Giocano a nascondino,
Tweedy e soci, nel video del nuovo singolo "Everyone Hides": spariscono, fingono di cercarsi, si ritrovano. L'intenzione è al contempo scherzosa e simbolica, ma non ci potrebbe essere immagine migliore per riassumere questo undicesimo lavoro in studio, che restituisce una lettura sonora apparentemente lontana dalle intenzioni del titolo.
"Ode To Joy" è un disco che continua il lavoro di sottrazione (cominciato con
"Star Wars") in un campo che, per tutta la durata degli anni Zero, ha visto i
Wilco distinguersi per profondità compositiva, maestria tecnica e imprevedibilità negli arrangiamenti (elementi che hanno contribuito a rendere i loro live esperienze imperdibili), sorprendendo per il
songwriting ancora più asciutto e per l'interpretazione di Tweedy, che accarezza la resa rincorrendo la speranza, mentre il resto della truppa sembra quasi cullarsi nell'ordinaria amministrazione, quella necessaria a sottolineare il lavoro dell'autore.
Jeff riflette in particolare sui piccoli tesori nascosti tra le pieghe della vita quotidiana, residue ancore di salvezza nelle acque agitate del mondo moderno, e non è mistero che ciò rappresenti la sua naturale risposta (anche politica) alla deriva
trumpiana degli Stati Uniti. Quando tutto diventa assurdo e parossistico, è la piccola bellezza a farci sentire uniti.
C'è quella sepolta sotto la neve in "Bright Leaves" ("Somehow we're bright leaves/ You and I beneath the old snow/ Being set free by the winter rain"), quella che sgorga dall'attivismo in "One And A Half Stars" ("I'm left with only my desire to change/ So if I stay in bed all day/ I won't escape my domain") e quella dolceamara che affonda nel passato di una relazione, sottolineata dalle nervose linee elettriche di Nels Cline, in "We Were Lucky" ("All I saw from where I stood/ The sun was smiling down on us/ We were lucky, that's for sure/ I was yours"), ma è nel primo singolo "Love Is Everywhere (Beware)", in quell'invito a riconnettersi con la capacità di riconoscere e far accadere il bene, che si trova racchiuso il senso dell'intero disco ("So tangled in the wild/ Seeing myself as something more mean/ Out in the country/ Sadness wants me/ Further away from the scene").
Dopo la prova interlocutoria di
"Schmilco" (bollata dai detrattori come l'apice discendente di una parabola cominciata all'epoca di
"Wilco (The Album)"), erano in molti ad attendere al varco il sestetto di Chicago. Ma bisogna prendere atto che, in tempi recenti, i Wilco non hanno mai cercato di essere quelli che siamo abituati a conoscere, e non soltanto per l'assenza definitiva di cavalcate malinconico-elettriche alla "Impossible Germany", bordoni
kraut-motorik alla "Spiders (kidsmoke)", o
folksong stellari alla "Via Chicago" e "Ashes Of American Flags"; in "Ode To Joy" la band riesce finalmente a declinare il suo presente, escludendo i colpi ad effetto e il lessico che l'ha accompagnata per lungo tempo, avvolgendo l'ascoltatore in una manciata di ballate dal sapore pacato e dolente, tuttavia indicatrici della volontà di rialzare la testa con piccoli atti quotidiani.
Un disco da accogliere mettendo da parte le aspettative (il consiglio è soprattutto per i nostalgici), che cresce a dismisura con gli ascolti e conferma la maturità di questi musicisti anche quando si tratta di suonare sottotraccia, defilati rispetto a una narrazione che, proprio grazie a ciò, riesce a guadagnare l'attenzione necessaria. Sicuramente un episodio importante della loro discografia, probabilmente il più efficace a livello di intenti dai tempi di
"Sky Blue Sky".
07/10/2019