L'anno scorso, “Apokalypsis” dissolveva ogni dubbio sull'identità drammatica e tormentata di Chelsea Wolfe, in una manciata di brani che nella loro oscura sostanza sventavano con semplicità i tanti raffronti agli sconquassi goth di molte sue colleghe.
Con esse però, sempre più dedite a mondarsi dagli eccessi claustrofobici in funzione di nervature più accessibili e popolari (prima tra tutte Nika Roza Danilova), l'autrice californiana non condivide nemmeno un briciolo dell'approccio e degli esiti, e soprattutto, non pare essere intenzionata a dare una svolta così serafica alle sue croci esistenziali.
In “Unknown Rooms”, terzo album in poco meno di due anni, il peregrinare nell'anima della musicista non si fa più accidentato e avventuroso, anzi lascia filtrare qualche gracile raggio di luce, quanto basta per rendere le forme più distinte e gli angoli un filo meno ruvidi del previsto. In virtù di ciò, le ombre e le sfumature percepibili diventano elementi imprescindibili nella realizzazione dei nove brani (perlopiù rapidi frammenti per una durata complessiva di venticinque minuti scarsi) e la foggia cucita per loro appare come l'unica possibile.
“A Collection Of Acoustic Songs”, ci rammenta la seconda parte del lungo titolo, e già con una premessa simile ci si indirizza con maggiore sicurezza (o cautela, a seconda dei casi) verso una dimensione d'ascolto precisa. Dismessa gran parte dei robusti richiami post-punk e gotici che innervavano le tetre favole dell'album scorso, ad emergere è una forma più scarna e folk di quella stessa musica, bordata di chitarra acustica (per l'appunto) e poco altro, su cui ordire l'elogio delle proprie radici.
Memori dei primissimi tentativi alla scrittura di canzoni, a nove anni nel casolare di papà nel North Carolina, le stanze ignote della Wolfe sanno di nebbia e caligine, si mostrano nel loro fascino arcano ma sanno farsi nere come pece, come nel brano-capolavoro “Appalachia”, appassionato ricordo delle terre e dei boschi dell'infanzia, sorretto dall'intrigante giro di chitarra e percussioni. Altrove la purezza dell'arpeggiare, dal temperamento nadleriano, consente all'elasticità d'espressione dell'artista di manifestare i suoi molteplici aspetti, donando all'asciuttezza dei brani mille possibili accezioni (il bacio oscuro di “Spinning Centers”, “Flatlands”).
Ed è nel fluttuare della voce di Chelsea, a tratti anima dannata (come nell'aereo, ma interlocutorio, intermezzo a nome “I Died With You”), a tratti musa ipnotica, che traluce il segreto sotteso all'operazione. Ben più che la penna, non sempre impareggiabile, sono le interpretazioni, di un carisma che sfugge alla smania da classificazione, a irretire nel loro tremulo dialogo con l'ascoltatore.
Anche quando la piega contemplativa sfuma nell'indolenza psichedelica di “Hyper Oz”, contigua alla sacralità di Tara Burke, oppure ritrae manieri infestati nell'assordante scricchiolare di pianoforte in “Sunstorm”, la straordinaria padronanza lirica consente alla Wolfe di nascondere un'ispirazione talvolta calante, e in conclusione di rapire, nella seducente stretta del suo abbraccio.
Provate a chiudere gli occhi: l'incantesimo scagliatovi addosso non tarderà a sortire il suo effetto.
06/11/2012