Rispettando la cadenza quadriennale che dopo “Wish” (1992) li
ha visti pubblicare prima il loro peggiore album di sempre (“Wild Mood Swings”),
poi un lavoro interessante ma incompiuto e difficile da digerire come
“Bloodflowers”, tornano sui blocchi di partenza i Cure, forti stavolta della presenza al loro
fianco del produttore (nu-)metal Ross Robinson, chiamato al difficile compito di
aiutare il gruppo a cercare un sound che dopo più di 25 anni di carriera riesca
ancora a essere moderno e valido punto di partenza per una ulteriore evoluzione
della band.
A detta del leader Robert Smith, questo album sintetizza nel
modo più esauriente quello che è oggi "il suono Cure", quello che i Cure
vogliono essere e vogliono dire; da qui dunque la scelta di intitolarlo
semplicemente con il nome della band (si tratta del loro 13° album). Il problema
però è che Smith aveva anche annunciato questo album come “il più oscuro” in
assoluto della loro produzione, e si sa che alle dichiarazioni di Smith che
precedono l'uscita di un suo album bisogna credere poco o nulla. Quante volte,
ad esempio, un album dei Cure era stato annunciato dal suo leader come “l'ultimo
della nostra carriera”?
Eppure, a sentire un brano come “Lost”, posto in
apertura, verrebbe da dire che forse stavolta Smith dice la verità: si tratta
infatti non solo del pezzo senza dubbio più riuscito dell'album, ma anche forse
della loro migliore canzone dai tempi di “Disintegration” (1989), un incubo
disperato che si snoda sotto forma di una ipnotica litania (e quanto è efficace
quell'“I can't find myself” ripetuto all'infinito) vicina a certi Nine Inch Nails , lanciata in un
fantastico crescendo con Smith che dà prova di come la sua voce continui di
album in album a maturare, a farsi sempre più espressiva. Più o meno sulla
stessa falsariga, ma ancor più tirato e nervoso, è il successivo “Labyrinth”,
brano affascinante anche se fin troppo rifinito e levigato dalla produzione
(specie gli effetti sulla voce e i robusti ma poco “spontanei” intrecci
chitarristici).
A partire da “Before Three” iniziano, però, anche le
perplessità: i Cure tornano a flirtare col pop più orecchiabile, alla ricerca
forse delle nuove “Just Like Heaven” e “Friday I'm In Love”. Nulla di male, se
non fosse che la maggior parte dei brani più “radiofonici” di questo album
soffrono da un lato il songwriting non ispiratissimo (ma dopo tanti anni si
tratta certo di un difetto comprensibile) e dall'altro proprio il lavoro sul
sound, che cerca di irrobustire quelle che sono semplici ballate. E se “Before
Three” ancora si salva con l'eleganza della sua melodia, il singolo “The End Of
The World” affonda nella banalità a livelli quasi imbarazzanti (quei coretti,
quel sound assordante totalmente fuori posto…), praticamente una brutta copia
dei Cure più “pop”, totalmente priva della bellezza, della fluidità, del
romanticismo sognante e svagato dei singoli più famosi della band. Come “Lost”
ha segnato subito il vertice del disco, “The End of the World” segna invece il
suo punto più basso (solo “The 13th”, da Wild Mood Swings, le sta davanti – e
non di poco – nella classifica dei peggiori singoli della band).
Il
resto si snoda quindi in canzoni gradevoli, ma poco incisive e fortemente “già
sentite” come “Alt.End” e “Taking Off” (la più “Cure-iana” di tutte):
“Anniversary”, che riporta alle atmosfere dell'album “Wish”, è forse uno degli
episodi più interessanti. Di contro “Us Or Them” e “Never” sfoderano i
chitarroni metal sui quali il produttore Ross Robinson è più a suo agio; meno a
suo agio sembra essere però il gruppo, nonostante le declamazioni di Smith
tentino di riportare il tutto su terreni più consoni ai Cure, riuscendoci solo
in parte. Alla fine il pezzo più credibile è “I Don't Know What's Going On”, che
riesce là dove il primo singolo fallisce su tutta la linea, cioè far convivere
questo nuovo sound e una melodia che più pop non si potrebbe. A parte il
capolavoro iniziale, comunque, i Cure riescono a dare di nuovo un senso forte
all'intera operazione soltanto nella lunghissima e suggestiva cavalcata
conclusiva, “The Promise”.
Alla fine di quest'album restano in ogni caso
più perplessità che entusiasmi. Questi ultimi anzi si possono praticamente
circoscrivere alla sola “Lost”. Se l'obiettivo era cercare di suonare “moderni”
e “giovani”, di riscuotere anche un credito nei confronti di gruppi giovani che
devono non poco ai Cure (dai Mogwai per “The Promise” agli stessi Nine Inch
Nails, ai Placebo, agli A Perfect
Circle, forse il gruppo che più nel sound può essere un metro di paragone
attendibile per questo album), allora nel complesso si può dire che è stato
centrato. Ma l'impressione è che si tratti solo di una facciata. L'impressione è
che i Cure abbiano voluto con questo album per prima cosa tornare “di moda”,
rifarsi il look senza cercare di perdere nulla del loro inconfondibile stile. Ma
la sostanza è quella di un'operazione riuscità solo in parte. “The Cure” è un
disco che sembra preoccuparsi più della ricerca di un compromesso tra passato e
presente (mai parlare del futuro quando c'è di mezzo Robert Smith) che delle
canzoni che contiene.
07/12/2006