A dispetto della monolitica nomea "dark" che li accompagna i Cure del cantante Robert Smith hanno vissuto diverse vite nei loro trent'anni di carriera: alfieri della più fosca new wave inglese nei primi anni Ottanta, popstar ultramelodiche alla fine dello stesso decennio, negli ultimi anni si sono trasformati in una macchina da concerti inesauribile, sostenuta soprattutto da un'ampia comunità di fan attiva sul web.
Parallelamente a questa evoluzione, anche la musica seguiva un percorso singolare. Se per quasi tutti i rockers sembra valere infatti, come per i rivoluzionari, il motto per cui si nasce incendiari e si muore pompieri, i Cure invece si sono trasformati solo in tarda età in ciò che non erano mai stati da giovani, ovvero una rock band compiaciuta d'esser tale.
Nel nuovo "4:13 Dream", tredicesimo album della loro carriera, ripropongono la foga dell'episodio precedente del 2004 e si giovano del ritorno del chitarrista Porl Thompson, già coautore del grande successo "Disintegration", uscito dalla band ai tempi di "Wish" per lavorare nientemeno che al fianco di Robert Plant e Jimmy Page dei Led Zeppelin.
Robert Smith, dal canto suo, offre una manciata di buone canzoni: l'atmosferica ouverture di "Underneath The Stars", il crescendo sinistro di "The Scream", la sfuriata isterica di "It's Over", il pop obliquo di "Sleep When I'm Dead" e "Freakshow", su cui Thompson si produce in sfrenati effetti wah wah. Si tratta di brani maturi, dove l'inquietudine che caratterizzava la band come un marchio di fabbrica viene riproposta in forme adulte, misuratamente elettriche, lontane dal giovanilismo di tante band del circuito emo e indie che negli ultimi anni hanno citato i Cure come fonte d' ispirazione.
Purtroppo parte del disco è appannaggio di un pop-rock piuttosto blando e innocuo, anche se non si registrano i passi falsi del precedente "The Cure" (prodotto piuttosto incongruamente da quel Ross Robinson famoso per aver lanciato i Korn), grazie anche agli asciutti arrangiamenti incentrati sulla chitarra, a limitare tastiere e sonorità kitsch. La chitarra di Thompson riesce in ogni caso a conferire al sound una autenticità rock che nei tre dischi precedenti mancava quasi del tutto, e questo vale anche per gli episodi più leggeri e delicati, senza bisogno quindi che ogni brano si trasformi necessariamente in un assalto all'arma bianca, allo scopo di dimostrarci che i Cure ci sono ancora e lottano insieme a noi.
A dare unità e coesione a un album piuttosto vario e disinvolto nello spaziare tra diverse sonorità (dalla dolce lapsteel guitar di "Siren Song" alle ruvide distorsioni di una"The Real Snow White" odorosa di anni Settanta) è la voce del leader, decisamente in forma e coadiuvata da un armamentario di effetti di eco che dimostra anche una certa vena eccentrica e sperimentale.
Dopo trent'anni di carriera è difficile dire cosa spinga ancora Robert Smith a scrivere canzoni e soprattutto a calcare ossessivamente i palchi dei concerti live, quasi che i Cure contendano agli U2 il titolo di "Rolling Stones della new wave". Sicuramente questa è la dimensione nella quale la band ha dimostrato di essere maggiormente a suo agio, registrando successi di pubblico in un periodo difficile per tutta l'industria musicale. Non si può certo quindi rinfacciare loro come un torto il fatto che dischi come questo servano soprattutto a giustificare ulteriori tournée, senza aggiungere niente di particolare al discorso musicale di una band che ha davvero dato, e detto, tutto.
Anche i detrattori dovranno ormai accettare che, mentre la tradizione delle malinconie inglesi continuava oltre di lui (trionfando coi Radiohead), il cantante dei Cure è riuscito a crearsi un mondo a parte tanto inquietante quanto consolatorio, a cui un certo tipo di pubblico sembra continuare a far ritorno per ristoro e conforto.
26/10/2008