“The most perfect pop song ever”, così il dj di Bbc Radio 1 Steve Lamacq descriveva la non convenzionale “The First Big Weekend”, primo singolo in assoluto degli Arab Strap. La storia del duo scozzese fondato dal cantante e batterista Aidan Moffat e dal polistrumentista Malcolm Middleton prende avvio a Falkirk nel 1995 quasi per gioco, grazie a un amore comune per alcuni artisti della scuderia Drag City, in particolare Will Oldham (oggi conosciuto come Bonnie “Prince” Billy) e Smog, e a ripetuti scambi di cassette; Moffat al tempo lavorava infatti allo Sleeves Records, noto negozio di dischi della loro città natale. A prenderli sotto la sua ala protettrice è l’allora neonata etichetta indipendente Chemikal Underground creata dai Delgados, i pupilli di John Peel, unica realtà ad aver prontamente risposto dopo aver ricevuto una loro demo tape.
Il pop scuro del duo a inizio carriera viaggia su binari elettroacustici tra post-folk, indie-rock e post-rock in direzione Slint, affiancandosi alla corrente slowcore trainata dai Low, a cui si accompagnano versi schietti e dettagliati al limite della brutalità cantati in scozzese, marchio di fabbrica del progetto, divenuti tuttavia leggermente più “opachi” e meno diretti nel tempo, secondo l’opinione di Moffat.
Went out for the weekend, it lasted for ever…
Prodotto da Paul Savage, il debutto con The Week Never Starts Round Here arriva nel 1996, sancendo l’inizio di un lungo sodalizio che porterà il duo a lavorare insieme al batterista dei Delgados in molte altre occasioni (sia per opere appartenenti al gruppo, sia per ulteriori side-project). La già citata “The First Big Weekend” può essere considerata un manifesto utile per comprendere quale percorso intraprenderà la band: la traccia si snoda lungo quasi cinque minuti di monologo di Moffat in forma di spoken word (ad eccezione dell’ultimo refrain cantato) su un incalzante tappeto di drum machine e vezzi di chitarra acustica gestiti da Middleton, descrivendo in maniera chiara e senza filtri gli eventi di un weekend (quello del match disputato da Inghilterra e Scozia al campionato europeo di calcio del 1996) trascorso tra Glasgow e Falkirk, con visite a pub e club, conseguenti sbronze e approcci alquanto maldestri a ragazze. Più lenta ed essenziale è invece la veste di “Coming Down”, opener che mette in chiaro cosa intendano i Nostri per “canzoni d’amore oneste e piene di odio” fin dai sentimenti espressi nei primi versi “Make me reflective, make me introspective/ Make me the violence, and explain my silence/ 'Cause it's never too late to fill me with hate...”, al pari di “Driving”, delle imbastardite “Wasting” e “Kate Moss” e dell’incedere pesante della bassline di “Gourmet”. Si distinguono inoltre egregiamente l’elettronica più rumorosa e cupa di “The Clearing”, la breve e armoniosa melodia in lo-fi di “I Work In A Saloon”, le dispettose arie folk di “Little Girls” e gli archi stridenti di “Phone Me Tonight”.
Privo di qualsiasi iniziale aspettativa per il successo di The Week Never Starts Round Here, estremamente grezzo e registrato in uno squallido studio in una zona industriale a Hamilton, il duo parte alla volta del suo primo tour insieme al bassista Gary Miller e al batterista David Gow, con i quali collabora anche alla realizzazione del delizioso crescendo tra slowcore e chamber-pop di “Soaps”, una delle tracce cardine della successiva fatica Philophobia, uno degli album migliori del repertorio degli Arab Strap.
Uscito nel 1998, il sophomore vede la partecipazione di diversi ospiti, come Adele Bethel, nel ruolo di co-autrice oltre che di vocalist nel dialogo schietto della sensuale e oscura “Afterwards”, e ben tre componenti dei Belle & Sebastian, Chris Geddes (organo Hammond e piano elettrico), Stuart Murdoch (piano) e Sarah Martin (violino), i quali pubblicheranno nello stesso anno il terzo disco “The Boy With The Arab Strap”, ispirandosi proprio al nome del progetto di Falkirk con il quale avevano appena collaborato, scelta che tuttavia lascerà Moffat e Middleton visibilmente contrariati. In fase di produzione, Paul Savage si affianca stavolta a Geoff Allan, l’ambientazione dei racconti è ovviamente ancora quella del Regno Unito post-Thatcher, ma la qualità di registrazione è nettamente superiore e le idee del duo totalmente a fuoco e dalla resa più brillante che mai.
“It was the biggest cock you'd ever seen/ But you've no idea where that cock has been/ You said you were careful - you never were with me/ I heard you did it four times but jonnies come in packs of three”, recita l’eloquente soglia di “Packs Of Three”, che accoglie l’ascoltatore affrontando subito lo scomodo tema delle malattie sessualmente trasmissibili, scivolando su sonorità pulite e minimali, dominate da un piano Wurlitzer e schiocchi di dita. Il titolo dell’opera fa riferimento alla paura di amare e di donarsi completamente all’altro senza riserve, argomento rintracciato nella mancanza di fiducia espressa nella tormentata “Here We Go”, le cui trame delicate sono scosse da una saettata elettronica a metà esatta del pezzo.
A spiccare su tutto è la tensione trasmessa dalla nostalgica “New Birds”, che oltre a svolgersi con la consueta modalità di spoken word, devia leggermente verso umori di memoria Midwestern emo, arricchita da una potente coda finale in crescita e liriche tra le più sentimentalmente oneste, in grado di stracciare in mille pezzi l’animo umano. Si continua con le ripetitive note di organo e le tessiture electro di “One Day, After School”, il cinismo sottile che scruta gli amanti protagonisti dell’ambientosa e trasognata “Islands”, in bilico tra speranza e isolamento, gli accenni tra jazz e trip-hop sostenuti dal suadente e malinconico assolo di tromba di “The Night Before The Funeral”, il folk-pop riflessivo di “Not Quite A Yes” e il piano e la drum machine della scarna “Piglet”.
La lunga chiusura in dissolvenza è lasciata all’essenziale “My Favourite Muse”, alle ritrovate arie (dark-)jazz con uno sguardo al Bristol sound di “I Would've Liked Me A Lot Last Night” e ai rintocchi di pianoforte di “The First Time You're Unfaithful”.
Philophobia è perfetto dalla prima all’ultima (in)dolente nota (la prospettiva è sempre doppia, da spettatore esterno e da diretto protagonista immedesimato), senza fronzoli e complessi giri di parole: solo autentiche, disilluse e un po’ sporche canzoni d’amore.
Did we go far enough?
Il sadcore nella sua forma più integra: Elephant Shoe (1999) è senza dubbio, insieme al suo successore The Red Thread, uno degli episodi più tristi e complessi del duo, unico lavoro in studio a essere stato oltretutto pubblicato con una major, la Go! Beat, su sprone degli stessi Delgados, che invitarono Moffat e Middleton a non gettare via l’occasione. Il timore di una dimostrazione di affetto è ancora una volta il leit-motiv imperante: il titolo dell’opera è infatti un’espressione utilizzata dai bambini per mascherare l’incriminata frase “I love you”. A colpire maggiormente sono gli impulsi di indietronica e i barlumi luminosi e dreamy di “Cherubs”, i placidi passaggi di chitarra di “One Four Seven One”, le note scure di piano in direzione neofolk di “Pyjamas” e la lapidaria e stilizzata “Pro-(Your) Life”, che tratta il tema dell’aborto e delle priorità personali.
Tra i lenti passaggi segnati dagli archi presenti nella seconda parte di “Autumnal” e dalle atmosfere dark-folk inquietanti di “Aries The Ram” si innestano l’incisiva “Direction Of Strong Man”, la coda neo-psych di “Tanned” e la conclusiva “Hello Daylight”, unica traccia che ritrova la luce del sole, almeno dal punto di vista del sound. “Ero troppo preoccupato di cosa avrebbero pensato gli altri e non credo di aver ottenuto i risultati sperati”, confesserà a posteriori Moffat a proposito di Elephant Shoe; nonostante ciò, il disco registra un buon successo in Europa, permettendo al duo di raggiungere nuove porzioni di pubblico grazie alla visibilità conferita dall’etichetta.
The Red Thread (2001) segna il ritorno in casa Chemikal Underground, senza alcun pentimento di sorta per aver tentato una strada differente in precedenza. Il filo rosso del titolo funge da conforto emotivo, poiché secondo una credenza orientale si sarebbe collegati al proprio compagno di vita attraverso di esso, ma qui è anche saldamente legato al malessere psicologico provato da Moffat nel periodo di realizzazione dell’opera, alle prese con la rottura di una relazione significativa. Le vette più alte sono toccate dalle atmosfere downtempo della centralissima “Love Detective”, nella quale il protagonista trova un diario dai contenuti scottanti rovistando tra i segreti “nascosti in piena vista” della sua attuale ragazza; oltre che dai ritmi e dalle ombre eighties della lunga chiusura “Turbulence”.
A dominare l’inquieto (per usare un eufemismo) panorama è il dark-pop infestato della vorticosa “Last Orders” e di “Scenery”; ad esse si accodano le influenze puramente folk presenti nell’apertura “Amor Veneris” e tra i lunghi silenzi dell’ottima “Screaming In The Trees”, e gli unicum rappresentati dall’orchestrale e obliqua “Haunt Me” e dalla più rumorosa “The Long Sea”, che incorpora elementi gothic e drone.
Nel 2002 Middleton e Moffat avviano le rispettive carriere soliste: il primo con il buon disco cantautorale 5:14 Fluoxytine Seagull Alcohol John Nicotine, che vanta un ampio carnet di collaboratori tra cui l’intera formazione dei Delgados; e il secondo sotto lo pseudonimo di Lucky Pierre pubblicando Hypnogogia, opera tra ambient e downtempo, interamente strumentale. Le buone abitudini sono dure a morire e il moniker scelto da Aidan permane quindi in ambito di allusioni a sfondo sessuale: se Arab Strap fa infatti riferimento a un sex toy, il nome in questione indica l’uomo nel mezzo di una threesome gay.
L’anno seguente è il turno dell’ambizioso Monday At The Hug & Pint (2003), dove il duo spalanca le porte di un pub (all’epoca fittizio e oggi realmente esistente, dove pare che Aidan riceva drink gratuiti) e ci guida tra svariate storie in una sorta di girone infernale vagamente schizofrenico, corredato da una mini-orchestra al seguito, composta da Jenny Reeve degli Eva, la violoncellista Stacey Sievwright, una nuova sezione d'archi e alcuni ospiti d'eccezione, come Conor Oberst e Mike Mogis dei Bright Eyes e Barry Burns (Mogwai). Grazie alla nuova linfa dei progetti paralleli e al ritorno di Geoff Allan alla produzione, il duo amplia lievemente i propri orizzonti sonori: ne fanno fede i ritmi elettropop danzerecci e gli archi di “The Shy Retirer”, i vertiginosi muri di suono à-la Low della feroce “Fucking Little Bastards” e il valzer degenere di “Peep Peep”.
“Meanwhile, At The Bar, A Drunkard Muses” fa un passo indietro verso la produzione precedente di stampo sadcore, mentre un breve interludio strumentale (realizzato con il campionamento dello strumento-simbolo dello spirito scozzese, la cornamusa) trasporta dalla struggente “Who Named The Days?” a “Loch Leven”, ballata folk dal testo quantomai “diretto”, in puro stile Moffat: “Fuck me he says/ fuck you she says”. “The Week Never Starts Round Here” si aggancia all’esordio della band, mentre “Flirt” si perde in un folk-pop vezzoso e concentrico e “Glue” sceglie atmosfere sognanti. L’ultima parte del disco spinge sulla quota malinconica con l’orchestrale e sarcastica “Act Of War”, “Serenade” e la ninnananna di “Pica Luna”.
Monday At The Hug & Pint non è certamente il miglior capitolo del gruppo scozzese, ma segna una tappa fondamentale nel suo percorso in materia di nuove sperimentazioni sonore; nel tempo ha inoltre ricevuto il plauso di diversi estimatori, tra cui James Graham (Twilight Sad), e da parte della critica specializzata.
I Nostri tornano a occuparsi delle loro produzioni soliste all’inizio del 2005, a cui fanno seguito Touchpool, seconda opera downtempo di L. Pierre aka Moffat, e il valido Into The Woods, dove Middleton chiama di nuovo a raccolta nomi di pregio, fra i quali spiccano (oltre allo stesso compagno di band) Stuart Braithwaite e Barry Burns. Nell’ottobre dello stesso anno viene pubblicata invece la sesta fatica The Last Romance, co-prodotta dalla band insieme alla coppia Allan-Savage. Dal piglio più ottimista, pur trattando come sempre il lato oscuro delle relazioni, e della durata di poco più di mezz’ora, quindi immediata nelle intenzioni come uno schiaffo in faccia, l’equilibrata opera si apre a influenze alt-rock con una grande varietà di movimento, e le poche tracce suonate in acustico traggono ispirazione dall’operato dei conterranei Mogwai. Il rimando più evidente al passato, riadattato alla produzione trattata, è il folk sperimentale della stridente “Chat In Amsterdam, Winter 2003”, mentre nell’opener “Stink”, nella carica di “Don’t Ask Me To Dance” e nella più placida “Dream Sequence” si intrecciano abilmente pathos, melodia, guitar-riff ruvidi ed elettronica. Corrono invece più veloci “(If There’s) No Hope For Us”, incentrata sulle ritmiche serrate di batteria, e l’armoniosa “Speed-Date”.
Il sipario cala sulla speranza (velata di malinconia) di un nuovo inizio retta dalle atmosfere festose conferite dai fiati e dagli archi di “There Is No Ending”.
Not everything must end
Not every romance must descend
Not every lover's pact decays
Not every sad mistake replays
Thank you for listening and goodbye
Una disattesa doccia fredda arriva il 9 settembre 2006, quando il duo annuncia tramite il proprio sito web di volersi sciogliere, sostenendo di aver ormai fatto il proprio corso e che The Last Romance rappresenti un giusto lieto fine per l’avventura portata avanti fino a quel momento, senza escludere nuove possibili collaborazioni future in ambiti differenti. Moffat e Middleton festeggiano il decimo anniversario di The Week Never Starts Round Here con la pubblicazione della compilation Ten Years Of Tears, non il solito album celebrativo, ma un’organica e compiuta rivisitazione della carriera degli Arab Strap, che include molti brani memorabili e altri assolutamente minori, indirizzato principalmente ai fan. Alla fine dello stesso anno intraprendono il loro tour conclusivo, esibendosi per l’ultima volta il 17 dicembre 2006 allo Shibuya O-Nest, al termine di una serie di concerti segreti in Giappone.
Tuttavia, l'attività dei Nostri non si ferma qui. Aidan continua la sua produzione sotto lo pseudonimo di L. Pierre con Dip nel 2007, pubblicando inoltre nello stesso anno una release a suo nome, ovvero I Can Hear Your Heart, e fondando il progetto Aidan Moffat & The Best-Ofs, quartetto con cui debutta dal vivo il 20 agosto del 2007 in supporto agli Slint al Glasgow’s ABC, mentre l’esordio in studio How To Get To Heaven From Scotland esce nel 2009. Si fa ricordare ben volentieri Everything's Getting Older, disco nato da una (prima) collaborazione con Bill Wells e uscito nel 2011, anno nel quale si riapre uno spiraglio per le sorti, almeno dal punto di vista live, degli Arab Strap: il duo si riforma per partecipare a uno show per la celebrazione dei vent’anni del Nice N Sleazy, nota venue di Glasgow, il 17 novembre. In parallelo, fino a quell’evento, anche Malcolm continua l’attività solista a suo nome, mettendo a segno in sequenza tre colpi interessanti, ovvero A Brighter Beat (2007), Sleight Of Heart (2008) e Waxing Gibbous (2009).
Nonostante alcune interviste registrate tra il 2012 e il 2013, nelle quali Middleton dichiara di essere aperto a futuri concerti targati Arab Strap, ma di dubitare fortemente al contempo nella pubblicazione di nuovo materiale (con il monumentale box-set Scenes Of A Sexual Nature targato 2010 a fungere da presunto requiem), tutto sembra scorrere come sempre: quest’ultimo in particolare conia un nuovo moniker, Human Don't Be Angry, al quale segue l’omonimo debutto nel 2012 e il sophomore Electric Blue nel 2015, tra i quali si inserisce Music And Words (2014), lavoro a quattro mani con David Shrigley; mentre Moffat realizza una prima doppietta nel 2013 con il progetto L. Pierre, The Island Come True e The Eternalist, e una seconda nel 2015 a proprio nome, che include Vagrants_09_14 e un’altra opera insieme a Bill Wells, The Most Important Place In The World.
Nel 2016 Aidan incide Where You're Meant To Be, raccolta che comprende personali reinterpretazioni di canzoni tradizionali scozzesi, nonché colonna sonora dell’omonimo e buffo documentario diretto da Paul Fegan, di cui è protagonista insieme alla cantautrice Sheila Stewart, mentre Malcolm trancia le sue radici folk rinunciando a chitarre e ritmi naturali per sequencer e drum machine con l’indie-pop di Summer Of ‘13.
In quello stesso periodo fa finalmente capolino un sito web nuovo di zecca, dove gli Arab Strap confermano il loro ritorno sulle scene con alcuni spettacoli celebrativi per i vent’anni di carriera, accompagnando l’annuncio alla release di una nuova versione del loro primissimo singolo remixata dal conterraneo Miaoux Miaoux, “The First Big Weekend Of 2016”. La lista di date si allunga tra sold-out e partecipazione a festival, protraendosi fino al 2017.
L’anno successivo il gruppo è di nuovo in stallo, con la pubblicazione di Here Lies The Body e Ghost Stories For Christmas, dove Moffat trova in RM Hubbert (El Hombre Trajeado) un nuovo compagno di giochi, e di Bananas, con il quale Middleton effettua una marcia indietro e torna a sonorità più semplici e miti di quelle sperimentate con il precedente capitolo solista.
Raise our carcass to the sky, wrap us up in sequin skin and we can dance again in sin
A seguito dell’uscita di Guitar Variations (2019), terzo disco a firma Human Don't Be Angry, il sito di Malcolm avvisa i fan di star lavorando insieme a Moffat a nuovo materiale che vedrà la luce nel 2020; nel mentre quest’ultimo inventa l’ennesimo pseudonimo (ormai non si contano più), Nyx Nótt, per pubblicare Aux pieds de la nuit, in area dark-jazz e post-electro. Il primo settembre di quell’anno, come promesso, il duo pubblica finalmente il singolo “The Turning Of Our Bones”, primo inedito degli Arab Strap giunto a quindici anni di distanza da The Last Romance, per poi fissare sul calendario il ritorno ufficiale con il settimo disco As Days Get Dark, previsto per marzo 2021 via Rock Action, l’etichetta fondata dei Mogwai.
Sesso e morte, temi prediletti da Moffat e Middleton, sono ancora in primo piano, ed è chiaro e lampante fin dai videoclip dei singoli “Here Comes Comus!” e “The Turning Of Our Bones”, e dalla copertina dell’opera. Quest’ultima ritrae il desktop di un computer con due finestre sovrapposte, che visualizzano immagini: il dipinto del 1886 “The Night Escorted By The Geniuses Of Love And Study” di Pedro Américo è posto in primo piano, oscurando una foto presumibilmente pornografica.
L'album incarna lo scivoloso equilibrio tra apollineo e dionisiaco, tra un suono di sintesi e uno di intimità, richiamandoci sulla terra dall'aldilà. Allo stesso modo l'espressività del cantato di Moffat oscilla tra il distacco emotivo e la caduta vertiginosa nella passione carnale. Apre inquieta e madida “The Turning Of Our Bones”, traghettando i nostri corpi inermi in “Another Clockword Day”, brano emblematico della raffinatezza del songwriting della band, in cui Moffat si muove con disinvoltura tra la poesia vibrante dello spoken-word e il quieto refrain cantato. Splendido l'ingresso della fisarmonica in dialogo con i fiati, morbido come un arrangiamento dei Tindersticks, mentre Aidan scorre le fotografie del suo protagonista, come Phil Elverum in “Microphones in 2020”.
As Days Get Dark si snoda tra groove disco e ballad, tra il ritornello magnetico e ossessivo di “Bluebird” (“I don't want your love, I need your love/ give me your love, don't love me/ I don't want your love, I need your love/ don't love me”) e l'incedere netto e fatale di “Tears On Tour”. Echi wave attraversano “Kebabylon” e “Fable Of The Urban Fox”, tra archi usciti da “Disintegration” dei Cure e schegge di ottoni free-jazz, così come “Here Comes Comus!”, tra languori dark e lascivia pop anni Ottanta (“What has the night to do with sleep?/ There is no secret she won't keep/ it's only sinful in the sunlight anyway”). Nel pre-finale la splendida “Sleeper” si chiude su “Just Enough”, due canzoni che incarnano il rapporto tra passato e presente nella versione contemporanea della musica degli Arab Strap:
Now this is my last chance to turn and go home
only seconds left before the doors close
I stand in the doorway, my bag left behind
I search for light; a whistle blows
Tanti piccoli dettagli, preziosi, da osservare da vicino senza perdere di vista l'immagine complessiva. Undici brani fisici, asciutti, intriganti e compatti, in un album che non ha alcuna caduta di tono. Uno straordinario ritorno che conferma l’importanza della qualità rispetto alla quantità, e come la scelta di pubblicare un disco quando si ha effettivamente qualcosa da dire ripaghi adeguatamente: sebbene il duo si sia infatti divertito separatamente a sperimentare (e continui a farlo) con una miriade moniker differenti, ha scelto di lasciare intatto il progetto originario, fino a quando l’ispirazione non è tornata a bussare alla sua porta, nei modi e nei tempi auspicati.
Il 2022 vede la pubblicazione del singolo “Aphelion/Flutter”, i cui brani risalgono alle sessioni di registrazione di As Days Get Dark, e conferisce i natali al progetto Gentle Sinners curato da Moffat e James Graham, frontman dei Twilight Sad. Nell’esordio These Actions Cannot Be Undone a cantare con il suo forte accento scozzese e con i colori folk della sua terra è sempre Graham, ma Aidan ci mette ricchissime basi ricolme di febbrili battiti industrial, archi melodrammatici e sfumature jazz (che il Nostro aveva già incrociato nei dischi con Bill Wells), in un turbine claustrofobico che ha come unico epicentro le ansie postmoderne espresse nelle liriche.
La fine del 2023 è tutta dedicata al venticinquesimo anniversario di Philophobia, celebrato con una serie di date in acustico, al termine delle quali, nel gennaio dell’anno successivo, la premiata ditta Moffat-Middleton annuncia il suo ottavo album in carriera I’m Totally Fine With It Don't Give A Fuck Anymore. A quasi trent’anni suonati di attività, gli Arab Strap non smettono di sperimentare e sorprendere il pubblico: se l'atteso ritorno sulle scene in grande stile con il capitolo electro post-rock As Days Get Dark era stato subito annoverato come uno dei migliori album mai realizzati dal duo scozzese, l’ottava fatica mantiene alto il livello della loro proposta, ponendo l’accento sulla componente indietronica. Scritta e suonata solo da Aidan Moffat e Malcolm Middleton, e rifinita insieme al collaboratore di lunga data Paul Savage, l’opera si muove tra synth-pop/rock, vezzi dance, passaggi darkwave, industrial e molto altro ancora, e appare incentrata su continui confronti e scontri tra mondo reale e virtuale, intrisa di un’ossimorica “rabbia tranquilla”.
L’incedere di “Allatonceness” sfiora memorie metal, che insieme a elementi industrial e post-hc creano una bellicosa apertura di forza, concentrata sul senso d’inquietudine crescente a ogni giro di batteria e chitarra minacciosa, con un finale sorprendente, tipico delle liriche recitate da Moffat, che qui descrivono in maniera efficace come si possa essere assuefatti dalla follia che si consuma in Rete. Il titolo del brano è tratto dal libro “The Medium Is The Massage: An Inventory Of Effects” (1967), scritto dal sociologo e studioso delle comunicazioni di massa Marshall McLuhan. Cede il passo a un pop sintetico dal piglio darkwave “Bliss”, vetta del disco divisa tra ritmo ossessivo e melodia, che ruotano intorno al tema delle molestie online nei confronti delle donne e della vigliaccheria di chi si nasconde dietro a uno schermo.
Cowards under camouflage
Lobbing hate-bombs, hurling jeers
Faceless brutes and bigots
Revealing all their boyhood fears
Hostility, fragility
Rejected, vengeful tattletales
We built another world
But history and hate prevail
Le raffiche di batteria campionata dall’aria vagamente baggy di “Sociometer Blues” sfociano in un incalzante epilogo synth-rock, mentre la riflessiva “Hide Your Fires” abbassa leggermente i toni, con note di piano sullo sfondo ed elettronica preminente, e il pensiero vola subito in direzione di alcune produzioni dei Depeche Mode. Prosegue su un tracciato affine, includendo archi e passaggi noise, la splendida e malinconica “Summer Season”, dove l’argomento cardine è quello della mancanza di connessione “reale” tra individui.
Le origini slowcore non vengono dimenticate ed è dimostrato da un pezzo come “Molehills”, la cui partenza è di carattere elettroacustico (con contaminazioni trip-hop) e vede protagonisti pochi vezzi di chitarra e sample di batteria, a cui si aggiungono ombre spettrali di archi nella seconda parte, ingranando verso una coda di loop martellanti.
Il percorso continua con l’atmosfera synth-pop-dance di “Strawberry Moon”, traccia di carattere personale che riguarda un momento difficile nella vita di Aidan, dominata da ritmi di rimando afrobeat e incardinata su una bassline avvolta da una crepitante nuvola di fuzz; l’alt-pop di “You're Not There”, unico punto debole dell’album, e l’incedere placido del piano di “Haven't You Heard”. Si ritorna al passato con le note chamber-folk della scarna ed emotiva “Safe & Well”, basata sulla toccante storia di una donna spentasi in completa solitudine e lasciata in decomposizione durante la pandemia, riprendendo quota con i ritornelli di “Dreg Queen” e la conclusione epica, tra muri di suono di matrice shoegaze e post-rock, affidata a “Turn Off The Light”.
Espressione di completa libertà fin dal suo titolo, I'm totally fine with it don't give a fuck anymore segna un’altra valida tappa, la più danzereccia ed orecchiabile, nell’infinita evoluzione degli Arab Strap: tra nuovi confini sonori raggiunti e tematiche urgenti e attuali, la voglia di sentire la premiata ditta (impossibile da inscatolare) Moffat-Middleton dal vivo in questa rinnovata veste, lasciando andare quella dose di quiet rage che alberga segretamente in ognuno di noi, permettendo di riconnetterci (davvero) con gli altri, è più forte che mai.
Contributi di Claudio Fabretti (“Monday At The Hug & Pint”), Maria Teresa Soldani (“As Days Get Dark”) e Michele Corrado (“These Actions Cannot Be Undone”)
ARAB STRAP | ||
The Week Never Starts Round Here (Chemikal Underground, 1996) | ||
Philophobia (Chemikal Underground, 1998) | ||
Elephant Shoe (Go! Beat, 1999) | ||
The Red Thread (Chemikal Underground, 2001) | ||
Monday At The Hug & Pint (Chemikal Underground, 2003) | ||
The Last Romance (Chemikal Underground, 2005) | ||
Ten Years Of Tears (Compilation, Chemikal Underground, 2006) | ||
Scenes Of A Sexual Nature (Box-set, Chemikal Underground, 2010) | ||
As Days Get Dark (Rock Action, 2021) | 8 | |
I’m Totally Fine With It Don't Give A Fuck Anymore (Rock Action, 2024) | 7.5 | |
AIDAN MOFFAT | ||
Hypnogogia (as Lucky Pierre, Melodic, 2002) | ||
Touchpool (as L. Pierre, Melodic, 2005) | ||
Dip (as L. Pierre, Melodic, 2007) | ||
I Can Hear Your Heart (Chemikal Underground, 2007) | ||
How To Get To Heaven From Scotland (as Aidan Moffat & The Best-Ofs, Chemikal Underground, 2009) | ||
Everything's Getting Older (with Bill Wells, Chemikal Underground, 2011) | ||
The Island Come True (as L. Pierre, Melodic, 2013) | ||
The Eternalist (as L. Pierre, Melodic, 2013) | ||
Vagrants_09_14 (2015) | ||
The Most Important Place In The World (with Bill Wells, Chemikal Underground , 2015) | ||
Where You're Meant To Be (live/soundtrack album, Kiss My Beard Productions, 2016) | ||
Here Lies The Body (with RM Hubbert, Rock Action 2018) | ||
Ghost Stories For Christmas (with RM Hubbert, Rock Action, 2018) | ||
Aux pieds de la nuit (as Nyx Nótt, Melodic, 2020) | ||
These Actions Cannot Be Undone (with James Graham, as Gentle Sinners, Rock Action, 2022) | ||
MALCOLM MIDDLETON | ||
5:14 Fluoxytine Seagull Alcohol John Nicotine (Chemikal Underground, 2002) | ||
Into The Woods (Chemikal Underground, 2005) | ||
A Brighter Beat (Full Time Hobby, 2007) | ||
Sleight Of Heart (Full Time Hobby, 2008) | ||
Waxing Gibbous (Full Time Hobby, 2009) | ||
Human Don't Be Angry (as Human Don't Be Angry, Chemikal Underground, 2012) | ||
Music And Words (with artist David Shrigley, Melodic, 2014) | ||
Electric Blue (as Human Don't Be Angry, Around7Corners, 2015) | ||
Summer Of '13 (Nude, 2016) | ||
Bananas (Triassic Tusk, 2018) | ||
Guitar Variations (as Human Don't Be Angry, Around7Corners, 2020) |
The Turning Of Our Bones (da As Days Get Dark, 2021) | |
Compersion Pt. 1 (da As Days Get Dark, 2021) | |
Here Comes Comus! (da As Days Get Dark, 2021) | |
Bliss (da I'm totally fine with it don't give a fuck anymore, 2024) | |
Allatonceness (da I'm totally fine with it don't give a fuck anymore, 2024) | |
Strawberry Moon (da I'm totally fine with it don't give a fuck anymore, 2024) |
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