Dal Paisley Underground al post-punk: Shiva Burlesque
La storia del rock è piena di nomi trascurati o semplicemente sottovalutati, di gruppi arrivati troppo presto o troppo tardi per riscuotere il successo che pure avrebbero meritato, di personaggi che seguono coerentemente le proprie passioni infischiandosene di mode e tendenze commerciali. Grant-Lee Phillips è sicuramente uno di questi: nel corso della sua ormai lunga carriera il musicista californiano ha fatto parte degli Shiva Burlesque, una delle band più interessanti e sottovalutate degli anni 80, ha sfiorato (ma mai davvero inseguito) il successo di massa con i Grant Lee Buffalo negli anni 90 e ha portato avanti un eccellente (e abbastanza ignorato da pubblico e critica) percorso solista dal 2000 in poi. Una lunga carriera con un unico filo conduttore: la coerenza e la voglia di fare musica al di là di mode e tendenze. Proviamo a ripercorrere parte di questa lunga storia.
Quando Grant-Lee Phillips approda a Los Angeles, intorno al 1983, è solo l'ennesimo ragazzo di provincia in cerca di fortuna nella grande metropoli, con in tasca il desiderio di studiare cinema e nel cuore il sogno di formare una rock band. In quel periodo la Città degli Angeli brucia nel fuoco, breve ma intenso, dei "giorni del vino e delle rose", la stagione musicale che passerà alla storia del rock come "Paisley Underground", felice, indimenticabile e un po' paradossale tentativo di fusione tra le istanze rinnovatrici del post-punk inglese e la tradizione profondamente americana della psichedelia e del country-rock. Sono anni di fermento, nei quali Los Angeles diventa la capitale, fisica e in qualche modo morale, di un filone musicale del quale il grande pubblico non si accorgerà mai, ma che produrrà una manciata di eccellenti nuove band, come i Dream Syndicate di Steve Wynn, i Rain Parade dei fratelli Roback, i Three O'Clock di Mike Quercio e le deliziose Bangles di Susanna Hoffs, gruppi con accezioni e caratteristiche diverse ma tutti accomunati dal recupero delle radici anni 60 del rock americano, dal "jingle-jangle" dei Byrds alla psichedelia di Love e Quicksilver Messenger Service, dalle indomite chitarre di Neil Young al suono martellante e ossessivo dei Velvet Underground.
In questo scenario musicale così vivace Grant-Lee Phillips muove i primi passi e ne è palesemente influenzato. Il suo socio della prima ora si chiama Jeffrey Clark e, come lui, proviene da Stockton, una cittadina (ovviamente per le dimensioni americane) di circa 250.000 anime nel nord della California. All'iniziale nucleo composto dal duo di Stockton si aggiungono progressivamente altri elementi, fino alla composizione definitiva che vedrà Jeffrey Clark alla voce, Grant-Lee Phillips alla chitarra, James Brenner al basso e Joey Peters alla batteria. La neonata band, che assume il nome affascinante ed evocativo di Shiva Burlesque, realizzerà due sorprendenti album, profondamente influenzati dal Paisley Underground, ma anche dal post-punk inglese, che rimarranno uno dei best kept secrets del rock americano di quegli anni.
Il primo disco degli Shiva Burlesque, omonimo, inciso per la piccola etichetta Nate Starkman e prodotto dalla band con Richard Andrews, arriva nel 1987, decisamente fuori tempo massimo, quando ormai sia il Paisley Underground che il post-punk inglese sono in qualche modo alla fine del loro percorso e questo, probabilmente, influisce sullo scarso risalto ottenuto dal gruppo di Clark e Phillips che, nonostante qualche apprezzamento da parte della critica, viene immediatamente catalogato commercialmente come un oggetto superato e fuori moda. Eppure l'album è davvero notevole, a cominciare dalla onirica copertina che riproduce un bizzarro dipinto di Deborah Lawrence, un'artista specializzata in surreali collage, per continuare con i contenuti più segnatamente musicali, ovvero una manciata di magnifici brani (scritti da Clark e Phillips) che sembrano fondere l'affascinante psichedelia di chiara matrice Paisley con le atmosfere cupe, introverse e sognanti di band post-punk inglesi come Echo & The Bunnymen o Chameleons.
Il disco si apre con l'incedere solenne dell'eccellente "Indian Summer", ideale colonna sonora di un crepuscolare film western, con la voce di Clark che sembra citare quella di Jim Morrison (o forse Ian McCulloch?). Ancora meglio riesce a fare la dolente "Two Suns", che mescola atmosfere post-punk inglesi, country-rock e psichedelia quasi orientaleggiante. Addirittura qualche eco dei Pink Floyd si coglie nel finale della movimentata e chitarristica terza traccia, intitolata "The Lonesome Death Of Shadow Morton", mentre "The Black Ship" ritorna a fondere la psichedelia Paisley (la canzone non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Dream Syndicate) con i suoni torturati e intensi del post-punk inglese.
Jeffrey Clark non ha una voce indimenticabile o particolarmente originale ma canta letteralmente con il cuore in mano e in "Morning" riesce di nuovo a evocare il fantasma di Jim Morrison. Di buon livello e decisamente godibili, ma forse in assoluto meno interessanti, sono le successive quattro tracce, a sprazzi arricchite (o forse un po' appesantite) dalla tromba di Leslie Medford.
In definitiva, l'esordio degli Shiva Burlesque è un gran bel disco che convince e a tratti avvince per il tono austero, sofferto e intenso delle sue composizioni che, tuttavia, denunciano ancora un pizzico d'immaturità e l'incapacità di mantenere un uniforme livello qualitativo per l'intera durata dell'album.
Nei tre anni che separano l'esordio dal suo seguito, gli Shiva Burlesque suonano parecchio dal vivo e apportano delle significative correzioni alla composizione della band, che si arricchisce del contributo del violoncellista Greg Adamson, mentre il bassista James Brenner viene sostituito da Paul Kimble. Il nuovo album, intitolato Mercury Blues e prodotto dalla band in collaborazione con Charlie Brocco, viene completato per l'etichetta Fundamental nell'estate del 1990. Il gruppo di Jeffrey Clark e Grant-Lee Phillips è decisamente cresciuto, sia da un punto di vista musicale e compositivo, sia nel lavoro di studio: Mercury Blues è un piccolo capolavoro, un prodotto maturo, consapevole e ottimamente realizzato, lontano dalle ingenuità e dal gusto acerbo che avevano caratterizzato (e in qualche modo limitato) il pur ottimo esordio.
Il disco (sulla cui copertina campeggia un'inquietante e bizzarra maschera di Medusa fotografata da Daniel Morrison) imprime una decisa sterzata verso le radici del rock americano, reinterpretate secondo il gusto Paisley e nel solco dei Dream Syndicate di Steve Wynn. Delle atmosfere post-punk dell'esordio resta ben poco, gli Shiva Burlesque ora guardano alla grande tradizione americana. Il "nuovo corso" s'intuisce già dalla title track che apre la raccolta, introdotta dalla chitarra slide di Grant-Lee Phillips: il nuovo verbo da seguire sono il country-rock e la psichedelia di Green On Red e Dream Syndicate, il nuovo orizzonte è la frontiera americana con le sue mille storie di perdenti girovaghi sotto un sole rovente e crudele. La voce di Jeffrey Clark è decisamente migliorata: il suo cantato è sempre intenso e sofferto ma più misurato e controllato.
La seconda traccia, intitolata "Nez Percé", è un'ottima ballata, culminante in un drammatico crescendo e profondamente intrisa di umori country-rock. La chitarra di Grant-Lee Phillips, ottimamente coadiuvata dalla sezione ritmica di Kimble e Peters, si fa affilata e psichedelica per l'eccellente "Sick Friend", con Jeffrey Clark che, a tratti, ricorda terribilmente Steve Wynn. La canzone, con il suo epico e delirante crescendo che si scioglie alla fine in una coda rilassata e sognante, è probabilmente il capolavoro dell'album.
Per la quarta traccia, intitolata "Cherry Orchard", Jeffrey Clark passa il microfono a Grant-Lee Phillips che si esibisce per la prima volta alla voce: il brano è un'oscura, introversa (e forse un po' tediosa) ballad che non convince particolarmente e che tradisce la fondamentale immaturità al canto del chitarrista. Volume decisamente più elevato e la tromba di Leslie Medford in evidenza per la crepitante e chitarristica "Chester The Chimp", cantata a due voci da Clark e Phillips, mentre la successiva "Who Is The Mona Lisa?" è un'intensa cavalcata psichedelica che non sfigurerebbe come colonna sonora di un dolente e moderno western. Atmosfere country-rock, psichedelia distorta e bella melodia sono mescolati in maniera ineccepibile nella settima traccia, intitolata "Do The Pony", ottimamente introdotta dal violoncello di Greg Adamson. "Sparrow's Song" è una ballata bizzarra (e non del tutto convincente), mentre "Peace" mescola, ancora una volta con ottimi esiti, psichedelia e country-rock.
Mercury Blues è un lavoro eccellente, che sfiora lo status di capolavoro ma che, nella sua fusione di country-rock e psichedelia, arriva purtroppo fuori tempo massimo, quando il Paisley Underground è ormai morto e sepolto e critica e pubblico sono concentrati sui primi vagiti del nascente fenomeno grunge. Gli Shiva Burlesque a questo punto si dissolvono: Jeffrey Clark avvierà una carriera solista che si rivelerà assai poco prolifica e decisamente avara di soddisfazioni ("Sheer Golden Hooks", del 1996, è a tutt'oggi il suo unico lavoro), mentre molto più interessante sarà il percorso di Grant-Lee Phillips, Paul Kimble e Joey Peters, che cominceranno a lavorare insieme su un nuovo progetto che, dopo aver corso il rischio di chiamarsi Machine Elves, assumerà il nome di Grant Lee Buffalo, segnalando chiaramente la nuova leadership del chitarrista.
Ricomincio da tre: i Grant Lee Buffalo
L'album d'esordio della nuova formazione ridotta a terzetto esce nel 1993 per la Slash Records, s'intitola Fuzzy, è prodotto dal bassista Paul Kimble e si rivela un capolavoro senza mezzi termini. Il ruolo guida di Grant-Lee Phillips è ulteriormente ribadito dalla copertina, con il chitarrista (peraltro autore di tutte le canzoni dell'album) ritratto in primissimo piano. Le differenze della nuova band rispetto agli Shiva Burlesque sono abbastanza evidenti. Alla voce troviamo Grant-Lee Phillips, sorprendentemente cresciuto come cantante rispetto alla balbettante prova offerta in Mercury Blues: per il nuovo disco, il trentenne chitarrista di Stockton sfodera infatti un timbro vocale estremamente pulito e gradevole che ricorda in maniera bizzarra Mike Scott dei Waterboys e che segna un deciso cambio di rotta rispetto al modo di cantare tormentato e viscerale di Jeffrey Clark. La produzione di Paul Kimble va in direzione di un suono "aperto" e arioso, sul quale Grant-Lee Phillips racconta abbia influito la registrazione presso i Brilliant Studios, in una ex-fonderia che, con i suoi spazi ampi, ha permeato il suono e il mood generale delle incisioni.
Anche da un punto di vista musicale i Grant Lee Buffalo sono cosa ben diversa rispetto agli Shiva Burlesque: gli omaggi al post-punk inglese sono decisamente cosa lontana, mentre la psichedelia di matrice Paisley viene progressivamente accantonata (sebbene affiori ancora a sprazzi) in favore di un suono maggiormente legato alla tradizione folk e debitore della lezione di Neil Young, di Bob Dylan, della Band ma anche di interpreti contemporanei come gli American Music Club di Mark Eitzel e i Rem di Michael Stipe (che i Grant Lee Buffalo, forse non a caso, supporteranno in tour nel 1995).
La musica dei Grant Lee Buffalo è una sorta di alt-country (o Americana, come si usa dire) elettroacustico dalle melodie ariose e convincenti, con la pulita voce di Grant-Lee Phillips in bella evidenza e la sua chitarra ben sostenuta dall'affiatata sezione ritmica di Kimble e Peters.
Fuzzy si apre con la movimentata ed elegantissima "The Shining Hour" e prosegue con l'epico crescendo della elettrica e chitarristica ballad intitolata "Jupiter & Teardrop", uno dei migliori brani della raccolta, che racconta una storia che sembra uscita dalla penna di Warren Zevon, una minimale e dolente storia d'amore dai bassifondi della metropoli ("Just a girl who can't say no/ And her sweetheart on parole/ Parents named her jupiter/ To bless her with a lucky soul/ He's a boy who never cried/ When they locked him up inside/ And she nicknamed him her teardrop/ For the tattoo by his eye"). Dopo il bizzarro e introverso intermezzo di "Fuzzy", le atmosfere diventano aperte e ariose per la splendida, melodica e a tratti impetuosa "Wish You Well", con un testo di aperta denuncia politica ("Newspaper cloaks to wrap the truth/ Propagand-acid dropped on the youth/ .../ They talk about building morale and hope/ They're just building bigotry a better rope"). La successiva "The Hook" è una magnifica ballata acustica dai sapori country-rock e dal testo disilluso e amaro ("And there's one thing I tell you friend/ All of our trials gonna come to an end/ And you and I we're gonna fall/ Like we never have stood on this little earth at all"), mentre la sesta traccia, intitolata "Soft Wolf Tread", è una solenne e magniloquente cavalcata chitarristica degna del miglior Neil Young.
La denuncia politica torna a fare capolino in "Stars N' Stripes" ("When the earth is ripe/ All the worms wake up/ In their stars and stripes/ And their swastikas"), mentre la successiva "Dixie Drug Store" è una bizzarra, divertente e ritmata storia ambientata tra i riti voodoo di New Orleans. Il volume torna ad alzarsi per la splendida ballad elettrica di "America Snoring" e per la successiva, magnifica e incalzante "Grace", la più psichedelica delle canzoni di Fuzzy, la più vicina alla lezione del Paisley Underground e, attraverso questo, ai numi tutelari del movimento, a cominciare dai Velvet Underground. "Grace" è l'ennesimo gioiello di un album semplicemente perfetto, un vero e proprio compendio di rock americano, suonato da un gruppo affiatato e in evidente stato di grazia.
Fuzzy è un capolavoro senza tempo, che riscuote un grande successo di critica e un appena discreto successo di mercato, ma che, come accaduto per gli Shiva Burlesque, risulta orgogliosamente anacronistico, uscendo in un periodo nel quale sono ben altri i suoni che suscitano l'interesse del grande pubblico. Allo stesso tempo s'intuisce subito che un tale livello qualitativo sarà difficile da mantenere a lungo.
Il secondo album dei Grant Lee Buffalo, intitolato Mighty Joe Moon, si fa attendere soltanto un anno, segno evidente dell'urgenza creativa e dello stato di grazia della band di Los Angeles. Il disco, pubblicato per la Slash Records, inciso nuovamente presso i Brilliant Studios di Los Angeles e ancora una volta prodotto da Paul Kimble, arriva al termine di mesi di frenetica attività dal vivo che permettono ai Grant Lee Buffalo di percorrere le "strade blu" della provincia americana, di assaporarne il fascino e le profonde contraddizioni, di rifletterne i paradossi e le inquietudini. Tutto questo bagaglio di esperienze viene riversato nei solchi di un album più cupo e introverso del precedente, più scarno e legato alle radici del folk statunitense e, non a caso, nelle canzoni fanno sovente capolino strumenti tradizionali come il mandolino, l'organo o l'armonica.
Il disco si apre con la bella, elettrica e sofferta "Lone Star Song", canzone che contiene riferimenti all'omicidio Kennedy, mescolati alla grande impressione suscitata nell'aprile 1993 dalla terribile strage di Waco, nella quale 74 adepti della setta dei Davidiani perdono la vita al termine di un lungo assedio da parte dell'Fbi ("Pray the holy war is ending/ like in the films of Hollywood"). Il secondo brano della raccolta è una dolce e incantevole ballata, quella "Mockingbirds" che diventerà il maggiore successo dei Grant Lee Buffalo (con tanto di videoclip in elegante bianco e nero girato dal celebre Anton Corbijn) ma che, a dispetto dell'atmosfera soffice, ovattata e arricchita dal violoncello del vecchio amico Greg Adamson, contiene profonde inquietudini: il brano, infatti, viene scritto da Grant-Lee Phillips nei giorni immediatamente successivi al devastante terremoto che il 17 gennaio 1994 colpisce Los Angeles, e scorrendo il testo della canzone è possibile rendersene facilmente conto ("Devastation at last finally we meet/ .../ One day this ground will break/ And open up for me I hope it will I hope it will").
La scaletta dell'album prosegue con la splendida "It's The Life", ballata acustica con qualche eco dei Byrds, che racconta l'amarissimo bilancio di una vita piena di menzogne ("If the life you have created/ Is founded on jealousy and hatred/ It's too late to ask questions/ For you're much too old to take any suggestions"). Dopo la tiratissima ed elettrica "Sing Along" e la bella title track, soave ballata che non avrebbe sfigurato nel canzoniere del Neil Young più acustico e rilassato, si arriva a uno dei momenti più alti dell'album, la magnifica "Demon Called Deception", breve ma intensissima cavalcata elettrica, a quanto pare ispirata alla figura di Johnny Cash, dai toni cupi e gotici e dai contenuti amari e disperati ("I'm in tight with a demon called deception/ It's alright he's a treating me quite well/ I'm in tight with a demon called deception/ He's right beside me when I fail"). "Lady Godiva And Me" è una sorta di bizzarro Giano Bifronte: in parte suadente ballata folk acustica, in parte selvaggia e rabbiosa.
Il resto del disco è un affascinante viaggio, quasi cinematografico, attraverso i mille volti dell'America, con Grant-Lee Phillips impegnato a tratteggiare evocativi e intensi bozzetti, passando dalla bella "Drag" al breve intermezzo pre-war folk di "The Last Days Of Tecumseh", dalle amare considerazioni della delicata e dolente "Happiness" ("Nevermind me 'cause I've been dead/ Out of my body been out of my head") alla splendida depressione di "Honey Don't Think" ("Something wrong in my stars/ Could you look at my chart/ Help me healing these scars/ Could you learn to read minds/ In the case of mine/ Do you read in the dark"), dal rock epico e magniloquente di "Side By Side" alla melodia aperta e piacevole della conclusiva "Rock Of Ages".
Mighty Joe Moon è un altro album eccellente, denso e sofferto, profondamente intriso di umori folk e country-rock e, attraverso il recupero delle radici, paradossale cartina di tornasole delle contraddizioni e delle inquietudini dell'America contemporanea. Il disco, trascinato da "Mockingbirds", riscuote un discreto successo e i Grant Lee Buffalo sembrano ormai a un passo dalla consacrazione commerciale, che tuttavia non arriverà mai, anzi: il gruppo inizierà l'inevitabile e fisiologica parabola discendente con i successivi due lavori.
Copperopolis, l'opera terza dei Grant Lee Buffalo, incisa presso i Cherokee Studios di Hollywood, arriva nel 1996, prodotta come al solito da Paul Kimble e di nuovo realizzata per la Slash Records. Il nuovo album, pur mantenendosi su livelli dignitosissimi, segna un evidente passo indietro rispetto alle precedenti due raccolte. Il tono del disco (il cui titolo fa riferimento a una cittadina mineraria fantasma nei pressi di Stockton, città natale di Phillips) è dimesso e malinconico, in qualche modo ripiegato su se stesso, quasi a preconizzare l'imminente dissoluzione della band, che sarebbe arrivata di lì a poco. Grant-Lee Phillips scrive quasi tutti i brani dell'album nelle pause di un lungo tour (anche in supporto di Rem e Cranberries): lo stesso cantante, in seguito, ammetterà che, forse, Copperopolis avrebbe avuto bisogno di una gestazione più lenta e ponderata ma che gli impegni dal vivo della band e le tante aspettative riposte sull'atteso nuovo lavoro, non lo avevano permesso.
L'album, per la verità, si apre benissimo, con la splendida "Homespun", probabilmente una delle più belle canzoni mai incise da Phillips e soci: un'epica e potente cavalcata rock nella quale ritorna il tema della denuncia politica e sociale e si colgono riferimenti al terribile attentato di Oklahoma City dell'aprile 1995, nel quale persero la vita 168 persone ("Suspicion is a powerful religion when it leads to the force on these shores/ In the jungles of the midwest dwarf militia train for war right on course/ Unlike the famous fable revolution won't yield a firework show/ Unlike the famous fable revolution won't end on july the fourth"). La scaletta prosegue con una serie di morbide e spesso malinconiche ballate, prevalentemente acustiche: dalla gradevole ma forse non particolarmente memorabile "The Bridge" alle increspature delicatamente psichedeliche della bella "Arousing Thunder", forse il secondo capolavoro della raccolta, dalle melodiche e ariose atmosfere folk di "Even The Oxen", arricchite dal violino di Bob Fergo, al rock sincero e diretto della orecchiabile "Crackdown".
La ricerca delle radici e dei miti fondanti della profonda provincia americana continua con "Betlehem Steel", dedicato alle celebri acciaierie della Pennsylvania (che curiosamente falliranno di lì a poco, alle soglie dei 150 anni di storia), uno di quei luoghi leggendari nei quali il duro lavoro di generazioni di eroi senza nome ha contribuito a costruire l'America ("Our mother's father worked here in world war two/ On the main floor operating the drill/ And in his open palms little splinters remind him of/ The booming days of bethlehem steel"). La canzone, lenta e abbastanza dimessa, non è esattamente un brano radio frendly: tuttavia il gruppo la vorrebbe come primo singolo tratto dall'album (ma la Slash, con maggiore concretezza, si orienterà su "Homespun").
Il resto del disco è fondamentalmente ordinaria amministrazione, con qualche guizzo di grande classe (il bel rock di "Two And Two", secondo singolo a essere estratto dall'album, oppure le raffinate melodie vocali di "Better For Us", o ancora la psichedelia di "Comes To Blow").
Nel complesso Copperopolis è un buon lavoro, molto raffinato nelle liriche e nella costruzione dei brani, con una manciata di bellissime canzoni purtroppo mescolate ad altre più anonime e insignificanti che appesantiscono l'insieme e rendono meno omogeneo il livello complessivo. A dispetto dell'apparenza melodica e orecchiabile, non si tratta di un album facile, ma di un lavoro che necessita di ascolti ripetuti e grande concentrazione per essere apprezzato fino in fondo.
Una parziale delusione, quindi, sia in termini di riscontri di critica che di vendite. Qualcosa nel gruppo si rompe: forse s'intuisce che Fuzzy e Mighty Joe Moon sono pietre di paragone inarrivabili, forse si percepisce che ancora una volta il gruppo è arrivato fuori tempo massimo a produrre il suo disco più classico, pulito e lineare, proprio nei giorni nei quali l'attenzione della critica è concentrata sui suoni scarni ed essenziali del lo-fi e del post-rock. Sia come sia, la conseguenza è che il bassista e produttore Paul Kimble decide di abbandonare la band.
Pur ridotti a un duo, Grant-Lee Phillips e Joey Peters decidono di continuare comunque l'avventura Grant Lee Buffalo, rimpiazzando il dimissionario Paul Kimble con Dan Rotchild e cominciando a lavorare su un nuovo album.
Jubilee, inciso per la solita Slash, registrato presso gli A&M Studios di Hollywood, esce nel settembre del 1998. La nuova produzione dell'esperto Paul Fox (già al lavoro con Xtc, Robyn Hitchcock e Phish) ripulisce la musica dei Grant Lee Buffalo dagli orpelli e dalle incertezze che avevano caratterizzato il precedente album, forgiando senza dubbio il disco più diretto e immediato del gruppo di Los Angeles. Un'opera solare, liberatoria ed estremamente piacevole che, quasi a consacrare la storia dei Grant Lee Buffalo, può contare sulle additional vocals di ospiti di lusso come Michael Stipe, Mark Oliver Everett degli Eels e Robyn Hitchcock.
L'album si apre con la tiratissima ed elettrica "APB", scritta durante un tour con gli Smashing Pumpkins, per continuare con il divertito e divertente non-sense di "Seconds" ("I need a second just to catch my breath/ I need a second wind to blow my wad/ I'll play the second fiddle second best oh/ Shang lang la") e il rock ruspante e orecchiabile di "Change Your Tune". L'arioso crescendo di "Testimony" sembra alludere alla difficoltà del songwriter di raccontare la propria vita e il proprio tempo ("How can I give a testimony of my time/ When it's so hard to pen a simple Valentine"), mentre il graffiante rock di "Truly Truly" racconta una storia d'amore non banale ("I was hanging with some friends/ In the parking lot one night near the summer's end/ I leaned back against the glass/ Of a car to watch all those speeding comets crash/ It made me think about us").
Non ci sono particolari cedimenti nel resto della scaletta, che inanella crepitanti e movimentati brani rock ("Fine how'd ya do", la splendida "My My My"), alternati ad occasionali ballate ("8 Mile Road", "The Shallow End") e a passaggi più acustici e pensosi (il folk di "Come To Mama, She Say" ed "Everybody Needs A Little Sanctuary").
Alla fine il bilancio è positivo: Jubilee è un disco movimentato e scoppiettante, ovviamente non paragonabile per densità e complessità ai primi due album della band, ma sicuramente un passo in avanti rispetto alle indecisioni e alle malinconie di Copperopolis.
I Grant Lee Buffalo hanno compiuto un lungo viaggio alle radici della musica statunitense e sono diventati nient'altro che un eccellente gruppo di rock americano, solido e compatto, con un leader carismatico e dal songwriting sfaccettato e personale. Jubilee potrebbe essere un nuovo inizio per Grant-Lee e Joey, ma si rivela il loro canto del cigno: il disco passa quasi totalmente inosservato presso pubblico e critica e la band si scioglie definitivamente.
E qui si chiude la parabola dei Grant Lee Buffalo, uno dei più interessanti gruppi americani degli anni 90: una storia costellata da pochi successi commerciali, ma estremamente densa di significati artistici. Arrivati gli anni Zero, Grant-Lee Phillips, nonostante la sostanziale indifferenza di pubblico, e parzialmente di critica, decide di andare avanti da solista e di continuare a raccontare le sue minimali storie dalla provincia americana: sempre a testa alta, sempre orgogliosamente fuori moda e fuori tempo massimo. Ma questa è già un'altra storia, sulla quale contiamo di tornare al più presto.
SHIVA BURLESQUE | ||
Shiva Burlesque (Nate Starkman, 1987) | 7 | |
Mercury Blues (Fundamental, 1990) | 7,5 | |
GRANT LEE BUFFALO | ||
Fuzzy (Slash, 1993) | 8 | |
Mighty Joe Moon (London, 1994) | 7,5 | |
Copperopolis (Slash, 1996) | 6,5 | |
Jubilee (Warner, 1998) | 7 | |
GRANT-LEE PHILLIPS | ||
Ladies' Love Oracle (Phillips, 2000) | ||
Mobilize (Zoe, 2001) | ||
Virginia Creeper (Cooking Vinyl, 2004) | ||
Nineteeneighties (Cooking Vinyl, 2006) | ||
Strangelet (Zoe, 2007) | ||
| Little Moon (Yep Roc, 2009) |
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