Nessuna decade musicale ha subito un tentativo di rimozione violento come quello operato nei confronti degli anni Ottanta dal decennio successivo. Per quanto indice di rinnovata creatività, il tentativo di far piazza pulita del passato prossimo si è però rivelato pura retorica: già nel 1998 i Massive Attack fornivano una vera e propria summa di ricordi new wave che, unita al loro stile personale e innovativo, dava vita a "Mezzanine", uno dei più celebrati album inglesi del periodo.
Il gruppo, composto da Robert "3D" Del Naja, Grant Marshall ("Daddy G") e Andrew Vowles ("Mushroom") era già riuscito, con "Blue Lines" del 1991 e "Protection" del 1994, a trasformare l'hip-hop newyorkese in un concentrato di soul, reggae-dub e elettronica dalle atmosfere fumose e cinematiche, etichettato da tutti come "trip-hop" o "Bristol sound". Fin dalle origini, quale gruppo aperto (il collettivo "Wild Bunch") la band si è rivelata capace di sintetizzare esperienze musicali e umane diversissime, presentando un'anima "nera" (legata soprattutto agli esperimenti su dub e reggae della comunità caraibica di Bristol) e una "bianca" che, nella persona di Del Naja, guarda all'elettronica e alla dance, allora in espansione esponenziale nel Regno Unito.
Nel 1998, grazie alla pratica del campionamento, il gruppo è in grado di dar vita a un'opera che sia al contempo un concentrato enciclopedico di citazioni e il manifesto di una sonorità nuova, anche rispetto alle proprie produzioni passate. Pur non giungendo per primi a quel gioco di taglia e cuci elettronico sui lavori altrui che è il sampling (e che anzi in quel periodo dilaga con grande scalpore, soprattutto per le ovvie implicazioni legali dei "furti creativi"), i Massive Attack sono i primi a farne una sorta di dichiarazione culturale. Tra i credits delle canzoni leggiamo infatti, accanto a nomi che fanno ovviamente parte del repertorio di black music (Isaac Hayes) e affini (lo ska dei The Paragons), una serie di prestiti riferiti al grande calderone della dark-wave anni Ottanta: Wire, The Cure, Depeche Mode, Siouxsie and the Banshees (sulla bonus track giapponese). Ma il gioco di recupero non si ferma ai suoni, perché alla voce stavolta la parte di grande ospite spetta, dopo la presenza di Tracey Thorn degli Everything But The Girl su "Protection", a Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins.
L'incredibile connubio di elettronica nera (il dub) e bianca (l'elettronica di atmosfera propugnata dalla dark-wave) dà vita a una serie di pezzi dove ai consueti climi ipnotici si aggiunge una corposità monolitica del suono, che trascende l'inquietudine urbana in tragedia da interni in sfacelo. La tensione è alta fin dall'apocalittico brano introduttivo: "Angel" avanza infatti su una inesorabile progressione di basso dub (potentissimo, scurissimo) e batteria, che cresce lentamente fino all'ingresso deflagrante di una dura chitarra rock. L'alternanza di pause e tensione è realizzata attraverso il sovrapporsi di strumenti "veri" alle consuete sonorità elettroniche: ecco un'ulteriore innovazione e cifra stilistica del disco, che nella trasposizione live richiederà l'utilizzo di una vera band. Rispetto a questi elementi tipicamente rock, l'equilibrio con la black viene garantito dal salmodiare del cantante reggae Horace Andy, il cui carisma sulfureo aggiunge non poco a una miscela già di per sé scura e catramosa: "Angel"è il pezzo più rappresentativo del disco.
L'altrettanto ossessiva "Risingson" vede invece il recitato rap di 3D e Daddy G in un contesto più soft ma anche più morboso, in mezzo a un tripudio di sonorità soffocanti da incubo mistico, sottolineato dagli slogan del testo ("dream on" ma anche un antico "where have all the flowers gone?"). Da notare la scultorea linea di basso, tale da far pensare che le "linee blu" dell'esordio siano diventate linee nere, gravide di una tensione sotterranea pronta a liberarsi negli interventi di chitarra. Un altro capolavoro di quest'arte da costruttori di atmosfere da thriller è "Inertia creeps", tutta costruita dallo stile strascicato di Del Naja, da un martellante arsenale di percussioni e, soprattutto, dal campionamento di archi e sonorità arabe che trasportano l'ascoltatore in un immaginario suk buio e soffocante.
Ma il vero pezzo forte è "Teardrop". Se è valido il vocabolario da noir messo in campo finora, si può parlare di un vero e proprio squarcio di luce nelle tenebre. Sopra a una traccia ritmica minimale, simile al pulsare di un cuore, e a un arpeggio celestiale di chitarre, si alza la voce angelica di Liz Fraser, limpida come una promessa di salvezza e redenzione. Qui la sintesi di sonorità dub e di atmosfere dark raggiunge la perfezione, resuscitando, in una chiave del tutto moderna, il sound astratto ed esoterico dell'etichetta 4AD. Il brano avrà un grande successo mediatico anche grazie all'inquietante videoclip, dove a "cantare" la melodia sarà l'immagine di un feto nella placenta materna.
Quello che stupisce di questi Massive Attack non è tanto il produrre una musica elettronica impossibile da ballare (lo avevano sempre fatto) ma l'allontanarsi dall'equivoco per cui il trip-hop sarebbe stato musica da relax o da cocktail, facendone il veicolo di una cupa tensione metropolitana e candidandolo alla frequentazione di spazi tipicamente rock. In questo avvicinamento tra i due mondi (elettronico e della musica "suonata") i tre sono molto simili ai Depeche Mode, gruppo decisamente uncool nel '98 ma di cui in questo disco si cita, molto onestamente, il drammatico "Songs Of Faith And Devotion", per il totale di tre campionamenti su "Group Four".
La voce della Fraser torna proprio per quest'ultimo brano e sull'altrettanto soffice ballad "Black Milk", rivelandosi ancora incantevole e adatta anche ai brani più vicini al versante lounge della produzione Massive Attack. Al repertorio più soft si ascrivono anche "Dissolved Girl"(cantata da Sara Jay), dotata peraltro di un duro intermezzo chitarristico, e "Mezzanine", title track caratterizzata dall'efficace rap di Del Naja e Marshall, che riesce persino a citare i Gang Of Four nel verso "give me evenings and weekends".
L'ultimo vero capolavoro del disco è però "The Man Next Door", grazie a una monolitica linea di basso, a evocativi ricami di chitarra e soprattutto al carisma sciamanico di Horace Andy. Chi li ha visti in concerto sa che il contrasto tra il sound cibernetico della band e questa atavica figura da Calibano giamaicano è una delle più efficaci sintesi operate dai Massive Attack, perfetto contraltare per l'eterea vocalità delle ospiti femminili. L'arte citativa si rivela qui magistrale, riuscendo a far convivere la melodia ska di "Got To Get Away" dei The Paragons con un sample della leggendaria batteria rock di "When The Levee Breaks" dei Led Zeppelin e con un break dove emerge l'ossessiva chitarra dei Cure in "10:15 Saturday Night": parlare di apertura mentale è un eufemismo.
D'altronde questo disco è profondamente figlio del suo tempo nel riproporre citazioni, memorie, brandelli di passato musicale in una sintesi caotica quanto vitale, specchio di una società ormai altrettanto babelica e onnivora, caratterizzata da quella che l'ex-collaboratore Tricky chiamerà la "Pre-Millennium Tension".
Il funambolismo necessario a mantenere questi fragili equilibri è stato fatale anche agli stessi Massive Attack, che hanno subito la defezione di Mushroom (quello più legato alle sonorità black) e hanno visto un eccessivo predominio di 3D e dell'elemento bianco sul successivo "100th Window".
L'atteggiamento di riscoperta degli anni Ottanta dilagava intanto in una vera e propria moda durante il Duemila, seppure attraverso altre forme musicali, più legate alla dance, con miriadi di collaborazioni volte a "sdoganare" i vari reduci del periodo in chiave elettronica (chi ricorda Siouxsie coi Basement Jaxx?). Sicuramente lo scettro di più seri enciclopedisti del passato wave si è ormai trasferito dai Massive Attack a Lcd Soundsystem e alla DAF. Proprio il 2008 ha invece proposto un nuovo caso di "fuga dal trip-hop" attraverso sonorità più cupe e dure con "Third" dei concittadini Portishead.
Bisogna ammettere però che "Mezzanine" non ha avuto prosecutori veri e propri da un punto di vista squisitamente musicale, e rimane a simbolo di un periodo particolare, dove le differenze etniche e culturali nelle metropoli erano viste come fonte di una tensione non per forza negativa, ma anzi foriera di impensabili sviluppi creativi. Poche opere sono inoltre state capaci, come questa dei Massive Attack in ambito musicale, di sintetizzare un periodo così lungo di storia culturale inglese. Per un efficace parallelo in ambito artistico andrebbe citata l'opera di Gilbert and George, anch'essi particolarmente sensibili nel notare come, nel Duemila quanto negli anni Settanta, la vera identità culturale di un popolo nasca dalla vita vissuta per le strade e non dai discorsi nei salotti buoni o alla televisione.
16/07/2008