "Jamaica Inn", dall'omonimo romanzo di Daphne Du Maurier, mentre l'ode di "Ireland" non ha alcuna parentela con il folk celtico, ma vira semmai verso il più banale easy listening, impantanandosi in una nenia biascicata con coretti "sha-la-la" di contorno.
L'album è disponibile anche in versione speciale con allegato Dvd bonus contenente 25 minuti di intervista, backstage e il brano inedito "Garlands".
E' prevista inoltre una "special edition", accompagnata da un pacchetto di semi di fiori (!).
Parallelamente al disco, uscirà il libro "Piece By Piece", sorta di autobiografia della Amos, scritta insieme alla giornalista Ann Power. E anche questo can can d'accompagnamento sembra voler nascondere la debolezza del lato musicale dell'operazione.
A quasi quindici anni dall'esordio, l'eco dei "piccoli terremoti" di Tori Amos si è spenta. Urge una nuova scossa per ridestare un grande talento in letargo.
04/04/2006