Il ritorno alle origini: un passaggio doveroso nella carriera di molti musicisti. Ma dopo quattro decenni che fai musica ad alti livelli non puoi più tornare alle radici scrivendo e suonando come avresti fatto anni prima. Ancor più nel caso dei Wilco, impossibilitati ad affrontare il “come eravamo” senza tener conto di aver circumnavigato la materia alt-country, attraversandola, sezionandola e ricomponendola come mai nessuno prima, seguendo schemi inediti e caratterizzanti. Jeff Tweedy la possiede nel Dna, in passato ha saputo come maneggiarla e rimodellarla, non senza il contributo di compagni di viaggio spesso diversi, e sempre più bravi, integrandovi elementi non soltanto pop, rock o psych, ma persino kraut e noise, ponendo non di rado al centro del progetto il concetto di sperimentazione.
“Cruel Country” è quindi il miglior frutto possibile del percorso fin qui compiuto dalla band, il risultato di un’idea via via arricchita attraverso le esperienze di una vita e la consapevolezza dell’età adulta. Un disco solido, come i Wilco non ne producevano da anni, mi verrebbe da dire il migliore da “Sky Blue Sky”, ma lasciamo al tempo l’onere di certificare tale sensazione. Dentro vi troviamo una manciata di belle canzoni, alcune delle quali (in particolare “I Am My Mother” e “A Lifetime To Find”) contribuiscono a fissare in maniera determinante il mood generale, giustificando un titolo che gioca sul doppio senso generato dal termine “country”, interpretabile sia come stile musicale che come “nazione”, dualismo accompagnato da testi spesso amari su questioni esistenziali e politiche.
Se da una rapida osservazione dall’alto che il disco può apparire come sostanzialmente alt-country, zoomando verso i più piccoli particolari, ingrandendo i pixel del mix sonoro, è possibile scorgere una moltitudine di preziose divagazioni sul tema, che rendono il risultato finale stilisticamente omogeneo ma ricchissimo di dinamiche e interferenze, nel quale la lunghezza (parliamo di ben ventuno tracce) non diviene mai un punto debole.
Ad eccellere sono in particolare i due episodi dalla struttura meno convenzionale. “Bird Without A Tale/Base Of My Skull”, con la sua coinvolgente progressione strumentale, e “Many Worlds”, in pratica due canzoni in una: la prima parte fortemente malinconica, col piano a tenere le redini, la seconda più ritmata, impreziosita da un assolo che conferma il non comune estro di Nels Cline.
“Cruel Country”, a un ascolto attento e ripetuto, si rivela denso di contaminazioni e ricco di atmosfere. Non si tratta di un mero “back to the roots”: il sestetto spazia con naturalezza dal minimalismo spoglio di “Ambulance”, “The Universe” e “The Plains”, rette quasi esclusivamente su chitarra acustica e voce, all’ideazione di brani più “pieni” che si ricollegano alla grande tradizione Wilco di suonare un pop dal tratto beatlesiano (“Tonight’s The Day”, “Hearts Hard To Find”, “Tired Of Taking It Out On You”). Scorrono sontuose ballate sadcore (su tutte spicca “The Empty Condor”) ma anche eleganti frangenti spazzolati (“Please Be Wrong”) che ricordano quanto sublime e trasversale sia il drumming di Glenn Kotche, uno dei batteristi più talentuosi della sua generazione.
Il Covid ha lasciato in eredità il desiderio di tornare a suonare tutti assieme, dentro uno studio, cosa che i Wilco non facevano da un po’, e in questi solchi si percepisce quel senso di prossimità, l’urgenza di sorreggersi a vicenda, per creare un suono “semplice” ma completo, questa volta privo sia della propulsione elettrica dei loro momenti più rock oriented, sia del tratto sperimentale che permise al gruppo di spiccare il definitivo salto di qualità. “Cruel Country” possiede un sound confortevole ma mai banale, tradizionale ma uguale a nessun altro, dove i paragoni possibili e le influenze intercettabili sono soltanto verso altre forme di Wilco succedutesi negli anni, tutte diverse ma con un forte denominatore comune: l’illuminato songwriting di Jeff Tweedy.
Il leader di una delle più grandi band statunitensi degli ultimi decenni si sente finalmente pronto ad abbracciare quel termine “crudele” – country – che tanto ha abilmente evitato per gran parte della propria carriera, fra i motivi per i quali decise a un certo punto di mettere fine all’indispensabile esperienza Uncle Tupelo, per dirigersi verso qualcosa d’alt(ro). Nelle interviste ha sempre definito i Wilco – specie da “A Ghost Is Born” in poi - come una “rock band”, punto e basta. Oggi non ci starà certo ripensando, ma sente il dovere di esprimere quantomeno gratitudine verso il grande canzoniere folk americano, che adora, e di cui non può fare a meno di sentirsi parte, continuando a interpretarlo in maniera assolutamente personale e innovativa.
01/06/2022