Nel 1977 il punk abolì gli assoli, negli anni 80 gran parte della new wave arrivò persino a declassare il ruolo delle chitarre, ponendole in seconda linea, dietro i synth; ma già sul finire del decennio il movimento shoegaze (a pari merito con l’ondata grunge) contribuì con forza a riportarle al centro della scena, pur con una funzionalità ben diversa rispetto a quella insita nell’idea classica di "rock". I novelli guitar hero amavano sperimentare e si dilettavano a produrre cascate di suoni fissando il pavimento, un po’ per l’indole introversa, un po’ perché concentratissimi su pedaliere ed effettistica: tale atteggiamento determinò il nome con il quale i protagonisti di questa scena, in maniera inizialmente dispregiativa, vennero etichettati: shoegazer.
La label londinese Cherry Red rende giustizia a molte carenze informative sull’argomento, pubblicando un sontuoso box celebrativo contenente cinque dischetti da 80 minuti cadauno: una ricchissima selezione di ciò che accadde fra il 1988 e il 1995, gli anni più prolifici. Il disco 1 ne costituisce la migliore introduzione possibile, catturando una serie di band che, pur non essendo letteralmente catalogabili come shoegaze, ne anticiparono cronologicamente l’esplosione, ponendosi come precursori e principali influenzatori: Jesus & Mary Chain per l’approccio garage, Cocteau Twins per i riferimenti pre dream-pop, Spaceman 3 per l’apparato psichedelico, Galaxie 500 per l’atteggiamento malinconico, Loop per via dell’ossessione per la ripetizione.
Il disco 2, senz’altro il più significativo, vede invece scorrere parecchi giganti del genere: Ride, Lush, Slowdive, Swervedriver, Catherine Wheel si imposero fra i protagonisti assoluti di questo comparto del rock alternativo (prevalentemente) inglese, producendo alcuni degli album più celebrati, popolari e significativi. Non sfugge l’assenza pesantissima, dovuta a insormontabili beghe fra label, dei My Bloody Valentine, coloro che più di tutti fissarono in maniera indelebile l’estetica del genere, in particolare per la tecnica esecutiva che prevedeva voce e batteria relegate sullo sfondo, sommerse da oceani di distorsioni.
I rimanenti tre dischi si concentrano soprattutto su esponenti mediamente meno conosciuti o ingiustamente sottovalutati, ma che con la propria esistenza certificarono la portata, l’importanza e la ragione d’essere di tutto il movimento. Se da una parte il box set (arricchito da un sontuoso booklet) funge da celebrazione e ripasso generale di un’era, dall’altro consente di puntare i riflettori su tanti nomi rimasti nell’ombra. Torniamo ad apprezzare la produzione di House Of Love, Telescopes, Pale Saints, Boo Radleys ed Ecstasy Of Saint Theresa, e analizziamo le principali caratteristiche di un genere che si muoveva sommando un’infinità di riferimenti stilistici. Si scorrono influenze sixties (Dylans, Honey Smugglers), trasfusioni di Smiths sotto acido (Adorable), tonnellate di melodia sopraffina (Velocity Girl, Majesty Crush, Secret Shine) preziosissime dissonanze (Drop Nineteens), diluvi di feedback (Flying Saucer Attack), spirali dreamy, reminescenze velvettiane (Sonic Boom), wall of sound impenetrabili (Nightblooms, Whipping Boy) e ovviamente stuoli di cloni di Kevin Shields (Moonshake, Astrobrite).
Spazio anche a qualche scarto laterale, visto che i compilatori hanno incluso nella selezione alcune fondamentali formazioni coeve ma non propriamente riconducibili all’estetica del genere (Cranes, Spiritualized, Flaming Lips, Mercury Rev), la quale presenza è ritenuta utile per completare l’osservazione sul periodo analizzato. Ci si ferma al 1995, poi fu il britpop a guadagnarsi le attenzioni di critica e pubblico, puntando ancor di più sulla componente melodica a scapito degli intermezzi più o meno rumoristici, e concependo liriche più “politiche”. Ma gli shoegazer hanno sempre continuato a muoversi dietro le quinte, anzi negli ultimi anni abbiamo assistito a un deciso rinvigorimento della scena (denominata nu-gaze) grazie al lavoro di band (un nome su tutti: Nothing) capaci di riconfezionare le sensazioni dell’epoca in dischi pienamente ricontestualizzati nella contemporaneità.
“Still In A Dream”, pur aggiungendo pochissimo a quanto i fan già ben conoscono, è uno dei migliori bignamini possibili sull’argomento, con la sola pecca di aver puntato troppo sulla massima rappresentatività, allargando la partecipazione al maggior numero di gruppi possibili, lì dove le quattro-cinque band cardine avrebbero meritato almeno una seconda traccia. E’ comunque un documento pazzesco per gli amanti del genere, e al contempo contiene l’ambizione di poter convertire gli scettici e i detrattori, sempre pronti a insinuare che il termine shoegaze corrisponda soltanto a rumore bianco e capacità tecniche approssimative. Perché il mondo di oggi, purtroppo, pare desiderare sempre meno chitarre scordate e dissonanze torrenziali.
04/03/2016
Disc 1
Disc 2
Disc 3
Disc 4
Disc 5