Raccontare i Wilco del periodo “Summerteeth” significa documentare la trasformazione a cui la band di Chicago va incontro a soli tre anni da "Being There". In un momento storico - la seconda metà dei Novanta - in cui il rock in generale trae linfa vitale dall'imperante contaminazione elettronica, i Wilco proseguono il discorso intrapreso dagli Uncle Tupelo spingendo ancora più avanti il processo di svecchiamento di un genere che più di ogni altro è noto per essere impermeabile alla modernizzazione. Un piccolo passo per una band ma un nuovo grande passo per il “country alternativo”.
La ventata è sufficiente a far storcere ancora una volta il naso e la bocca ai puristi della tradizione, che stavolta devono sorbirsi anche l'ingresso in scena di qualche sintetizzatore, e a tutti quelli che mal digeriscono le nuove incursioni in territori indie-rock. Ascoltato con le orecchie di oggi, “Summerteeth” appare al contempo fresco e titubante, coraggioso nell'enunciare i nuovi postulati ma timido nell'alzare la voce per renderli importanti; serviranno i due successivi, monumentali, “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born” per portare a termine il compito.
Jeff Tweedy e Jay Bennett, le due teste pensanti (e litiganti) del progetto, si muovono qui in una direzione di “sporcatura sonora” che fino a quel momento era stata esplorata con profondità in ambito indie-folk soltanto dagli Eels di "Electro-Shock Blues" (uscito l'anno prima), ma il loro songwriting contempla in realtà una palette di colori ben più ampia, soprattutto in termini di leggerezza e apertura al mondo, laddove invece la scrittura di Mr. Everett è figlia della necessità di esorcizzare le vicende dolorose raccontando con una certa dose di autoironia il punto di vista di un eremita. È più che naturale che in “Summerteeth” – pubblicato nel marzo del 1999 - convivano quindi diverse anime, tutte desiderose di uscire allo scoperto, ognuna con le sue insicurezze, e questa versione deluxe (4 cd/ 5 Lp) è il modo migliore per scoprirle in retrospettiva.
Basterebbe prendere in esame soltanto le tre versioni della title track per comprendere la ricchezza di idee messe sul tavolo prima della scelta finale: c'è quella “Slow Rhodes” che ospita i piccoli falsetti di Tweedy su una struttura di spazzole jazz/soul e piano (appunto) Rhodes, o le due take di "Tried And True" (il working title), una decisamente Dylan (la demo) e una dal sapore Beatles periodo-"Penny Lane" (la alternate).
Se il primo disco è riservato alla scaletta originale, opportunamente rimasterizzata, il secondo ospita una ricca sequenza di versioni demo e alternative. Le prime sono provini fissati all’epoca su cassetta, registrati quasi esclusivamente con voce e chitarra acustica, che ci consegnano lo start-up del processo creativo della band: in pratica le soluzioni melodiche proposte da Tweedy. Le take alternative ci spiegano invece l’evoluzione in studio di queste canzoni, dove subentra l’apporto determinante (in particolare) di Bennett in fase di arrangiamento. Trovano spazio, e questo è motivo di grande interesse, sia versioni piuttosto distanti da quelle definitive (“All I Need” è l’embrione di “A Shot In The Arm”, “No Hurry” potrebbe aver generato idee poi sviluppate pochi mesi dopo in “I Am Trying To Break Your Heart”, “I’ll Sing It” uscirà dal bozzolo soltanto ai tempi di “Sukierae”), sia tracce riposte finora nel cassetto, come la rabbiosa “Viking Dan” e la più sperimentale “Yee Haw”, coda strumentale di una versione inaspettatamente punk di “We’re Just Friends”.
Gli ultimi dischi sono riservati ai concerti: nel box formato cd la performance tenuta al Boulder Theatre (Colorado) il primo novembre 1999 occupa ben due supporti; nell’edizione limitata in vinile è sostituita dalla più breve session svoltasi qualche mese prima, l’11 febbraio, presso uno store della Tower Records, trasmessa da un’emittente radiofonica di Chicago ma mai pubblicata finora.
Alle canzoni di “Summerteeth” vengono affiancati i primi piccoli classici del gruppo, quali “Monday” e “Misunderstood”, nonché alcune tracce del progetto condiviso con Billy Bragg, “Mermaid Avenue”. Nella dimensione live, i brani dei dischi precedenti acquisiscono energia, mentre quasi tutti quelli nuovi sembrano non riuscire a decollare del tutto, non di rado appesantiti da synth un po' invadenti. Senza nulla togliere alla line-up allora in campo, e al sempre più instabile talento di Jay Bennett, queste canzoni genereranno ben altra potenza e pathos grazie alla stellare formazione che verrà schierata da “A Ghost Is Born” in poi.
Ferme restando l'inconfutabile bellezza cristallina di “How To Fight Loneliness”, la delicatezza di “She’s A Jar”, la spassosità di “I’m Always In Love”, la spensieratezza di “Nothing’severgonnastandinmyway” e la presenza di almeno due brani annoverabili fra i grandi evergreen del gruppo (riproposti live ancora oggi, come “Via Chicago” e “A Shot In The Arm”), non tutto si dimostra sempre a fuoco. Ma la quantità, e la qualità, dei bonus qui inclusi consente di rivalutare l’impatto complessivo di un progetto che, a posteriori, guadagna valore e importanza nell'economia del percorso complessivo compiuto dai Wilco.
Più che un disco di transizione, “Summerteeth” incarna lo step perfetto per sigillarne la prima fase artistica, quella immediatamente post-Uncle Tupelo, la band che – assieme ai Grant Lee Buffalo – può rivendicare la paternità del genere alt-country, il traghettamento del suono delle radici verso contaminazioni sempre più spinte e trasversali. Da qui in poi prenderà il via una nuova avventura, che li condurrà ben oltre gli steccati stilistici degli esordi, puntando su una scrittura sempre più autorevole e introspettiva, perfetta per rappresentare prima la discesa agli inferi e poi la graduale risalita di Jeff Tweedy, uno dei pochi autori in grado di convincere un supergruppo a suonare come se fosse la propria backing band.
(19/11/2020)