“Thank You For Listening And Goodbye”. Questa è la scritta che campeggia sul retro di copertina dell’ultimo lavoro degli scozzesi Arab Strap. Ultimo in tutti i sensi. “Ten Years Of Tears”, infatti, è la lettera di addio che Aidan Moffat e Malcolm Middleton hanno scritto ai loro adepti per annunciare, dopo dieci anni tondi di attività, la fine del loro sodalizio artistico. Un incontro che ha dato frutti succosi ed importanti. Una band che lascia un vuoto nel panorama del rock indipendente anglosassone che non sarà colmato molto facilmente. A cominciare dall’esordio di “The Week Never Starts Round Here”, passando per lo straordinario e mai troppo lodato “Philophobia”, fino all’ultimo album di studio dello scorso anno “The Last Romance”, gli Arab Strap (che rivelarono la propria genialità sin dalla scelta del nome…) hanno caratterizzato la scena musicale indipendente, dalla seconda parte degli anni novanta fino ad ieri, con la loro personalissima ed inimitabile miscela di indie-rock e (post)folk, con le loro batterie elettroniche che vanno a braccetto con gli archi più romantici, con la voce inconfondibile di Aidan Moffat e il raffinato gusto per l’arpeggio (ma, talvolta, anche per le schitarrate) di Malcolm Middleton.
Non era, quindi, affatto facile condensare dieci anni di attività e di successi in un unico album, e c’era il rischio che il risultato sarebbe stato un banalissimo ed inutile “Best of” o una sequenza di singoli. Ma gli Arab Strap hanno mostrato nell’arco della loro carriera di non essere affatto banali, né legati a logiche di mercato e, così, hanno deciso di curare personalmente una raccolta che, più che un vero e proprio compendio della loro parabola musicale, è un esclusivo e vivido documento della loro storia: dal libretto, curatissimo in ogni dettaglio e pieno di ghiotte curiosità per i fan, per proseguire, naturalmente, con la scaletta che (a parte un breve intro acustico, risalente alle registrazioni di “The Last Romance”) inizia con il (francamente inascoltabile) demo di “Islands” del 1995, e si conclude con l’ultimo singolo della band “There Is No Ending” (titolo a ben vedere molto poco profetico), il cd si presenta come un saliscendi di emozioni e stili, ritmi ed umori.
Molte sono le canzoni da ricordare. Prima fra tutte “The First Big Weekend” che i portò due ragazzi di Falkirk alla ribalta e venne addirittura scelta come colonna sonora di uno spot di birra (benché, successivamente, il brano fu “doppiato”, poiché, fuori dalla Scozia, nessuno riusciva ad afferrare l’inintelligibile parlato di Aidan Moffat). Poi il capolavoro “Packs Of Three” qui riproposto in una scarna ed emotiva versione acustica, che permette di godere a pieno il magnifico testo della canzone, il cui incipit rimane uno dei più straordinari degli ultimi anni (“It was the biggest cock you'd ever seen, but you've no idea where that cock has been …”).
Assolutamente imprescindibili risultano anche “(Afternoon) Soaps”, una versione più romantica ed elegante di “Soaps”, uscito solo su singolo nel 1996, dove il violoncello si unisce in un morbido amplesso con la incalzante ritmica della batteria e “Rocket Take Your Turn”, inciso per il “single club” della Chemikal Underground, che, a posteriori, sembra anticipare l’electro, combinandola perfettamente con il folk ed il post rock dei Mogwai.
Spigolando tra “alternate versions” di brani più noti e autentiche chicche (tra le quali l’unico brano già edito in identica versione è lo splendido “The Shy Retirer”) si impongono, in tutta la loro depressiva e oscura bellezza “Where We’ve Left Our Love”, pubblicata, fino ad oggi, solo in Giappone e “The Girl I Loved Before I Fucked”, brano scritto molti anni fa, ma registrato appositamente per questo album. Chiude il programma “There Is No Ending”, uno dei brani più positivi mai scritti dagli Arab Strap (“Not everything must end, not every romance must descend, not every lover's pact decays, not every sad mistake replays. If you can love my growing gut, my rotten teeth and greying hair, then I can guarantee I'll do the same as long as can bear…:”) con un andamento musicale sostenuto e, quasi, gioioso tra fiati rutilanti e cori ubriachi.
Su tutto i testi. Storie ordinarie, raccontate con la giusta miscela di cinismo e di sentimento, narrate con lo sguardo partecipe e spontaneo del protagonista ma, al contempo, con il piglio franco ed obiettivo dell’osservatore.
In definitiva “Ten Years Of Tears” non è il solito album celebrativo, ma una organica e compiuta rivisitazione della carriera degli Arab Strap. Con molti brani memorabili ed altri assolutamente minori (per alcuni dei quali si comprende il perché del loro essere inediti), probabilmente la raccolta, piuttosto che incrementare le schiere degli estimatori, interesserà ed appassionerà coloro che già amano i nostri.
Non sarà facile, comunque, rimpiazzare gli Arab Strap. La loro straordinaria capacità di raccontare storie di cattivo sesso, sbronze, tradimenti, ma anche di amore (vero, non quello che fa solo rima con cuore) e di amicizia, ci mancherà. Così come ci mancheranno quelle canzoni adrenaliniche e depressive allo stesso tempo, quel modo così ironico, quasi sarcastico, di affrontare il palco e la musica che hanno accompagnato molti di noi in un decennio di cambiamenti e trasformazioni (musicali e personali).
Per dirla a modo loro: il greve, grosso, misogino e barbuto ubriacone ed il timido, schivo ed apprensivo pel di carota ci hanno salutato, con il dito medio alzato e un sincero sorriso sulle labbra. Alziamo i boccali!
(Il voto che segue è all’album. Un voto alla carriera sarebbe stato, necessariamente, molto più alto.).
(22/12/2006)