I 65 Days Of Static giungono alla terza prova, quella che, in teoria, viene considerata come sunto degli album precedentemente pubblicati e trampolino di lancio verso nuovi orizzonti. E se si tratta di tirare le somme su questo quartetto britannico originario di Shieffield, il bilancio non può che essere positivo, un gruppo che si conferma sui livelli già precedentemente espressi. Se nell’opera prima "The Fall Of The Math" si aggiornavano (possibile? Ebbene sì) sonorità post-rock in costante bilico tra echi celestiali, sfuriate noise e impeti sludge, tempeste soniche con chiari rimandi prog centrifugate con scariche elettriche di warpiana memoria caratterizzavano "One Time For All Time".
"The Destruction Of Small Ideas" si presenta come una sintesi piuttosto efficace della loro carriera. Uscite per la Monotreme, queste 12 tracce, per oltre un’ora di musica, ricalcano le ombre di furenti saliscendi, reti elettroniche fitte fitte, atmosfere apocalittiche, tinte à-la Isis. Ma quella che i britannici ci presentano è una formula particolarissima. In questo senso ne è programmatico manifesto "Don't Go Down To Sorrow": pianoforte in partenza, impennate vorticose e chiusura in una marea di filamenti electro-glitch. E non fatevi ingannare nel titolo e nella sostanza dall’iniziale "When We Were Younger & Better", andate oltre e lasciatevi immergere nella classica bellezza di "Music Is Music As Devices Are Kisses Is Everything", traccia che pare uscita dal fenomenale "System/Layers" pubblicato a nome Rachel’s.
E se se proprio proprio non ce la fate a farvi cullare da note lente e cadenzate, lasciatevi trascinare dalla coda di "These Things You Can't Unlearn", epica come poche. E mandate giù pure quel paio di bocconi, non dico amari, ma mezzi amarognoli sì, che rispondo al nome di "Primer" e "Wax Futures", e tornate godere di quell'eccezionale esperimento electro-dark aka "White Peak/Dark Peak" o a rifugiarvi nella celestiale bellezza della traccia di chiusura, "The Conspiracy Of Seeds", nella quale alle epiche note di un violino si intrecciano chitarre che sgomitano, in costante movimento verso l’estremo, verso un limite che pare quasi possibile da intravedere. E le note finali, in una sorta di ringkomposition di greca memoria, riconciliano con il mondo circostante. E vi parrà addirittura che, in fondo, la varietà sia poca, che la solfa, trita e ritrita, del post-rock non porti che alle solite (sempre meno) emozionanti montagne russe fatte di chitarre, batterie e violini. Ma è qui che si commette forse l’errore. Errore perché nella fluida bellezza di "Lyonesse" ci si potrebbe perdere per ore, perché ci si chiede come sia possibile non lasciarsi catturare dalle post-dance di "The Distant & Mechanised Glow Of Eastern European Dance Parties", perché è sbagliato fossilizzarsi in una delle etichette più fuorvianti, indecifrabili e riduttive della storia della musica: quella del post-rock.
E lasciate perdere idiosincrasie personali, pregiudizi, rancori e menate varie. Questo è un signor album. Provare per credere.
02/05/2006