Come più volte ribadito su queste pagine, ogni uscita dei
Dream Theater, la band che più di ogni altra riportò al grande pubblico il
progressive dopo un lungo limbo durato per tutti gli anni 80, è destinata a scaldare gli animi di fan e detrattori. La band di Long Island, dopo aver pionierizzato il genere nel 1989 e, con lavori come “Images & Words” e “Scenes From A Memory”, averne imposto i canoni per gli anni successivi (con tutto esercito di sfacciati cloni che conseguirono), si è gradualmente adagiata sugli allori offrendo album sempre più carenti di soluzioni davvero convincenti. La produzione post 2000 ha alternato alcune idee interessanti a molte cadute di stile fragorose, come se in preda di un “potrei ma non voglio” conseguente all’enorme successo che li ha accompagnati per tutti gli anni del nuovo millennio.
Situazioni di stallo motivazionale come queste hanno spesso bisogno di una rottura che spezzi l’inerzia generatasi: l’addio nel 2010 di Mike Portnoy, batterista e co-produttore insieme al chitarrista John Petrucci, poteva essere una di quelle potenziali bombe e il successivo album da studio “
A Dramatic Turn Of Events” sembrava in effetti aver riportato la band a livelli qualitativi quantomeno dignitosi, ben lontani dal genio calcolato delle composizioni degli anni 90 ma sicuramente un passo avanti rispetto ad alcuni imbarazzanti episodi recenti. E’ per tale motivo che l'annuncio del dodicesimo album da studio della band aveva riportato nei fan delusi della prima ora (contrapposti a un vero e proprio plotone di adoratori più o meno giovani) un minimo di attenzione, con la speranza che i cinque avrebbero dato conferma definitiva del risveglio dal loro ormai decennale torpore. Purtroppo per loro, “Dream Theater” non si rivelerà nulla di simile, dissolvendo probabilmente le loro residue riserve.
Curioso come si sia scelto di fare un album omonimo dopo ben 28 anni di carriera: un nuovo inizio, come dichiarato da John Petrucci, dopo il precedente album considerato “di transizione”. Sicuramente il nome dell’album non è l’unico aspetto autocelebrativo del disco, vista la forte componente nostalgica presente in esso, la quale, miscelata con alcune ottime soluzioni concentrate nelle primissime fasi del platter, crea l’effimera illusione di un grande ritorno: “The Enemy Inside” scioglie subito le briglie al cavallo pazzo Mangini, nuovo addetto alle pelli, il quale offre una intro di impatto per poi prendere a braccetto Petrucci in una cavalcata dal groove spiazzante, come non capitava da tempo con tanta efficacia, rievocando ritmiche di brani rimasti storici come “Ouverture: 1928”. Brano smargiasso e anche un po’ cafone, sicuramente, ma giusto il tanto per trasmettere l’esuberanza ed entusiasmo un tempo tipici degli americani, perdendo tuttavia un po’ la misura nel finale quando ogni componente vuole la sua sacrosanta fetta di scena.
“The Looking Glass” è la vera sorpesa dell’album, nonché il suo zenit. Bisogna sicuramente accettare la sensazione di “viaggio nel tempo” che dona il brano, per iniziare ad apprezzarlo: sembra letteralmente estirpato dal repertorio dei demo di epoca “Images & Words” e “Falling Into Infinity”, con a tratti palesi richiami a sonorità di brani come “Raise The Knife” e “The Way It Used To Be” - per non parlare di quanto forti si sentano i Kansas, dichiarato antico amore della band; il risultato è davvero pregevole, con quel magico mix di melodia e tecnica che da tanti, troppi anni non veniva più indovinato. Un tonico LaBrie getta finalmente i panni del metallaro cattivo per abbracciare melodie più ariose, per lui sicuramente più valorizzanti di certe digressioni thrash metal passate, mentre Petrucci appare ispiratissimo cesellatore.
A questo punto, dopo le lodi di cui sopra, sarebbe lecito chiedersi il perché di tanta dichiarata delusione da parte di chi scrive. Il problema è che le buone notizie sono grosso modo finite qui e per il resto dell’album la luce si spegne, gettando il collettivo in un’affannosa navigazione a vista alla ricerca del colpo ad effetto. E’ così che "Dream Theater" inizia a snocciolare un brano più anonimo dell’altro, dove tanta carne viene messa al fuoco ma poco rimane nella mente, per non parlare del cuore, dell’ascoltatore. Emblematica è la strumentale del disco, un tempo fiore all’occhiello degli ex-maestri del progressive: “Enigma Machine” è un’accozzaglia di riff ed esercizi allo strumento che sembra riportare Petrucci e soci a un freddo saggio di fine anno alla Berklee.
Il resto non migliora la situazione: “Surrender To The Reason” prova ad ammiccare a sonorità anni 70 ma manca totalmente di mordente, faticando a decollare appesantita com'è da sezioni farraginose e blande; “Behind The Veil” rilancia con un bridge e ritornello catchy, guastato dalla solita sezione strumentale schizofrenica prima dell'ultimo chorus, ricadendo quindi nell'abusato canovaccio degli ultimi anni; “Along The Ride” spinge ancor più su una melodia ruffiana, intervallata da inconsistenti fraseggi alla sei corde del guitar-hero Petrucci, concludendo in maniera quasi grottesca con l'assolo di Jordan Rudess, autore della scelta di un suono davvero infelice. Proprio quest’ultimo conferma nuovamente, dopo la temporanea eccezione su “A Dramatic Turn Of Events”, una preoccupante involuzione in fase di songwriting che ormai rende i suoi fantasiosi contributi presenti fino a “Six Degrees of Inner Turbulence” un vago ricordo. Al di là degli sporadici contributi in fase solistica, tra l’altro ormai completamente abbandonata ai cliché, c’è ben poco del newyorkese prodigio che aveva rapito tutti al suo ingresso nella band.
Il buon apporto di Mike Mangini non si è quindi purtroppo rivelato sufficiente a ridestare completamente il sacro fuoco sopito della band, la quale non risponde agli stimoli neanche in occasione dell’ambiziosa suite finale, “Illumination Theory”, brano che avrebbe dovuto in principio donare il titolo all’album. Anche in tempi di vacche magre, i dotatissimi progster erano sempre più o meno riusciti a donare composizioni rispettabili con le loro suite. In questo caso la magia dura pochi minuti, riuscendo a tenere alta la tensione senza strafare per appena metà dell’opera, proponendo prima un interessante sound barocco seguito da una sezione centrale orchestrata sufficientemente suggestiva, poi crollando nella seconda parte con un’accademica dimostrazione di forza, assai kitsch, quasi si volesse offrire uno scacco matto a chi ha sempre imputato alla band un tecnicismo fine a sé stesso, anche in tempi in cui esso permetteva di esprimere un messaggio musicale intenso e vivido (chi ha detto “Erotomania”?).
Ciò che rimane all'ascoltatore è un lavoro che denota molta stanchezza artistica. “Dream Theater” non ha poi molto da dire, fiacco e prevedibile come si rivela. I membri della band che stavolta decide di donare il suo nome a questo lavoro, dopo esser stati un tempo architetti di squisite e spesso memorabili composizioni progressive, oggi più che mai sembrano cinque bolsi e svogliati travet, intenti ad assemblare meccanicamente riff e sezioni strumentali, senza una visione di insieme del loro creato: quella “Bigger Picture” che paradossalmente tentano di descrivere in una delle tracce dell’album.
Una grigia catena di montaggio nella quale sono ormai cronicamente relegati.
14/11/2013