Ragazzi, ma che figata è stata questo tour?! Abbiamo messo a ferro e fuoco il mondo e ora ce ne torniamo subito in studio, ché voglio subito catturare tutta quell'energia live, ché ho perso sin troppo tempo a cullare il mio hobby senza accorgermi che avevo un tesoro per le mani. A volte, invece di seguire per filo e per segno il proverbio di turno, in questo caso quello che racconta del metallo caldo da battere subito e in maniera compulsiva, occorrerebbe prendersi una vacanza, per meditare sui traguardi raggiunti e sulle proprie reali aspirazioni, che non sempre fanno rima baciata con le capacità effettive. Johnny il Marr ha deciso di darci dentro senza sosta e ha così svelato il trucco: non è un granché come autore. "The Messenger" aveva stupito e, a questo punto verrebbe da aggiungere, illuso.
È stato quello un piacevole, anche elettrizzante, persino sfrontato viaggio antologico nel modernariato della canzone popolare britannica, spesso irresistibile per varietà e carica esecutiva, per gusto e senso della misura, benedetto da un gioco di astri favorevole che ha infiocchettato almeno una mezza dozzina di ritornelli spumeggianti e memorabili. "Playland" manca di tutto questo. Succede. Peccato. Prevedibile, statico, stitico, noioso. Nelle costruzione armonica, nei giri chitarristici, avvolto da un suono sin troppo chiassoso, talmente compatto da apparire impersonale.
La seconda fatica nelle vesti di solita di Johnny è come un quadro lasciato a metà sul più bello (ma chissà cosa avrà voluto dire l'artista), come un libro invalicabile dopo le prime cinquanta pagine di sofferenza (e certo che se non vai oltre la Gazzetta… ), come una relazione che vivacchia cibandosi di banalità (ma tanto non lo saprà mai nessuno). Qui invece il gioco viene scoperto sin dal principio, "grazie" alla tripletta caricata a salve di "Back In The Box", affannata e ottusa rincorsa a bordo di un auto rock priva di marmitta, "Easy Money", scioglilingua che non fa altro che ricalcare la monotematicità ritmico-armonica, tra britpop e post-punk, del brano che la precede, con Johnny che si fa persino beffe del suo celebrato eroismo alla sei corde, "Dynamo", che al solito incipit fracassone aggiunge un refrain sognante quasi più lagnoso di quelli partoriti dai fratelli Gallagher.
Tra le righe si avverte anche la mancanza di un'ugola caratterizzante, di quelle che riescano a farti saltare il fosso proprio all'ultimo istante possibile, che facciano scintillare la carrozzeria di un veicolo giunto alla sua decima mano. Johnny che appare tremendo nel pseudo-recitato rap, condito dai classici arpeggi, di "25 Hours"; Johnny che parte discretamente ma poi non sa dove andare in "The Trap"; Johnny che fa il punk in "Playland", ma è privo della carica necessaria; Johnny che sguinzaglia la chitarra in "Boys Get Straight", ma allora è meglio farlo da soli, a casa, di fronte allo specchio; sempre poco costruttivo, ma almeno non affligge il prossimo. "This Tension", che fosse troppa? Che sia stata scambiata per entusiasmo? Johnny il gregario, la vittoria di una tappa ci aveva illuso, ma qui il rischio è che finisca fuori tempo massimo.
29/10/2014