“Lavorare con una band comporta un processo di lavorazione completamente differente. I Wilco sono un sestetto e i suoi singoli membri sono variamente coinvolti nelle rifiniture (di ogni brano, ndr). In quanto collettivo, gravitiamo sempre intorno a qualcosa di ben formato e pienamente realizzato. Lavorando per conto mio, invece, mi auguro sempre di poter abbandonare qualcosa prima di aver la sensazione di aver compiuto tutte le scelte possibili. E se poi mi impegno troppo verso un particolare approccio, va a finire che, arrivato a quel punto, rimpiango tutte le opzioni che non erano state prese in considerazione. Ecco, in questo senso credo che ‘Sukierae’ sarebbe stato diverso se fosse stato inciso dai Wilco. Già mi vengono in mente possibili sovra-incisioni per ogni brano, cose che avrei potuto fare, e questa per me è la parte più divertente. Ed è lo stesso motivo per cui amo la musica di Daniel Johnston: tutto quel potenziale non realizzato”.
La chiave di lettura per entrare nella sua stanza dei giochi è Jeff Tweedy stesso a fornircela. E il termine “potenziale non realizzato” caratterizza fortemente questa nuova uscita discografica. Si tratta di un doppio album, venti brani estrapolati da una lunghissima trafila di ben 90 tra demo e provini assortiti. Chitarre, qualche tastiera, cori e poco altro. Un’autentica saga familiare, giacché oltre al buon Jeff (leader, fondatore e principale songwriter dei Wilco, per due decenni sperimentatori e allo stesso tempo tradizionalisti devoti a una nuova idea di rock americano) è coinvolto nel progetto anche suo figlio Spencer, batterista solido quanto legnoso e prevedibile. Poco male, comunque, se in sella resta un fuoriclasse come Tweedy, senza dubbio uno dei più ispirati, prolifici e talentuosi autori/compositori della sua generazione.
Il proverbiale asino casca purtroppo quando arriva il momento di ascoltare “Sukierae” e la qualità altalenante dei brani proposti lungo l’ora abbondante di durata complessiva ci fa un po’ storcere il naso. E qui torniamo a quel “potenzialmente non realizzato” con cui il Nostro si è tanto baloccato e le nostre orecchie un po’ meno. Già, perché se è vero che padre (e figlio) si impegnano a profusione nel dar fondo al proprio baule musicale (estraendo, a seconda dei casi, schegge affilate di glam-rock, ipnotiche litanie psichedeliche, ballate folk arpeggiate in punta di plettro, filastrocche pop in terzinato), è anche vero che in molti, troppi casi si fatica a separare il grano dal loglio e quindi le poche buone sortite dai tanti divertissement svogliati qui presenti.
Inutile girarci troppo intorno: un buon disco deve portare in dote innanzitutto canzoni le cui melodie e arrangiamenti, strofe, refrain ed eventuali bridge, funzionino e siano in grado di colpire un pubblico di riferimento già dai i primi ascolti. Grazie al cielo non esiste una singola giuria o regole ferree; i colori, la cornice, le sfumature, le singole voci e le attrezzature talvolta sono in grado di fare da sole la differenza. Talvolta no, e allora ecco che un brano ben congegnato in tutte le sue singole parti cattura l’attenzione e rimane nel tempo. Ora, chissà se i Tweedy avessero nelle orecchie il “White Album” beatlesiano più che Daniel Johnston, come pietra di paragone e riferimento durante le session. Un capolavoro rivoluzionario, quello, che mostrava orgogliosamente tatuate su vinile le parole “libertà”, “indipendenza”, “audacia” e “provocazione”, ma che come pochi (pochissimi) altri doppi o tripli nella storia del rock lasciava ai posteri anche una serie di canzoni leggendarie. E quando quest’aspetto cruciale latita, gli album poderosi per durata si sgonfiano. Ecco, probabilmente il dono della sintesi e una scelta più oculata della tracklist qui avrebbero senz’altro giovato. Troppi episodi girano a vuoto, la sensazione del già visto e sentito (prima, di più e meglio) rischia di prendere il sopravvento ribaltando le sorti del “potenzialmente non realizzato”.
Poche cose, ad avviso di chi scrive, incidono davvero: “Wait For Love”, che avrebbe ben figurato in un disco dei Wilco; “Low Key”, midtempo acustico con elettrica effettata; “Pigeons”, ipnotica e trasognata; la nenia in ¾ di “Desert Bell” e “Honey Combed”, arpeggi sussurrati da città fantasma e autostop, profumati di Raymond Carver ed Edward Hopper; l’elegia in stile Woody Guthrie di “Fake Fur Coat”. Ok, d’accordo: stavolta Jeff Tweedy ha voluto fregarsene di tutto e tutti, di regole e convenzioni, producendo un bozzetto di quotidianità casalinga lasciando gli ascoltatori a sbirciare dallo spioncino della sala prove in cantina. Gli episodi migliori di “Sukierae” confermano la sua classe, il suo talento. Ma c’era davvero bisogno di un’uscita come questa per avvalorarlo?
27/09/2014