In “U2byU2”, la dettagliatissima autobiografia degli U2 uscita qualche anno fa, la band (Adam Clayton in testa) cita molto spesso la “teatralità” come caratteristica fondamentale della propria musica. Ma, come si sa, i Nostri hanno dimenticato da tempo il significato di questa parola, perché è proprio la mancanza di teatralità che caratterizza la loro carriera in studio degli anni Duemila (anche se sembrano piuttosto bravini nel tirarla fuori per inventarsi idee di marketing targate Apple discutibili quanto efficaci).
"Songs Of Innocence" prosegue in questo trend negativo, in questa quasi totale mancanza di capacità di trasformare la musica in suggestioni visive. Manca quella vitale multisensorialità che caratterizzò tutta la loro produzione fino al 1997. Teatralità, appunto.
Questa volta appurarlo dà ancora più fastidio che nei precedenti dischi del nuovo millennio, per vari motivi. Sì, perché nell’ancora buono “All That You Can't Leave Behind” (2000), nel ruffiano “How To Dismantle An Atomic Bomb” (2004) e nel sincero “No Line On The Horizon” (2009) qua e là pezzi e melodie forti non mancavano (e anzi l’ultimo sembrava aprire una strada promettente), ma in quanto album peccavano tutti di poca coesione. In questo, invece, la compattezza non manca affatto. La produzione è potente e a tratti addirittura coraggiosa. The Edge limita la sua famosa schitarrata futuristica a pochi episodi e si lascia andare addirittura a sporcizie alla Jack White/Black Keys, che rimangono però marginali nel timore di andare troppo oltre. Il basso di Adam e la batteria di Larry sono talmente compressi da sovrapporsi in un tutt’uno che può infastidire ma che è qualcosa a cui gli U2 non ci avevano mai abituati. Bono è sicuramente il più coinvolto nel lavoro (come sempre più spesso accade), ma è ormai incastrato nel timbro alto e acuto che lo contraddistingue negli ultimi tempi e preferisce affidarsi a questo pilota automatico anziché cercare nuove soluzioni che una voce espressiva come la sua potrebbe offrirgli con le crepe dell’età.
Ma le canzoni? Le canzoni per la stragrande maggioranza non ci sono. Ci sono dei riff, dei cori, qualche buona strofa o parte di pianoforte, qualche circoscritta idea di basso, e in generale arrangiamenti fenomenali, che un maestro come Danger Mouse sa tirare fuori. Ma le canzoni e le melodie, anche cercandole bene, latitano inesorabilmente.
“The Miracle (Of Joey Ramone)”, “California (There Is No End To Love)”, “Song For Someone, Iris (Hold Me Close)”, “Volcano” sono una sconcertante unica grande canzone, in cui gli ultimi Coldplay incontrano gli ultimi Killers che incontrano gli ultimi Editors e tutti insieme decidono di fare un disco di B-side.
Non bastano le citazioni dei Beach Boys e la blanda ispirazione à-la Arcade Fire su “California” (spazzata via da un coro che perfino Chris Martin avrebbe giudicato troppo fastidioso), non basta il resistente giro di basso di “Iris”, subito mangiato da un’epopea di suoni vorticosi che la rendono forse una delle più brutte canzoni mai scritte dal gruppo, non basta la faccia tosta del tributo ai Ramones nell’iniziale “The Miracle”. Non bastano molte buone idee adagiate qua e là, come piccole pennellate di colore su una tela grigia.
A peggiorare il tutto sono i grandi temi tirati in ballo in titoli e testi. L’infanzia, la morte della madre di Bono, ricordi e suggestioni dublinesi che ogni fan degli U2 conosce bene e tutti temi che nella carriera del gruppo hanno avuto un trattamento ben diverso rispetto a questa colonna sonora da supermercato.
Va meglio quando la band osa un po’ di più, come nella vagamente sperimentale “Raised By Wolves”, nell’aggressiva “Cedarwood Road”, con un The Edge alle prese con una chitarra quasi surf, o in “This Is Where You Can Reach Me Now”, divertente tributo al sound dei Clash e dedicata a Joe Strummer, che non avrebbe sfigurato su “War”. Ma anche in questi episodi il gruppo si sta cercando senza riuscire a trovarsi, come un cane che insegue strenuamente la propria coda.
In mezzo a tanto cattivo gusto l’unico episodio degno di nota messo nella prima parte del disco è “Every Breaking Waves” (non a caso il pezzo più vecchio: abbozzata nelle sessioni di “No Line On The Horizon”, fu suonata in una versione scarna nel 360 tour): ruffiana quanto basta, è una voluminosa autocitazione che però possiede abbastanza carattere per decollare. Anzi, come per i buoni momenti degli U2, è una canzone su cui qualsiasi gruppo da stadio dei tempi moderni costruirebbe una carriera. “Baby, every dog on the street. Knows that we're in love with defeat”. The unforgettable fire. Ma è un miraggio iniziale di un disco che non prende il volo.
Tutto qui? Gli U2 si infrangono contro se stessi così implacabilmente? A dire la verità no, perché qualcosa che funziona senza se e senza ma c’è. La conclusiva “The Troubles” (con ospite una Lykke Li che ricorda molto Sinéad O’Connor) profuma di irishness e di soul e abbonda di violini campionati in un incedere trip-hop struggente, che si apre meravigliosamente nel ritornello sottolineato dalla chitarra scarna e rilassata di The Edge. E soprattutto c’è “Sleep Like A Baby Tonight”. Ecco, questa canzone è davvero qualcosa che va oltre. Come se gli U2 avessero trovato in fondo ai cassetti un po’ di quella polvere magica dell’ispirazione in cui erano immersi a metà degli anni Novanta. Bono si toglie gli occhiali da sole e ritrova tutto quel carisma che aveva lasciato sul palco dello Zoo TV tour, sfoggia un autoironico falsetto, mentre una chitarra distortissima spaventosamente bella scorre piano come un rettile, tra un Larry seccamente morbido e un Adam sugli scudi. Un episodio ancora vagamente trip-hop, che proviene da qualche parte tra “Pop” e “Zooropa”, sinuoso e sintetico, fluido, sexy, notturno. Davvero una sorpresa, uno dei pezzi più incredibili degli ultimi 15 anni della band, forse il più sincero dai tempi di “The Groud Beneath Her Feet”.
Perché non fare un album tutto così? Perché non affidarsi di nuovo alla malinconia un po’ luciferina in cui erano dei maestri vent’anni fa e in cui evidentemente dimostrano di esserlo tutt’oggi? La risposta ce la da, sotto forma di domanda, “Desire”, una canzone da “Ruttle And Hum” del lontano 1988: “For love or money?”.
Ed ecco perché è così fastidioso ascoltare questo album. Perché la consapevolezza che gli U2, pur sapendo di poter scrivere grandi e suggestive canzoni, inseguano per scelta il pop da classifica (in un patetico tentativo di non sembrare dei cinquantacinquenni) permea tutta la loro produzione recente. Di “innocente” questo “Songs Of Innocence” non ha proprio nulla. E a proposito di questo, il titolo dell’album cita la raccolta di William Blake “Songs Of Innocence and Experience”. E anzi, un secondo album, intitolato appunto “Songs Of Experience”, è già stato annunciato dal gruppo per i prossimi mesi (o anni?). Se la loro idea di esperienza è a fuoco quanto quella di innocenza, il duetto con Avicii è dietro l’angolo.
11/09/2014