Frequento negozi di dischi da vent'anni, per vent'anni le copertine dei suoi dischi hanno occhieggiato dagli scaffali, ma io le ho sempre ostinatamente e ostentatamente ignorate. Troppo americano per me. Troppo americano, troppo ubriaco e troppo iconografico lui, troppo eurocentrico e borghese io. E poi non mi risultavano mellotron, hammond, tempi dispari, linee melodiche ad incastro, chitarre a doppio manico, suite che iniziano a colazione e finiscono a metà pomeriggio, non mi risultava niente degno di essere ascoltato. Poi un giorno due canzoni alla radio, due copertine intriganti (pure in digipack), i consigli, lo stupore del mio rivenditore di fiducia e Tom Waits entra nella mia discoteca. Al limite lo metto insieme a Robert Wyatt.
"Alice" parte con il brano omonimo: una ballata di una malinconia atroce, adattissima a rimpiangere il passato e a gustarsi il presente, l'accompagnamento è molto jazzy ed è perfetto ma in fondo è un elemento superfluo, il pathos del pezzo e della voce è tale che non verrebbe scalfito da un sottofondo meno estetizzante; ed è la ballata notturna e decadente a dare la cifra stilistica al disco, a volte con risultati superlativi (come in "No One Knows I'm Gone", I'm Still Here", "Fish And Bird"). Certo non mancano momenti diversi, come nella danza spastica di "Everything You Can Think" o nel cabaret surreale di "Kommienezuspadt" e di "Reeperbahn" (ho sentito parlare di Kurt Weill a tal proposito), oppure come in "Table Tap Joe", quasi parodistica nel suo ostentato riferirsi al jazz vocale della prima metà del 900. Ma è nelle ballate plumbee e dolcissime che l'autore e il disco trovano la loro dimensione più piena, a volte avvolgendo la voce con tenui ipotesi di classicismo nell'uso degli archi come nella già citata "No One Knows I'm Gone", un pezzo dal limpido impianto melodico, o come in "Poor Edward" o nella struggente "Lost In The Harbour"; il breve ed evocativo strumentale "Fawn" chiude un disco delicatamente e sommessamente malinconico.
In fondo Tom Waits è un sentimentale, un crooner. Il Frank Sinatra dei bassifondi.
Di clima un po' diverso è invece "Blood Money", che parte con la marcia di "Misery Is The River Of The World" e prosegue con la rumba estraniante di "Everything Goes To Hell". Disco musicalmente più ambizioso, con struttura strumentale che si concede alcuni tentativi di dissonanza nei suoi maggiori gradi di libertà, specie nell'uso dei fiati, come ad esempio in "Knife Chase", disco anche di impianto lievemente più aspro e più schizofrenico, con un uso molto più limitato degli archi e con un'impostazione vocale lievemente più estremizzata, come in "Starving In The Bell Of A Whale" o in "God's Away On Business", o se vogliamo più teatrale.
Alla fine però un disco che cede parte della trabordante emotività di "Alice", operazione che tuttavia Waits non può permettersi di fare non avendo sufficiente talento per fare musica senz'anima. Certo comunque che un pezzo come "Coney Island Baby", adattissimo a essere cantato sotto l'albero a Natale mentre fuori nevica, rimane nel cuore, "All The World Is Green" è splendida e a volte, come attraverso una lente deformante, si colgono dei fantasmi: gli anni 30, lo Zeppelin, il Titanic che affonda con gli orchestrali, Lilì Marlene.
Per alcuni potrebbero essere una scoperta importante, per altri forse una conferma, in fondo solo due dischi - ottimo il primo, discreto il secondo - da tenere in considerazione per i prossimi acquisti. Alcune notizie superflue per chiudere: le canzoni di entrambi i dischi risalgono agli anni 90 e sono nate come colonne sonore per rappresentazioni teatrali.
07/11/2006
Alice
Blood Money