Siamo tutti d'accordo sul fatto che Jack White sia una delle cose più belle capitate alla musica rock negli ultimi 10/15 anni? Molto bene. Non mi dilungherò troppo nella celebrazione della storia di questo grandissimo musicista, una delle ultime vere icone rock nella accezione più genuina del termine, diventato rockstar globale senza il bisogno di scadere negli stereotipi che storicamente contraddistinguono gli stagionati e imbolsiti protagonisti del passato. Non male per uno che non ha ancora compiuto quarant'anni e che non accenna ad arrestare la sua trionfale marcia.
John Anthony Gillis, questo il suo vero nome, è il più giovane di dieci figli, nasce e cresce nella decadente Detroit e nel 2005 pianta le tende a Nashville, dove si conferma leader dei celeberrimi e ormai disciolti White Stripes, e diventa poi la mente dei prelibati progetti Raconteurs e Dead Weather.
Un'esistenza votata interamente alla musica, sfrecciando come una scheggia impazzita fra una moltitudine di generi diversi (dal rock-blues all' r'n'b, dal country al free-jazz fino al gospel e all'honky-tonk) riuscendo a mantenere una coerenza di fondo e una cifra stilistica unica, che ha influenzato e continuerà a influenzare intere generazioni di musicisti in tutto il mondo.
Va da sé che il nuovo album “Lazaretto” (degno sequel di quel capolavoro in solitaria che risponde al nome di “Blunderbuss”) rifletta in pieno la natura onnivora del suo vulcanico creatore, spaziando fra orizzonti sonori vastissimi e rimodellando la materia musicale grazie al calibrato utilizzo di una moltitudine di strumenti (dal piano al moog, dal mandolino ai violini per arrivare all'armonica e all'immancabile bottleneck) e a un parterre di collaborazioni di primissimo piano. In mezzo c'è sempre e comunque lui, Jack White e il suo talento debordante, che cannibalizza quello che trova intorno a sé senza mai stritolarlo, che trasforma in oro tutto ciò che sfiora.
Questo disco, più o meno come il suo predecessore, rappresenta un continuo fluire di emozioni contrastanti e comunque sempre molto forti, sospese fra un riff incazzato o una dolce linea d'arpeggio incorniciata da archi e voci femminili che ammorbidiscono la dura scorza r'n'b e blues. Come “Blunderbuss” e forse più di “Blunderbuss”, l'album riflette lo stato d'animo inquieto ed eclettico del suo protagonista, assecondando le sue svariate "lune"; basti pensare alla dicotomia fra le riflessive parentesi di “Want And Able” o “Entitlement” e la feroce marcia strumentale di “High Ball Stepper”, formidabile macchina da guerra intrisa di heavy-rock fino alla cistifellea. E poi ci sono i testi: taglienti, abrasivi, diretti, ispirati da poesie e racconti che lo stesso White scrisse da ragazzo, prima di conoscere il successo planetario.
A dire il vero ogni singola canzone di “Lazaretto” avrebbe diritto a una propria personalissima recensione, tanto ampio è lo spettro musicale che viene coperto. Racconti appena sussurrati o rabbiosamente sputati in faccia all'ascoltatore dalla solita inconfondibile voce agrodolce di White, che con gli anni proprio non accenna a sfiorire o fiaccarsi. Non mancano i rimandi ai colossi del passato, riletti comunque sempre in chiave moderna e personale.
Il duetto con la violinista Lillie Mae Rische in “Temporary Ground” ci porta istantaneamente alle rive del Mississippi nell'estate torrida di New Orleans, mentre strappano sorrisi l'amabile honky-tonk di “Just One Drink” e l'innocente melodia di “Alone In My Home”, quest'ultima ideale passaggio di consegne con la fiaba di “Hip (Eponymous) Poor Boy” presente nell'album precedente.
Ci sarebbe da spendere anche qualche parola sulla fiammante doppietta iniziale, con un White mattatore assoluto che canta delle sue tre donne in giro per gli States e che fa addirittura rivivere i Beastie Boys in salsa funk-rock nella sanguinosa e farneticante title track, accompagnata da un video invero piuttosto pomposo.
Al cospetto di un disco come “Lazaretto” molte cose passano necessariamente in secondo piano. Un po' come l'ultima trovata dello stesso musicista che, in occasione del Record Store Day, nel giro di quattro ore, registra un 45 giri e lo mette in vendita, aggiudicandosi la palma di “World fastest released record” e segnando l'ennesima tacca sulla colonna dei geni musicali contemporanei. E possono andare al diavolo anche le polemiche per le dichiarazioni infelici sui colleghi Black Keys, che comunque a Jack e alle sue creazioni sanno di dovere parecchio.
Ad oggi, la musica di Jack White parla per lui meglio di qualsiasi gossip o trovata pubblicitaria. I suoi pezzi rappresentano il miglior manifesto a stelle e strisce che il mercato musicale è attualmente in grado di offrire, specialmente per tutti quelli che (come il sottoscritto) restano ancora affascinati dagli scenari polverosi e meravigliosamente ruspanti della provincia statunitense.
Una sera, probabilmente dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo, dissi a un amico che Johnny Cash è stato il più grande eroe americano del secolo scorso. Ora, dall'alto della mia sobrietà e dopo aver certificato il superamento della sua personale "prova del nove", dico che Jack White è destinato, se non proprio a sostituirlo nell'immaginario collettivo, perlomeno a candidarsi a raccoglierne la pesante eredità.
07/06/2014