Ho sempre trovato affascinante la logica dei seguaci del diavolo nei film horror; la sofferenza, la disperazione e il vizio come estrema finalità del genere umano non sono affatto una disgrazia. Chelsea Wolfe nei suoi tre precedenti album era visibilmente affascinata dal dolore e dall’angoscia: le tribolazioni noise di “Apokalypsis” e l’ipnosi claustrofobica di “Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs” dettavano le coordinate dell’apologia del dolore, abbracciando la generazione dark da anni in attesa di nuovi messia sonori.
Artista di culto, spesso osteggiata dalla critica, Chelsea Wolfe rappresenta una corrente artistica che ha avuto il suo nadir nelle esplosione creativa della new wave anni 80. “Pain Is Beauty” tradisce già nel titolo la volontà di donare canoni non solo estetici ma anche fisici alla poetica introspettiva e mesmerica dell’artista americana: come novella Siouxsie, mette insieme post-rock e gothic senza perdere di vista le origini folk e le nuance psichedeliche necessarie a tenere insieme il tutto.
Più viscerale, ma sempre ricco di poesia e malinconia, “Pain Is Beauty” offre una scrittura più variegata, nonostante la Wolfe non sia ancora del tutto maturata come autrice, ma la tensione emotiva e la costruzione sonora è sempre ricca di articolata energia. È palese la volontà di uscire dal ghetto underground senza abbandonare i contenuti lirici e musicali che hanno sedotto un nugolo cospicuo di fan in tutto il mondo, come è evidente che l’artista è finalmente pronta ad affrontare nuove chimere.
La bella notizia è che Chelsea Wolfe ha reso densa e sanguigna la sua poesia maudit: il ghiaccio si è sciolto diventando sangue (“We Hit A Wall”), le tentazioni elettroniche hanno ora i colori di un noir fantasy che mette insieme This Mortal Coil e Vangelis (“Sick”), e la malinconia si è adagiata su armonie eteree e senza tempo (“They’ll Clap When You’re Gone”). Il crescendo emotivo per piano, voce e drum machine di “The Waves Have Come” è una delizia che rende lucido il senso del titolo dell’album, ma è il dream-folk di “Reins” il manifesto più intenso e trascinante dell’album, con voci e orchestrazioni che si sovrappongono in un gioco di specchi sonori degno dei Cocteau Twins.
Alcuni episodi come “Kings” e “Ancestors, The Ancients” pagano un tributo eccessivo ai Banshees e “Destruction Makes The World Burn Brighter” evoca i Sonic Youth senza il loro smalto: sono peccati veniali che ogni album di Chelsea Wolfe non sembra riuscire ad evitare. In converso il singolo “The Warden” stuzzica con il suo Moroder-style mentre “House Of Metal” scivola verso un romanticismo meno cupo, che svela nuovi possibili sviluppi per l’artista americana.
Con il suo quarto album “Pain Is Beauty”, insomma, Chelsea Wolfe è finalmente pronta a lasciarsi indietro il suo status di musicista cult, e questo avviene senza tradire tutte le premesse culturali e stilistiche del suo percorso artistico: un passo decisivo verso la maturità.
26/10/2013