Quello dei 65daysofstatic è un processo in divenire, una sorta di tracciato che nei tredici anni dalla sua nascita ha sempre cercato di orientarsi in direzione dello scontro con ostacoli e divergenze, trasformate in affinità. Dei cinque album ad oggi partoriti da un gruppo di cui si continua a sapere ben poco, nemmeno uno è sembrato fotocopia dell'altro, ripescaggio o riassemblaggio del passato: a una matrice legata al post-rock inteso come attitudine, il quartetto inglese ha sempre unito l'interesse verso l'esplorazione di nuove forme, ispirato non poco dall'esperienza di quei Mogwai dei quali è sempre sembrato il più prossimo erede.
Da un inizio incentrato sul suono della chitarra che annunciava con spietato realismo la decadenza del math-rock, transitando per l'apice romantico del meraviglioso e insuperato "One Time For All Time", l'infarinatura gaze di “The Destruction Of Small Ideas” e l'esperienza cinematografica per la colonna sonora di “Silent Running”, i quattro di Sheffield arrivano a questo quinto lavoro affrontando per la prima volta un percorso retrospettivo, quasi di ricomposizione dopo l'esplosione totalitaria di "We Were Exploding Anyway". Otto soli brani per un album breve che punta dunque tutte le sue carte sull'intensità di quelli che sono forse i migliori crescendo mai partoriti dalla band. Questi ultimi vanno però a inchinarsi senza mezze misure alle immancabili cattedrali dei maestri Explosions In The Sky e, soprattutto, alle deflagrazioni verso l'infinito di quei MONO che dal Sol Levante continuano a rappresentare un limite insuperato, il modello perfetto.
Esemplare è in tal senso “Sleepwalk City”, candidato potenziale alla palma di emblema riassuntivo dell'intero lavoro: un'ascesa rapida quanto intensa fino alla vetta, prima di una ricaduta verso il basso minuziosamente rallentata da rintocchi elettronici. La partenza di “Heat Death Infinity Splitter” torna invece a sottolineare il legame coi padri ispiratori Mogwai in una progressione vorticosa dal sapore minimalista, in totale contrapposizione con la successiva “Prisms”, unica escursione in un terreno nuovo che questa volta si identifica in bagliori astrali à-la Vladislav Delay.
Il lato più morbido e crepuscolare del sound del quartetto trova espressione nella malinconia terremotata di “Taipei” e nel notturno invernale di “The Undertow”, che chiude implodendo anziché scoppiando. “Blackspots” funge nei suoi sette minuti abbondanti da autentico cuore, correndo all'impazzata sotto la guida di synth ferventi prima e di chitarre in estasi poi.
Queste ultime, dopo aver disegnato la tempesta, riflettono e amplificano i bagliori del finale catartico di una più mansueta “Unmake The Wild Light”, per poi sfogarsi totalmente nel congedo da eclissi solare di “Safe Passage”. E proprio nell'intensità di quest'ultimo episodio si innesta il significato primo dell'album più emotivo e sentito e al tempo stesso meno pensato dei 65daysofstatic: colpire al cuore, laddove solo i grandi sanno arrivare, vertendo sulle emozioni anziché sulla ricerca di un linguaggio a tutti i costi elevato. Spontaneità come verbo unico, al costo di qualche appoggio in più su dei cliché che si confermano intatti nella loro efficacia, se sfruttati con quella dose di sentimento pronta a fare la differenza e a consacrare un gioiello che brilla di luce selvaggia.
Post-rock will never die, even if it has probably never existed.
25/10/2013