Dai tempi di "Young Team" i Mogwai hanno rappresentato per gli amanti del post-rock un approdo sicuro, una fiducia mai venuta meno, che si è rinvigorita dopo il meritato successo di "As The Love Continues", primo album della band scozzese che ha conquistato il numero uno della Uk Chart.
Nonostante tutto, "The Bad Fire" si è rivelato un parto difficile per la band di Glasgow. L'undicesimo disco dei Mogwai giunge dopo un periodo ricco di problematiche personali e dopo la grave malattia della figlia del polistrumentista Barry Burns, strappata al pericolo grazie a un trapianto di midollo osseo. Con queste premesse è facile immaginare che "The Bad Fire" sia un progetto che risente degli ultimi avvenimenti sia personali che professionali.
Registrato in pochi giorni sotto la sapiente mano del produttore John Congleton, già dietro il banco per i Sigur Rós e per gli Explosions In The Sky, il nuovo disco dei Mogwai è tanto maturo e sapiente quanto brioso e gioviale.
La struttura decisamente più pop delle composizioni è abilmente stemperata da un corpo sonoro facilmente identificabile e riconducibile all'immaginario cinematografico della band, ma sempre ricco di quegli slanci che ne sottolineano l'ispirazione e la mancata deriva verso la routine ("Pale Vegan Hip Pain"). L'inferno ("The Bad Fire") è per i Mogwai l'ostacolo da superare in questo momento difficile, ed è dunque lecito che il manifesto synth-pop dell'album, "Fanzine Made Of Flesh", eviti qualsiasi pulsione avantgarde per un ammaliante tripudio di synth e vocoder, ed è scaltra la scelta di abbellire la melodia più facile e banale del disco ("Hi Chaos") con divagazioni strumentali che regalano un'intensità avvolgente.
Per un gruppo che in passato ha curato qualsiasi particolare delle sue produzioni (dalla grafica ai titoli dei brani), l'ultimo album è decisamente svogliato, privo della rabbia degli esordi eppur caustico: le progressioni e le dinamiche sonore di "If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others" sono in tal senso esemplari, ma i Mogwai sembrano aver carpito nuove soluzioni per le loro aliene creazioni post-rock, con rimodulazioni shoegaze alla My Bloody Valentine ("18 Volcanoes") e geniali incursioni nelle strutture del jazz, ma anche del kraut-rock, con l'ottima "Hammer Room" che vede i musicisti impegnati nel creare un vortice sonoro in grado di permettere a ognuno di essere sia protagonista che comparsa.
È palese che anche per i Mogwai, come per molti altri gruppi coevi, sia giunto il momento del trapasso da band ribelle a band omologata: come i dinosauri del progressive rock, anche gli alfieri del post-rock sono sempre più inclini alla forma canzone, alla contaminazione con l'elettronica e a un ruolo subalterno della musica come forma d'arte. L'importante è vivere questo passaggio con ardore e dignità, un ardore appena accennato in "Lion Rumpus", e una dignità che invece resta presente quasi per tutto l'album, confortando sia i vecchi che i nuovi fan del gruppo scozzese.
26/01/2025