Ogni lavoro dei Dream Theater è per sua natura destinato a dividere fan e critica. Dalle storiche accuse di essere solo dei virtuosi (nel peggior senso del termine) si è passati poi a quella di aver esaurito ogni forma di ispirazione, come hanno purtroppo dimostrato gli ultimi scialbi album e l'abbandono del batterista Mike Portnoy, logorato da un rapporto ormai saturo.
L'ingresso in formazione di Mike Mangini sembra aver leggermente migliorato la situazione, ma non invertito la rotta, che i Dream Theater sembrano seguire a vista, avendo smarrito ormai da tre album la direzione di un discorso musicale incerto più che mai.
"A Dramatic Turn Of Events" sembra essere l'ulteriore conferma di questa tendenza: un disco riuscito a metà, con alcuni buoni spunti e una minor componente "oscura", complice anche un drumming appena più leggero di quello dell'ultimo Portnoy e linee vocali di LaBrie meno sporche rispetto agli ultimi lavori. Purtroppo, le buone intenzioni non sono sufficienti di per sé a tirar fuori un buon album, e la riuscita di un disco non è semplicemente la somma della bravura dei musicisti.
Se "On The Back Of Angels" illude dipingendo atmosfere più leggere e simili a quelle di "A Change Of Season", o per certi versi a "Six Degrees Of Inner Turbulence", e si conclude con un notevole assolo di Petrucci, "Build Me Up, Brake Me Down", caratterizzata da un intro e un bridge evidentemente ammiccanti al nu-metal, delinea ancora una volta la mancanza di idee della band, con ritmiche che sembrano ripetute all'infinito e in maniera sempre uguale.
"Lost Not Forgotten" si apre con un solo di piano di Rudess dal sapore classicheggiante, che lascia ben presto spazio all'ennesima ritmica chitarra-batteria ripetuta all'eccesso fino all'ingresso di LaBrie, che rende il pezzo ascoltabile ma non indimenticabile. L'assolo di Petrucci non è in linea teorica malriuscito, ma qui viene forse la nota più dolente: sembra non essere collegato in alcun modo al brano, e questa sensazione è ricorrente anche in altri episodi, come ad esempio "Bridges in The Sky". All'ascolto si ha come la sensazione di parti diverse attaccate malamente assieme, fattore che abbassa notevolmente l'appeal del disco essendo storicamente Petrucci il componente più lirico e melodico della band.
Decisamente più riuscito l'intervento del chitarrista di Long Island in "This Is The Life" (probabilmente il miglior brano del disco, assieme a "Far From Heaven"), mentre risulta del tutto impalpabile John Myung, totalmente non pervenuto se non per qualche blanda linea melodica. Del bassista capace di rubare totalmente la scena non vi è quasi alcuna traccia.
"Bridges In The Sky" si apre con un urlo grave e soffocato, che lascia ben presto spazio a canti gregoriani, i quali istantaneamente richiamano all'immaginario scene dell'ultimo Kubrick, salvo poi sfociare nell'ennesima, ossessiva ritmica chitarra-batteria. Un po' di colore è aggiunto dal synth di Rudess, che contribuisce a tener viva, almeno in parte, l'atmosfera particolare del brano, fino all'intervento solistico (non indimenticabile) di Petrucci e dello stesso Rudess (decisamente più ispirato).
Un ampio uso di campionamenti che vanno a intrecciarsi con le linee disegnate da Petrucci e Rudess caratterizza "Outcry", che si distingue più per le buone percussioni di Mangini che per gli interventi solistici degli altri membri della band. Le distorsioni sono lasciate per un momento da parte in "Far From Heaven", in cui LaBrie, complice l'eccellente accompagnamento di Rudess al piano, dà un'ottima prova delle proprie capacità interpretative, partorendo il momento di gran lunga più emotivamente, e forse anche musicalmente, autentico, del disco.
È purtroppo solo una momentanea sospensione che viene interrotta bruscamente da "Breaking All Illusions", che rappresenta il brano più lungo del disco (oltre 12 minuti) portato avanti a fatica per i primi quattro minuti e mezzo e che riesce ad attirare parzialmente l'orecchio solo nella seconda parte. Gocce d'acqua che cadono e lasciano spazio a una sezione d'archi danno il via all'ultima traccia del disco, "Beneath The Surface", che risulta più godibile e ispirata, data la sua connotazione quasi acustica (eccezion fatta per il particolare solo di synth di Rudess).
Tirando freddamente le somme, su nove pezzi, quattro risultano essere di buona fattura. Abbastanza per strappare di un soffio una risicatissima sufficienza, ma decisamente troppo poco per considerare la band-simbolo del prog metal ufficialmente fuori dall'impasse compositivo e creativo che ne sta condizionando la produzione da ormai troppo tempo.
Un discorso a parte andrebbe fatto poi sullo "zelo" commerciale della band (edizioni doppie, deluxe etc.) che accompagna praticamente ogni uscita dei Dream Theater, come se fosse a priori un capolavoro; tale zelo andrebbe forse messo più al servizio della musica in sé che del marketing, ma questa è un'altra storia.
20/11/2011