"Hi Hello" ci ha fregati un po' tutti. Gran bella canzone, il singolo che ha anticipato "Call The Comet", terzo disco in proprio del leggendario chitarrista degli Smiths, suona proprio come un pezzo di questi ultimi: ci sono la polvere, l'andamento flessuoso, la malinconia e Marr che cantando ammicca addirittura a Morrissey. Basta però un ascolto di "Call The Comet" per mettersi chiaro in testa che si tratta di uno specchietto per le allodole. Marr continua qui imperterrito nella direzione intrapresa con il buon "The Messenger" del 2013 e col suo seguito - molto meno buono - dell'anno successivo, quella di un pop-rock chitarristico muscoloso, in perenne ricerca di chorus da fare mandare a memoria dal pubblico.
Il tris iniziale è bello adrenalinico e la voce vagamente metallica di Marr azzecca ritornelli magari non originalissimi, ma che vanno dritti al punto. Idem dicasi per le chitarre, che tra riff pompati e assoli fulminanti fanno il loro sporco lavoro. Di "Hi Hello" abbiamo detto già, è un episodio isolato - e probabilmente è giusto che sia così - che piazzato alla traccia numero quattro prepara le orecchie a una sezione di disco molto più soft delle botte d'energia che lo aprono. In "New Dominions" le chitarre vengono fatte riposare un po' e Marr parlotta su un tappeto di elettronica scalpitante; un esperimento di semplificazione dei Suicide forse buttato lì, magari per svecchiarsi, ad ogni modo non troppo riuscito.
"Day In Day Out" è invece un altro gran saggio di brit-rock come Dio comanda: ha una struttura un po' prevedibile, certo, ma la melodia è irresistibile e insieme a un assolazzo rovente mette in chiaro da dove vengono i vari Miles Kane e compagnia bella. Fa il suo dovere anche la lunga "Walk Into The Sea", che dopo un'intro strumentale con gli occhioni lucidi piazza una valanga di riff, di gran lunga più violenti del disco, per poi allungarsi nuovamente sull'emozionante finale.
Si tratta facilmente del momento migliore del disco - insieme ovviamente a "Hi Hello" - dopo il quale le cose non funzionano più così bene. Non che "Bug" e "Spiral Cities", per dirne due, siano brutti pezzi, ma meri esercizi di anonimato chitarristico sì. Robetta che ci si aspetta dai discepoli, non da un maestro come Marr. Non all'altezza di "The Messenger" ma molto meglio dell'opaco "Playland", "Call The Comet" è una buona terza prova che ci consegna un Johnny Marr con ancora qualche buon colpo in canna. Magari non sufficiente a coprire una durata ambiziosa come questi cinquantasette minuti e passa, ma una quarantina senza dubbi. Tienilo a mente per la prossima, zio Johnny.
19/06/2018