Promesso fin dal 2019 e finalmente annunciato lo scorso settembre, con tanto di conto alla rovescia sapientemente orchestrato sul web, tra trovate promozionali, anticipazioni e strategica data d’uscita fissata al 1° novembre, giunge finalmente a noi “Songs Of A Lost World”, l’attesissimo album del ritorno dei Cure dopo 16 anni. Una buona notizia in ogni caso, per quanti in questi anni hanno mantenuto intatta la passione per la band di Robert Smith, magari grazie ai suoi torrenziali e sempre appaganti rituali live. E proprio dal vivo, durante la tournée mondiale Shows of a Lost World, ha preso vita questo nuovo lavoro, quattordicesimo in studio e primo dai tempi del deludente "4:13 Dream" (2008). Cinque brani su otto ("Alone", "A Fragile Thing", "And Nothing Is Forever", "I Can Never Say Goodbye" ed "Endsong") hanno infatti avuto una genesi live e sono stati successivamente rielaborati in sala di registrazione - quasi sempre uscendone migliorati, va riconosciuto.
Ma sebbene l’effetto-sorpresa fosse mitigato da quella precoce esposizione sul palco, quando i fan hanno potuto premere il fatidico tasto “play” su “Alone” – primo singolo svelato il 26 settembre assieme all’annuncio ufficiale dell’album – l’emozione è stata incontenibile. Forse per via di quella smisurata intro strumentale di 3 minuti e 20 – assurda e totalmente fuori moda al tempo di Spotify e delle playlist usa e getta – forse per quegli intrecci di chitarre riverberate e synth, forse per quel grido liberatorio di Smith (“This is the end of every song that we sing”) a far iniziare finalmente il brano, ma per una volta il senso di déjà-vu si è tramutato in un tuffo al cuore. Perché in definitiva “Alone” è un po’ un Frankenstein di tante canzoni passate dei Cure. Quante ne abbiamo sentite - e amate – di quelle intro infinite (da “The Kiss” a “One More Time”, da “Plainsong” ad “Apart”)? E quell’enunciato iniziale apocalittico quanto ci ricorda quel “Doesn’t matter if we all die” di “One Hundred Years” (da “Pornography”)? Eh sì, il tempo sembra essersi fermato, ascoltando “Alone”. Come se si potesse davvero tornare indietro. Al mondo perduto, per l’appunto. Forse però non è possibile, è solo un trucco da illusionista dell’eterno ragazzo immaginario Robert Smith, ancora con il suo eyeliner e il rossetto rosso sbavato alla sua veneranda età. E con i suoi soliti incubi da passeggiate notturne: nella fattispecie, la sensazione di sopraffazione e spaesamento che racconta di provare sempre a un certo punto della notte. Oscura, epica, orchestrale, “Alone” è solo un miraggio di nuova grande canzone dei Cure, però ha assolto pienamente al ruolo di apripista, perché ha saputo ridestare un’emozione collettiva con sincerità, a cuore aperto. Ed è forse proprio questo il tratto caratteristico che più si apprezza in “Songs Of A Lost World”.
Nelle note di presentazione del disco, Smith lo ha paragonato ad alcuni cruciali Lp tematici dei Cure, come “Disintegration”, “Pornography” o “Bloodflowers”, sottolineando il desiderio di replicarne l’idea di un’unica atmosfera, di un nucleo emotivo coeso. E la chiave che ha sbloccato l’intero progetto è stata proprio “Alone”: “Da lì, tutto ha preso forma – ha spiegato Smith - Ho cercato a lungo la frase giusta che introducesse il concetto di solitudine, e alla fine mi è tornata in mente la poesia 'Dregs' di Ernest Dowson. In quel momento, ho realizzato che la canzone e l'album erano finalmente concreti”.
Questo senso di coesione si percepisce attraverso i solchi di un lavoro che ha soprattutto in “Disintegration” il suo riferimento principale, tanto che si potrebbe definirlo un suo sequel o una raccolta di outtake, a seconda di come la si pensi sugli otto brani in scaletta. Il concept di fondo è una riflessione sullo spaesamento del vivere in un mondo di alienazione e solitudine, che finisce col tramutarsi in una sorta di rito catartico, un esorcismo emotivo sulla fine. A 65 anni, con un pesante fardello di lutti alle spalle (la perdita dei genitori e del fratello Richard), Smith ha mutato il suo sguardo: “Le mie canzoni hanno sempre avuto questo elemento, la paura della mortalità - ha spiegato - È sempre stato così, fin da quando ero giovane. Ma quando si invecchia, diventa più reale”.
“I Can Never Say Goodbye”, dedicata all’amato fratello Richard, prende l’abbrivio su un’altra lunga intro (2 minuti) col rumore di un temporale a preludere a delicati rintocchi di piano, raccontando l’ultima sera insieme con parole amare: “Something wicked this way comes/ To steal away my brother's life/ I could never say goodbye”. Un brano struggente, che per Smith è servito a elaborare il lutto e che nelle esecuzioni live spesso lo vede commosso al limite delle lacrime. Non meno dolente – e sicuramente più potente rispetto alla versione live - la ninnananna di “And Nothing Is Forever”, cullata da piano, archi e poi chitarre in crescendo, per un risarcimento ideale a una persona cara a cui Smith aveva promesso di stare vicino sul letto di morte senza poi riuscire a mantenere l’impegno.
La peculiarità musicale del disco sta soprattutto nel recupero della densità sonora dei Cure fine anni 80-inizio 90, di quelle trame granulose e dissonanti che alimentavano la grandiosità strumentale di brani tesi e solenni al contempo: “Drone:NoDrone” e “Warsong” si addentrano in quelle nebulose di feedback, riverberi e distorsioni, pur senza mai ritrovare l’intensità dei loro naturali predecessori. La prima racconta lo spiacevole incontro ravvicinato di Smith con un drone volante, avvistato sopra il suo giardino, condensando tutta la rabbia per quell’intrusione – metafora del voyeurismo ossessivo della società contemporanea - in un vortice di chitarre elettriche abrasive e basso distorto su cui si erge la voce irata di Smith. La seconda riannoda ancora il filo di “Disintegration” con l’organo a pompa che pare quasi replicare l’attacco di “Untitled” prima dell’irruzione di chitarre in feedback, batteria ed effetti sonori stranianti, a mimare i conflitti e le rappacificazioni cicliche che Smith dice aver avuto con una persona: una canzone nata dunque da vicende personali, ma che non può non evocare la sinistra contemporaneità dei nuovi fronti di guerra aperti nel mondo.
Mancano, invece, quegli episodi pop più leggeri e sbarazzini che, da “Why Can’t I Be You” a “Lullaby” e “Friday I’m In Love”, spezzavano per un attimo la densità della cappa sonora anche nei loro dischi più atmosferici. Vi si avvicina in qualche modo il secondo singolo, “A Fragile Thing”, più conciso e accattivante, con intro abbreviata e linee di chitarra tintinnanti ad assecondare il mood romantico, condensato nel canto sospeso di Smith; mentre “All I Ever Am” si fa valere per l’andatura incalzante dettata da batteria e synth, descrivendo la sfida quotidiana dell’accettazione di se stessi, tra fantasmi, sogni e speranze che arrivano a definire l’io presente.
L’epica liturgia conclusiva di “Endsong” funge da naturale contraltare all’incipit di “Alone”, con cui condivide lo spleen desolato (“It’s all gone, it’s all gone”) e la palma di vertice della raccolta. Scritta dal leader dei Cure nel 2019, pensando ai suoi 60 anni e al cinquantenario dello sbarco dell’uomo sulla Luna, è la chiusura perfetta del cerchio e del disco (che inizialmente si doveva intitolare “Live From The Moon”), con uno Smith sconsolato che si chiede dove sia andato a finire quel bambino che guardava la luna, riflettendo su come il mondo abbia ormai smarrito quello slancio progressista e ottimista verso il futuro. Dieci minuti e trenta dominati da un beat circolare e da strati di tastiere, su cui si stagliano gli intrecci alla sei corde, con il cantante che attende ben sei minuti prima di entrare in scena, affidando poi a una lunga coda di chitarra elettrica il congedo finale.
Scritto e arrangiato interamente da uno Smith che si mostra ancora in buona forma vocale, il disco è stato prodotto e mixato dal cantante e da Paul Corkett presso i Rockfield Studios, in Galles. Al suo fianco, oltre allo storico braccio destro Simon Gallup al basso, ci sono i musicisti che l’hanno accompagnato in questi ultimi anni di carriera tra cui Jason Cooper alla batteria, Roger O’Donnell alla tastiera e Reeves Gabrels (già sodale di David Bowie) alla chitarra. Tra i collaboratori del progetto va menzionato anche Andy Vella, l’autore della copertina in cui campeggia una scultura del 1975 di Janez Pirnat, intitolata Bagatelle, che ricorda il famoso Volto su Marte pubblicato dalla Nasa nel 1976.
È un disco onesto, sentito, coerente, “Songs Of A Lost World”. Probabilmente il migliore dai tempi di “Bloodflowers”, anche se non così ispirato come alcuni di noi sognavano e come alcune testate lo stanno raccontando. Ma forse era anche eccessivo pretenderlo, dopo tutti questi anni. Piace l’idea di vedere nuove generazioni accostarsi all’universo di Robert Smith e compagni, di veder rifiorire uno storico marchio wave che ha saputo costantemente rinnovarsi, dai fasti dark all’era pop. Anche se, in fondo, permane la nostalgia per il nostro mondo perduto: quello dei Cure della stagione d’oro, che chissà se e quando tornerà.
01/11/2024