Gustavo Cerati & Soda Stereo

Gustavo Cerati & Soda Stereo

Lo specchio art rock di Buenos Aires

Talento poliedrico, raffinato cantore, manipolatore di suoni capace di affrontare più epoche del rock, Gustavo Cerati è uno degli eroi nazionali argentini. A distanza di due anni dalla sua prematura morte, avvenuta il 4 settembre 2014, ne ripercorriamo la carriera, prima a capo dei leggendari Soda Stereo e poi come solista

di Federico Romagnoli, José Santelli

Secuencia inicial

È il 15 maggio del 2010, Gustavo Adrián Cerati è nel pieno del suo nuovo tour e ha da poco terminato un concerto a Caracas, quando viene colpito da un ictus. Trasportato in ospedale d’urgenza, non ha più modo di uscirne. Seguono quattro anni di coma, con mezza America Latina appesa alla flebile speranza di un risveglio miracoloso che non avverrà mai. Il sipario cala il 4 settembre del 2014, per arresto respiratorio. Cinquantacinque anni da poco compiuti.

In Argentina in particolare si percepisce una perdita immane, per quello che è a tutti gli effetti un simbolo della loro cultura e della loro identità nazionale. Nonostante tutti siano consapevoli che si trovasse in uno stato irreversibile, il dolore trasuda palpabile da ogni notiziario, programma radiofonico, special televisivo o articolo giornalistico.

Non facilita le cose il fatto che appena due anni prima un tumore abbia sconfitto Luis Alberto Spinetta, decano del rock argentino e mentore di Cerati. In un arco di tempo piuttosto breve la nazione si è trovata priva di due figure date per eterne, e che invece si sono dissolte ancora piuttosto giovani.


Nasce una band


Nell’inverno del 1982, la guerra per le isole Malvinas è ormai persa e l’Argentina si appresta a entrare in una nuova fase della propria storia. Gustavo ha ventitré anni, lavora senza convinzione in un’agenzia pubblicitaria e nel tempo libero porta avanti progetti musicali di scarso rilievo. È proprio durante un concerto che entra in contatto con il bassista Héctor “Zeta” Bosio, che conosceva di vista dai tempi dell’università. I due si trovano bene insieme e decidono di dare vita a una nuova formazione, convinti di poter scavalcare il recinto delle cover amatoriali in cui sono stati costretti fino a quel momento.

Charly Alberti lo conoscono in maniera del tutto casuale. Il giovane batterista è infatti infatuato della sorella di Gustavo, tutt’altro che propensa a ricambiare l’interesse. Da fratello diligente, Cerati risponde a una telefonata dello spasimante per cercare di dissuaderlo, e parlando scopre che si tratta del figlio del jazzista Tito Alberti e che a sua volta è un musicista. Decidono di incontrarsi e pochi giorni dopo il nucleo dei Soda Stereo è al completo. Per un breve periodo alla chitarra di Cerati si aggiunge quella del suo amico Richard Coleman, che molla dopo pochi mesi una volta convintosi che il proprio apporto sia superfluo per la riuscita dei brani. Rimane comunque in buoni rapporti con il trio, tornando in seguito a incrociarne la strada a più riprese.

Il nome della band cambia quasi subito da Los Estereotipos a Soda Stereo. Si tratta di un’intestazione provvisoria, ma dopo le prime date, interviste e locandine, non verrà più modificata.

Il nome d’impatto non è da sottovalutare quando si analizza l’iconografia del trio. “Soda”, com'è abbastanza evidente, rimanda a una cultura pop, frizzante e leggera, forse legata alla mitologia anni Cinquanta dei drive-in stile American Graffiti. In Argentina si indica con la stessa parola anche il sifone da seltz, che si usa non solo al bar, ma anche a tavola, in ogni casa. Nonostante le aspirazioni raffinate dei tre ragazzi, il nome finisce quindi per diventare richiamo alle abitudini quotidiane della classe media locale, e sembra puntare al medesimo bersaglio il termine “stereo”, tecnologia di punta in qualche modo simbolo della crescita economica.

Uno scenario complicato

Il post-Malvinas per l’Argentina è qualcosa di simile all’abbattimento del Muro di Berlino. Prima timidamente e via via con più coraggio e adesione popolare, cadono i divieti, le liste nere, le censure ufficiali e, in un senso psicologicamente più profondo, le autocensure. Artisti in esilio, a volte forzato e a volte autoimposto, tornano nel paese; si recuperano nomi, volti e valori che le nuove generazioni non conoscono. Comincia a far furore la nuova canzone latinoamericana orientata al folklore, ma in chiave più elaborata, e soprattutto senza frontiere di genere né di origine, in un clima di fratellanza con altre nazioni, che oltre alla lingua, condividono tanti aspetti culturali, politici e sociali. “Canción con todos”, cantata da Mercedes Sosa nello storico album “En Argentina”, registrato dal vivo a Baires nel febbraio del 1982, sembra riassumere bene lo spirito del momento. In quei giorni e mesi della transizione democratica il grande pubblico (e non solo gli addetti ai lavori o i militanti di sinistra) conosce e si innamora per esempio della nueva trova cubana di cantautori come Silvio Rodríguez e Pablo Milanés.

Mercedes Sosa, prima di ritornare per quelle date storiche al Teatro Coliseo, si è messa in contatto con gli esponenti del rock nacional, riconoscendone l’originalità delle forme e l’urgenza del linguaggio. E anche di fronte alla reticenza dei suoi compagni della canción social e della proyección folclórica, vuole collaborare con i musicisti rock e diffonderli, comprendendo che anch’essi rappresentano una forma nuova e dinamica della canzone popolare latinoamericana. L’ambita transizione, dalle tenebre della dittatura all’orizzonte luminoso della libertà, richiede di superare anche barriere interne di pregiudizio, e la musica popolare argentina, nelle sue diverse sfaccettature di genere, riesce nell’intento.

Occorre dire che il pubblico del rock argentino fino a quel momento è stato un fenomeno di classe media metropolitana e localizzato principalmente a Buenos Aires, La Plata e dintorni. E che era snobbato o visto con certa diffidenza tanto dalla sinistra militante, che lo considerava per lo più sciocco e passatista, quanto dal populismo conservatore che si scandalizzava per i capelli lunghi, per la “stridenza” elettrica e per l’aura straniera del ritmo.

Virus e Soda

La nueva ola argentina, almeno inizialmente, oltre a quelli già detti deve affrontare un ulteriore dogmatismo: quello dei roqueros con già una quindicina di gloriosi anni di vita alle spalle. Gli artisti che tentano in quegli anni un cambiamento di stile devono in genere sopportare l’indifferenza o il franco ripudio di grandi fasce del pubblico.

Il caso più eclatante è rappresentato dai Virus, una delle più importanti band nella storia del rock in spagnolo. Guidati dall’elegante, geniale figura di Federico Moura, resistono stoicamente ai ripetuti fiaschi commerciali, agli attacchi della critica, addirittura ai lanci d’arance (come avviene nel 1981 al festival Prima Rock di Ezeiza), per poi giungere qualche anno più tardi al grande successo. Esercitano fra le altre cose la prima, evidente influenza locale sulla musica dei Soda Stereo.

È probabile che la similitudine fra le due band sia dovuta agli ascolti comuni (il rock progressivo, la new wave anglofona, i cantautori locali) e al fatto che le due formazioni si frequentino, tanto da stringere un legame anche all’infuori dell’ambiente lavorativo. Fatto sta che quando i Soda Stereo, scoperti dal talent scout Horacio Martínez, si accingono a registrare un disco per la Cbs, i Virus ne hanno già pubblicati tre e Federico Moura rappresenta un faro per chi è interessato a sonorità che non siano quelle del complesso pop-rock jazzato dominante da quelle parti.

soda_stereoSoda Stereo (1984)

In breve Moura viene coinvolto nel progetto e finisce col produrre lo storico album di debutto, intitolato semplicemente Soda Stereo. È un dignitoso disco new wave, ma è più importante che riuscito, più di svolta che di sostanza.

Moura commette l’errore di sopravvalutare il trio, credendo che il palese, enorme potenziale corrisponda già a una compiuta maturità stilistica. La sua direzione è acritica, i Soda vengono assecondati senza fargli notare i difetti di impostazione dell’album. Va anche detto che, come sempre, soltanto chi era presente può capire davvero quanto quel suono, completamente privo di profondità, sia dovuto a errori di calcolo e quanto invece alle limitate possibilità dello studio messo a disposizione dalla Cbs, alquanto vetusto stando alle testimonianze. La monotonia di alcuni tratti e l’eccessiva riverenza verso i modelli (Virus, SpecialsPolice) non sono a ogni modo implicabili alla mancanza di budget.

Non è un caso che il miglior brano del disco, “Trátame suavemente”, sia un prestito dell’amico Daniel Melero, musicista dilettante che di lì a breve sarebbe diventato, grazie al suo notevole talento intuitivo, una delle eminenze grigie del rock nacional.

“Trátame suavemente” è il primo capolavoro dei Soda. Sia perché mette in mostra il talento vocale di Cerati, capace di unire l’energia del rock e il romanticismo dei crooner, mantenendo una pulizia timbrica cristallina (quasi impossibile sentirlo incresparsi o arrochirsi); sia per l’arrangiamento, che si discosta dai toni sovraeccitati del resto della scaletta, mutuati dallo ska, per creare un archetipo del rock d’atmosfera, col basso in primo piano, gli incessanti armonici di chitarra, il synth decorativo.

Nel testo Melero ripesca la vena intimista da sempre tipica del rock argentino: “Ti comporti secondo il dettato in ogni momento, e questa incostanza non è qualcosa di eroico, è piuttosto qualcosa di malato. Non voglio sognare mille volte le stesse cose, o contemplarle con saggezza, voglio che mi tratti con delicatezza”.

I testi di Cerati hanno invece una carica sarcastica segno dei tempi, anche questa parente stretta dei Virus, che andava a rimpiazzare la vena ingenua e fiabesca della decade anteriore. L’anelito post-hippie di un rifugio bucolico, dove scappare dalla straziante realtà, cede il passo alla descrizione di paesaggi metropolitani crudi e realisti, al contempo alienanti e attraenti.

La tendenza traspare sia dai titoli, autentici manifesti moderni (“Te hacen falta vitaminas”, “Sobredosis de T.V.”, “Dietético”), sia dai versi, fra i quali spiccano quelli di “Un misil en mi placard”: “Qualcosa è successo, una strana sensazione, un presentimento. Ho dovuto smettere di fare l'amore all’istante. Sono andato alla ricerca di un riparo/cappotto*, faceva freddo. Accesi una sigaretta, avevo paura. E lì l’ho visto, un missile nel mio armadio, un modello da costruire, ma mai da disarmare” (*Doppio senso della parola “abrigo”).

Si tratta anche della prima citazione letteraria di Cerati, il “modello da costruire”, ossia “modelo para armar”, è infatti un titolo di Julio Cortázar, morto proprio quell’anno.

Classico esempio di band giusta al momento giusto, i Soda diventano subito famosi, vendendo nell’immediato 60mila copie in Argentina e circa 100mila fra Cile e Perù. Il buon riscontro fuori dai confini nazionali segnerà l’inizio del boom commerciale del rock argentino, che andrà da quel momento espandendosi a macchia d’olio per tutta l’America ispanofona, con i Soda sempre saldamente al comando.

Nada personal (1985)

La seconda prova in studio segna un cambiamento radicale. Compreso che potrebbe avere fra le mani una gallina dalle uova d’oro, la Cbs fornisce un budget adeguato alle ambizioni del trio, che ha così modo di restituire un prodotto curato e levigato.

La title track segna il salto di qualità di Cerati come autore. Pur scorrendo su un ritmo di batteria squadrato e incessante, è soggetta a improvvisi cambi di arrangiamento e atmosfera, sfoggiando la ricchezza che si confà a un simile talento: intro aleggiante con le tastiere plananti di Fabián Quintiero (in seguito uno dei turnisti più richiesti del paese), scatti funk, coretto duraniano, chitarre che vanno dall’arpeggio etereo all’assolo coriaceo, cenni d’elettronica al sapore d’estremo oriente.

La tendenza schizofrenica va di pari passo col testo, che parla dell’insoddisfazione sessuale dei giovani in un paese (e un continente) altamente cattolico, e all’epoca molto solenne e repressivo. C’è anche un riferimento all’uso del preservativo, sebbene tramite metonimia: è il corpo intero a diventare di lattice, insensibile, isolato.

“Comunicazione senza emozione, una voce fuori campo con espressione deformata. Sto cercando qualcosa che mi tolga queste vertigini. Cerco calore in quest’immagine video. Lei non può pensare, è annoiata, per il tanto simulare, si è addormentata. Onestamente, sarebbe così bello toccarti, ma è inutile, il tuo corpo è in lattice, e non sento niente. Niente, niente di personale”.

“Juego de seducción” è un altro gioiello chitarristico (la ritmica divisa fra jangle soavi e parti cadenzate, la solista che svolazza barocca), mentre “Ecos” è un epico rock urbano con chitarre reggae, basso slappato, batteria elettronica pestata e sintetizzatori sognanti.

Il titolo che cambia il destino dei Soda è però “Cuando pase el temblor”. La accompagna un videoclip, girato nelle rovine del Pucará de Tilcara, nella provincia di Jujuy. Sarà per il suggestivo paesaggio, sarà per la presenza surrealista di questi ragazzi vestiti alla Thompson Twins in un ambiente più adatto agli Inti Illimani, ma il clip ha un impatto locale e internazionale enorme (ancora oggi su Youtube macina più di sette milioni di visite all’anno).

È un pezzo indubbiamente contagioso, un ibrido new wave/reggae con una cadenza da carnavalito puneño (ritmo folkloristico della Puna, altipiano andino a più di tremila metri sul livello del mare) e versi sentimentali che evocano immagini nitide. “Sono seduto in un cratere deserto, sto ancora aspettando il tremore nel mio corpo. Nessuno mi ha visto andare via, lo so, nessuno mi aspetta. C'è una crepa nel mio cuore, un pianeta di delusione. So che ti troverò fra queste rovine, non dovremo più parlare e riparlare del tremore. Ti bacerò nel tempio, lo so, sarà un buon momento.”

Non tutto l’album è ai livelli dei brani citati, ci sono momenti in cui l’alambicco produttivo allunga il brodo, diluendo riff e melodie, e qualche brano funkeggiante di troppo finisce con il subire l’ombra dei soliti punti di riferimento, anglofoni e non, tuttavia rispetto al debutto la crescita è netta.

In Argentina vengono certificate 120mila copie in un anno; per il resto dell’America ispanofona non ci sono cifre precise, ma una stima di mezzo milione di copie appare ragionevole. In Perù, paese estremamente povero in cui il rock ha difficoltà ad attecchire, il loro successo viene considerato una svolta capace di cambiare il volto del mercato discografico. In Cile si verificano scene di isteria collettiva, con hotel presi d’assedio e palasport mandati esauriti in poche ore.

A tal punto che il massimo esponente del rock cileno, Jorge González dei Prisioneros, si ritrova a esternare il proprio risentimento verso i media locali, colpevoli di dare più spazio ai Soda Stereo, con le loro canzoni caustiche ma senza colore politico, piuttosto che alle sue, apertamente critiche verso il regime di Pinochet. Si vocifera che “Él es mi ídolo” dei Prisioneros sia dedicata ironicamente proprio a Cerati.

charly_alberti_e_zeta_bosioSignos (1986)

Considerato il miglior disco dei Soda anni Ottanta, e fra le altre cose primo Cd pubblicato in Argentina, vede gli arrangiamenti gonfiarsi a dismisura, ispirati dalla Big Music di Echo and the BunnymenSimple Minds e compagnia bella.

La title track è un bizzarro esempio di post-punk per chitarra acustica, con contorno di organo Hammond e synth, fugaci ottoni mixati in lontananza, e un pianoforte che sembra anticipare le melodie della trance anni Novanta.

Il tema è il mare, o meglio la rappresentazione surreale di un desiderio che nuota alla ricerca di un’isola di benessere, in mezzo all’oceano amniotico dell’inconscio, che sembra essere un paesaggio ricorrente nell’immaginario di Cerati. In fondo anch’egli è figlio di Buenos Aires, Mecca sudamericana della psicanalisi freudiana. “Mareggiata intensa, non cadrò nella trappola, chiamami subito. Indovinelli sott'acqua. Se cedi qualcosa, calmerò la tua isteria. Con i denti, strapperò via le tue calze. Segni, unendo fessure, figure indefinite, segni”.

Schema simile per la tambureggiante “En camino”, capolavoro di armonie e incastri (percussivi, chitarristici, tastieristici) che fanno da sfondo a una poesia in cui convergono epos da strada, astrattismo e incertezza per il futuro. “Non mi spaventano le deviazioni, i ponti. Voglio solo seguire, sempre più vicino. Posso trovare quel paradiso, avvicinandomi. Si prega di non leggere il manifesto, e quasi inavvertitamente, siamo sulla strada fino alla fine del secolo”.

“Profugos” si apre con un funk ipercinetico, il migliore creato dai Soda fino a quel momento, con sezione fiati prominente e synth che imita un piano elettrico, per poi deviare nuovamente verso la Big Music. “Non abbiamo un posto dove andare. Siamo come una zona devastata. Strade senza senso, religioni senza motivo, come potremo sopravvivere”. Un autentico manifesto dell’ansia globale che attraversò gli anni Ottanta.

“Persiana americana” è stata scritta da Cerati insieme a un ragazzo notato durante la partecipazione a un concorso radiofonico. Di Jorge Antonio Daffunchio non si hanno altre notizie, ma s’è probabilmente assicurato una lauta pensione, trattandosi di una delle canzoni più note del gruppo.

Il testo noir, ispirato da “Omicidio a luci rosse” di Brian De Palma, crea un contrasto allucinante con l’andamento uptempo e arioso, un po’ power pop, un po’ Motown. “I tuoi vestiti cadono lentamente. Sono una spia, uno spettatore. E il ventilatore lacerandoti… so che ti eccita pensare, fino a che punto arriverò”.

Non si hanno dati sulle vendite dell’album, l’unica cosa nota è che superano quelle del precedente. Dalla fortunata tournée che segue viene tratto il live Ruido blanco (1987).

Doble vida (1988)

Registrato a New York, con il bowiano Carlos Alomar in cabina di regia, è il disco che fa saltare il banco. La produzione è la più densa di cui i Soda si siano avvalsi, anche troppo, se è vero che Cerati avrebbe in seguito sentito il bisogno di registrare un’opera senza fronzoli come Canción animal. L’ingerenza di Alomar è in effetti pesante, diversi brani hanno un retrogusto soul, a un passo dal new jack swing, che pur non essendo sgradevole, tende un po’ a soffocare la personalità della band.

Quando la vera anima di Cerati emerge, la produzione d’alto bordo riesce comunque a valorizzarla, e se è vero accade solo in un paio di episodi, quel paio di episodi giustificherebbero una carriera.

“En la ciudad de la furia” è uno dei vertici del post-punk mondiale, uno di quei maestosi affreschi gotici con la batteria alata d’eco, un basso imperiale e il resto degli strumenti a lasciare cartilagini eteree, come in quel periodo in Europa stanno facendo i Sisters of Mercydi “Dominion”, i Kino di “Gruppa krovi”, o gli Ziyo di “Wyspy”.

Scritta al rientro in paese dopo mesi all’estero, descrive un momento di particolare conflittualità sociale, a cinque anni dal ritorno della democrazia. Ancora oggi, in molti aspetti, Buenos Aires è ancora la città della furia, e chi ci vive continua ad altalenare fra sentimenti contradditori di perplessità, rifiuto e amore viscerale. “Mi vedrai cadere, come una freccia selvaggia. Mi vedrai cadere, tra voli fugaci. Buenos Aires è così suscettibile. Questo destino di furia è ciò che nei loro volti persiste. Mi lascerai dormire all'alba fra le tue gambe. Saprai nascondermi bene e scomparire fra la nebbia. Un uomo alato preferisce la notte”.

La ballata notturna “Corazón delator” unisce tecnologia e sentori caraibici, mettendo in mostra la maestria chitarristica di Cerati con i suoi abbellimenti da blues delle tenebre. L’autore la indicherà anni dopo come uno dei suoi momenti preferiti alla guida dei Soda.

Il resto della scaletta, come detto, soffre di qualche contraddizione. Si segnalano giusto il testo di “Lo que sangra”, fra incubo e sogno erotico (“Io conosco quel luogo dove scoppiano le stelle, io conosco la scala a chiocciola verso la cupola. I raggi X non penetrano gli scuri vetri di una limousine. Io ti salverò, io ti salverò. I guardiani perdono l’onore durante la parata. C’è tanta frode intorno a noi, capirai. È amore ciò che sanguina dal cielo sulla cupola”), e la parte rap di “En el borde”, storica prima volta in un disco latinoamericano, benché fosse in inglese e piuttosto malriuscita (venne registrata dallo stesso Alomar, tutto tranne che un Mc di talento).

Lanciato dallo splendido videoclip in bianco e nero di “En la ciudad de la furia”, Doble vida supera il milione di copie in meno di cinque mesi, sparpagliandolo equamente dal Messico alla Patagonia.

Canción animal (1990)

Se il mondo fosse equamente aperto alla musica di ogni lingua, probabilmente la storia del rock sarebbe diversa e oggi questo album occuperebbe il posto che l’anno dopo sarebbe stato di “Nevermind”. Asciutto disco rock, con sonorità alternative e chitarre ruvide, ma con una produzione più pulita rispetto ai coevi statunitensi, Canción animal portò quei suoni nelle case di mezza America ispanofona quando Kurt Cobain era ancora un emerito sconosciuto.

Per far apparire la burla completa, il pezzo più famoso dell’album e della storia del rock in spagnolo, “De música ligera”, anticipa in maniera sorprendente “Smells Like Teen Spirit”. Simile il riff principale, simile l’espediente di lasciare il basso isolato all’ingresso della strofa una volta placata la furia chitarristica iniziale, e il suono liquido dell’assolo di chitarra è identico a quello che ricorre lungo tutto il disco dei Nirvana. Certo il canto è completamente diverso, perché Cerati non rinuncia alle sue linee vocali pulite e sognanti.

Fra i collaboratori ritorna Melero, che firma il testo di tre brani, e si fa notare il maghetto delle tastiere Tweety González, il cui ruolo, data la natura del disco, è per il momento limitato a qualche abbellimento. Si ritaglia a ogni modo uno spazio importante nel brano migliore del lotto, “Té para 3”, splendida ballata acustica traversata dai suoi inserti elettronici.

Invadono le radio anche “Entre caníbales”, dalla coralità quasi West Coast, e “Un millón de años luz”, con i suoi siparietti psichedelici, ma il testo migliore è quello della torrenziale, sincopata “(En) el séptimo día”, dove la tematica erotica si serve tanto di allegorie bibliche, quanto di tesi scientifiche sulla creazione del mondo e l’evoluzione della specie. “In principio ci fu un big bang e faceva caldo. Mescolare, mescolare*. Sui titoli ho visto cadere il tuo nome, ed ho reagito. In questo tempo anfibio temo perderti” (*Gioco di parole riferito al big bang, “revolver” può infatti indicare sia il verbo “mescolare”, sia la pistola).

L’album vende 350mila copie in un anno in Argentina e supera il milione nel resto delle Americhe. Il tentativo di attecchire in Spagna naufraga, ma il trio non ha tempo per dispiacersene.

I Soda hanno passato gli anni Ottanta mostrando solo parte del proprio potenziale. Se Signos è inattaccabile, gli altri album del periodo si reggono in misura variabile sui singoli, quelli sì tutti clamorosi. Con Canción animal hanno per la prima volta dimostrato di poter anticipare le tendenze anglofone sul formato più lungo e impegnativo, e di non essere costretti a inseguirle, come avevano dato impressione di fare in particolare ai tempi di Doble vida. Cerati è rinfrancato dal grande successo dell’operazione, tuttavia la sua mente è sempre in cerca di cibo fresco e sa che la formula spoglia di Canción animal non potrebbe soddisfarlo una seconda volta. Al termine della relativa, lunghissima tournée, decide così di buttarsi a capofitto nell’esplorazione dei nuovi armamentari elettronici.

gustavo_cerati_e_daniel_meleroColores santos (1992)

È il marzo del ’92 quando un disco anomalo raggiunge i negozi. Cerati lo ha registrato senza l’apporto dei Soda, e questo ne spiega lo spericolato approccio alla musica dance. Lo accompagna Melero, a cui il disco è cointestato. Nonostante sia a sua volta un valido cantante, lascia il microfono a Cerati in quasi tutti i brani e prende posto alle tastiere.

“Marea de Venus” richiama il suono di Madchester, ma grosso della scaletta è pervaso da un sentimento alieno. Ritmi house e tastiere new age, coltri ambient e cascate di campionamenti molesti, voci di fantasma lanciate a caso nel gorgo, tratti acid jazz e rugginose chitarre noise, melodie dream pop e germi trip hop, sorprese acustiche e consapevolezza del mondo elettronico circostante, ma anche anticipazione di tante cose a venire.

Il downtempo di “Cozumel” contiene già il Moby di “Play”, l’apocalisse dance di “La cuerda planetaria” prende gli Snap più ambiziosi e ne scaglia l’approccio sinfonico fra tempeste di chitarre e voci sintetizzate da incubo, e se qualcuno volesse indicare l’embrione dei Chemical Brothers nei tratti più scalmanati di “Quatro”, sarebbe difficile dargli torto.

È tuttavia musica che nel ’92 è difficile da vendere al grande pubblico, persino se ti chiami Gustavo Cerati. L’unico brano che aggancia le radio, comunque meno del solito, è “Vuelta por el universo”, angelica canzone d’amore con batteria stile Enigma, tastiere da sogno a occhi aperti, e un lungo, stordente assolo di chitarra satura.

Dynamo (1992)

La crescita costante, segnata dalla fiducia nei propri mezzi che Cerati ha assunto con l’ingresso nei Novanta, sfocia infine nel capolavoro dei Soda, pubblicato quello stesso ottobre.

Il nuovo obiettivo è lo shoegaze: profondamente colpito dalla corrente britannica, in particolare da Ride e Curve che come vedremo arriverà a citare apertamente, Cerati si mette in testa di dover portare quel suono al grande pubblico latinoamericano, incurante del fatto che persino in Gran Bretagna sia ad esclusivo appannaggio del mercato alternativo.

Lo shoegaze attraverso i suoi occhi è un in realtà crogiuolo di stili che include grandi dosi di elettronica e vanta un approccio sensuale, profondamente romantico e latino, impensabile per una band anglofona.

È anche il disco della band più concertato fino a quel momento. Zeta Bosio ne è co-produttore e la sua firma compare in sette brani su dodici. Oltre al bassista, si ritaglia il suo spazio il solito Melero, che suona tastiere e campionatori in otto pezzi, sostituito nei restanti da Tweety González.

Un sentore liquido e ovattato attraversa gran parte del disco, che mira dichiaratamente a “sembrare suonato sott’acqua”.

Memorabile sin dall’apertura, quando “Secuencia inicial” si lancia in una cavalcata di batteria e chitarra effettata, col suono completamente appiattito dalla mancanza del basso. Bosio entra dopo mezzo minuto, rigonfiando notevolmente l’arrangiamento, e lo schema è tutto lì, con sibili elettronici che si aggiungono a poco a poco come condimento. Persino il testo sembra andare in accumulo (“La sequenza iniziale corre, nessuno dei due lo ha avvertito. Mi guardo indietro e vedo la ragione, non sei mai stata una canzone. Ti ho sentita entrare, desidero darti un nuovo nome”), fino al grido corale del finale (“Bagnati le labbra e sogna”).

“Toma la ruta” e “En remolinos” puntano su chitarre più sgranate e rumorose, ma mentre una si muove su un battito da arrembaggio, l’altra procede lenta e soffocante, fra le macerie allucinate di ciò che un tempo doveva essere una canzone d’amore: “Lasciami vivere questo sogno. Che delirio. Un fiore, un fiore, un altro fiore, un maestro, una causa, un effetto. Chi conoscerà il valore dei tuoi desideri, chi lo saprà”.

Il pezzo più elaborato è “Sweet sahumerio”. Le tabla dell’indiano Sanjay Bhadoriya si dispiegano estasiate, gli altri gli fluttuano intorno. Fra i jangle disciolti della chitarra di Cerati, gli agglomerati di suoni spaziali di González, il sitar e il tambura che evocano i profumi d’incenso del titolo, le incomprensibili voci in lontananza, si perde il senso dell’orientamento.

È musica difficile da classificare, un raga anfibio, la colonna sonora di un lontanissimo futuro d’utopica armonia, ma anche uno dei più maturi inviti alla meditazione partoriti dalla musica rock. “Lei gioca sul divano, è a piedi nudi, qualcosa di soprannaturale la spiazza. Ha una forma spirale, chi lo sa, acque silenziose le coprono l’anima. Poesia circolare, pesce spada, posso vedere il suo profilo fluttuare nel mare”.

Stupisce trovare in un disco shoegaze una ballata jazzy come “Fué”, influenzata da Luis Alberto Spinetta e graziata dalla tromba di Flavio Etcheto, amico di Cerati e in seguito suo collaboratore in alcuni progetti collaterali.

Nell’avanguardistica “Nuestra fe” le chitarre sature devono fare i conti con il vulcanico basso di Bosio, schegge di sample e tastiere pullulanti, cori soul e lunghi excursus strumentali in cui compare persino una chitarra classica. “Claroscuro” ha ingredienti simili ma punta più sul ritornello che sulla reiterazione, mentre “Texturas” e “Primavera 0” sono due cannonate alt-rock pensate per presentare il disco al pubblico.

Se è vero che Dynamo schizza al numero 1 in tutte le nazioni dell’America ispanofona, è anche vero che ne scende piuttosto velocemente una volta constatato quanto l’ascolto sia impegnativo (in Argentina vende 120mila copie, circa un terzo del suo predecessore). Un album noto a tutti a cui è successo qualcosa di simile è “Kid A” dei Radiohead, di cui Dynamo può essere considerato una sorta di antenato concettuale. Pur con riscontri inferiori a quanto sperato, è comunque il disco shoegaze più venduto di tutti i tempi, l’unico che abbia mai toccato la vetta di una qualsivoglia classifica. Buffo che negli Usa e nel vecchio continente nessuno lo sappia.

Amor amarillo (1993)

Per motivi mai specificati, la band interrompe a metà il tour di Dynamo e decide di prendersi una pausa. A settembre del ’93 esce Zona de promesas, raccolta di remix con l’omonima ballata a fare da inedito di lancio. Lì per lì passa abbastanza in secondo piano, ma ottiene una seconda vita nel 2009, quando Mercedes Sosa la coverizza nel suo ultimo album in studio, “Cantora 2”, in compagnia dello stesso Cerati.

A maggio arriva il matrimonio con Cecilia Amenábar, modella e artista cilena. A novembre due opere fondamentali per l’artista: il primo album da solista (il secondo se si conta la prova con Melero) e il primo figlio, Benito.

Amenábar partecipa attivamente alle sessioni di Amor amarillo, avvenute proprio durante la gestazione, mentre Bosio dà una mano in cabina di regia. Registrato in un periodo particolarmente felice, è un disco sui generis che si alterna fra ispido rock alternativo e gentile folk psichedelico, senza mai scordare l’elettronica.

La title track suona come un update tecnologico del classico spinettiano “Bajan”, che non a caso compare poco dopo in scaletta in una versione tagliente come una lama (è la prima cover mai incisa da Cerati). In “A merced”, lungo dream pop con tocchi blues, Amenábar apporta armonie vocali e contrabbasso.

A rendere il disco degno di nota sono però la sofferta ballata “Lisa”, il gioiello downtempo “Pulsar”, costruito su un sample di “Sirius” dell’Alan Parsons Project, e il manifesto indie-pop “Te llevo para que me lleves”, ancora in duetto con Amenábar. La chitarra acustica ricorda i James, ma la parte vocale anticipa i Belle And Sebastian e gli Stereolab più pop. Proprio questo brano diventa un notevole successo in Argentina, nonostante sia piuttosto bizzarro e l’intro strumentale duri un minuto.

gustavo_ceratiSueño stereo (1995)

Nel luglio del ’94 Tobías, uno dei figli di Bosio, rimane vittima di un incidente. Il dramma fa in qualche modo da collante per i Soda, che decidono di tornare in studio. L’inverno successivo esce Sueño stereo.

Come già Amor amarillo, non è possibile rinchiuderlo in paletti codificati. Il calderone fa suoi rock alternativo, pop radiofonico, funk, archi, ipnosi elettroniche, tastiere liquide e tonnellate di campionamenti.

“Ella usó mi cabeza como un revólver” è un inno che sembra indicare ai Suede la strada dell’incompreso “Head Music”. “Zoom” prende la base di “New York Groove” degli Hello e ci costruisce sopra un brano completamente nuovo, neanche Cerati avesse potuto guardare agli anni di Youtube e deimash-up. La batteria di “Efecto Doppler” è invece quella di “All My Colours” dei Bunnymen e la ballata che ne fuoriesce è una delle più intense della carriera, con i piangenti inserti di violino e una performance vocale di puro velluto, come del resto richiesto dai versi: “Odi l’arco, suona come fossero lacrime ogni volta che lo tendi. E senti le sirene in mare, se ancora non lo capisci, è l'effetto Doppler quando ti allontani da me”. Se tutti cantassero l’amore così, la musica non conoscerebbe la melassa.

La seconda parte della scaletta è meritevole, ma più ostica, in particolare gli ultimi quattro brani, che sfumano uno dentro l’altro come a formare un mini-album a sé. Si tratta di due ballate oniriche (“Crema de estrellas” e “Planta”) e di due esperimenti elettronici che evocano tanto la musica lounge quanto i corrieri cosmici (“X-Playo” e “Moire”).

Le vendite soddisfano questa volta le attese e la band torna in poco tempo sopra al milione di copie.

Comfort y música para volar (1996)

La rinnovata popolarità spinge all’operazione Mtv Unplugged, serie da subito amata nei paesi latinoamericani. I Soda giocano però lo scherzetto, e il 12 marzo del ‘96 si presentano sul palco con chitarra elettrica e sintetizzatori, suonando brani dall’impianto magari più folk del solito, ma densi di digressioni psichedeliche e assoli distorti.

L’album, pubblicato quel settembre, contiene solo sette dei tredici brani suonati, a causa di un problema di edizioni musicali. A rimpinzarlo ci sono quattro scarti, in vero non entusiasmanti, dalle sessioni di Sueño stereo (uno di questi, “Planeador”, uscirà nettamente migliorato nella versione live dell’anno successivo, mutando da dream pop sonnacchioso a sinfonia shoegaze). La ristampa di undici anni dopo ricomporrà infine la scaletta inizialmente trasmessa da Mtv.

Si segnalano la resa dell’antica “Un misil en mi placard” (a cui è stato applicato il riff acustico di “Chrome Waves” dei Ride), una lunghissima “En la ciudad de la furia”, suonata al rallentatore, e “Té para 3”, che incorpora un frammento di “Cementerio Club” di Spinetta, ennesimo omaggio a un punto di riferimento fisso. I video di queste versioni entrano nell’immaginario di una generazione.

Bocanada (1999)

I Soda giungono al termine nel 1997, con un tour di sei date che parte da Città del Messico e termina allo stadio di Buenos Aires. Ne viene tratto il live in due volumi El último concierto. Il saluto finale al pubblico, “¡Gracias totales!”, è rimasto nel tempo come lo slogan della band.

Nell’inverno del ’99 arriva il nuovo album da solista, accompagnato da Flavio Etcheto al campionatore e da qualche altro fidato turnista. Bocanada è forse la cosa più ambiziosa a cui abbia messo mano fino a quel momento, un affresco d’art-pop elettronico con tinte noir che sfiora i settanta minuti di durata.

I brani assemblano una miriade di campionamenti (Spencer Davis Group, Steve Miller Band, Electric Light Orchestra, Focus, Jaivas e chi più ne ha più ne metta) e ne traggono un suono nuovo, denso di contrasti. Frammentato nei ritmi ma fluido dello scorrimento, cupo eppure da grandi spazi, caldo ma sottilmente teso, il tutto perfettamente riassunto dalla meravigliosa copertina, ispirata dalla foto con tenda azzurra che Lothar Wolleh scattò a René Magritte.

Il frenetico poliritmo di “Tabú”, denso di percussioni tropicali, vede Cerati lanciarsi in esplorazioni chitarristiche space-jazz e inerpicarsi con la voce su altezze da vertigine. “Vicino a un nuovo fine. Tabú, fuoco e dolore. La giungla si è aperta ai miei piedi, e per te ho avuto il valore, di seguire. Al coraggio di brillare la luce si anticipò. Scalando montagne andai e persi la tentazione. Per te, l’ho fatto per te. Per te ho avuto il valore”.

La title track è un trip hop che risuona fra le esalazioni di una stradina dietro a un locale notturno, con la coltre orchestrale e il rimbombo della batteria che colorano la fine di una relazione: “Quando non c'è più niente da dirci parla il fumo, nuota il fumo e rema a spirale. Quando non c'è più niente da dirci si aprono nell’aria vuoti che due non possono respirare, per poi svanire, allungando il dopo. Tragitto senza finale. Lontano piacere di uno sguardo di fronte a un altro, sfumandosi”.

“Paseo inmoral” è una sorta di boogie fantascientifico che spedisce Gary Glitter nello spazio, agli antipodi “Perdonar es divino”, downtempo con chitarra acustica e coretti celestiali, che ottunde i sensi quasi a voler mettere in pratica il ritornello (“Per me è facile dimenticare”). Quando un disco risulta unitario pur contenendo simili opposti, significa che la visione dell’artista è vincente.

In “Raíz” folk e jazz elettronico si incontrano su un altopiano andino in mezzo alla nebbia, ancora una volta alla ricerca di un’anima, di un’affinità, della propria identità: “Canto bassorilievi. Nave Terra, seguo la tua voce. Ballo schizzando dall'illusione, un sogno tiepido per entrambi. Che altro è un albero, se non che libertà? E se ti abbraccio, è per sentire che al nostro amore non potranno mai sradicarlo”.

Il vertice è forse “Alma”, synth pop senza battito il cui suono zigrinato, denso di piccole increspature, dolcissimo, inventa clamorosamente mezzo indie-pop elettronico del decennio a venire, dagli M83 ai Radio Dept. E dire che questo è un disco pensato per il mainstream.

Che viene puntualmente raggiunto grazie al singolo “Puente”, ballata evocativa che non disdegna di ripescare per un attimo, nel ritornello, i chitarroni di Canción animal.

Siempre es hoy (2002)

Il 2001 è occupato da +Bien, colonna sonora per l’omonimo film di Eduardo Capilla, e dal live con orchestra 11 episodios sinfónicosSiempre es hoy esce un anno dopo, con l’Argentina in piena crisi economica e l’America Latina in difficoltà generale, senza che questo non gli impedisca un buon successo.

È un disco difficile, alcuni tratti risultano faticosi all’ascolto, forse troppo puntati sull’elaborazione di beat intricati e poco sulla composizione. Fra i diciassette pezzi non mancano a ogni modo i colpi da maestro. “Cosas imposibles” e “Artefacto” mescolano rock alternativo e sperimentazione elettronica, dal glitch al big beat, mentre “Vivo” e “Sudestada” sono ballate di valore, vergate dal piano Rhodes di Charly García, uno dei maestri del rock sudamericano. Fra i singoli spicca “Karaoke”, che sembra una continuazione delle sonorità del Battisti panelliano. Certo una casualità, ma fa ancora una volta piacere vedere come artisti geograficamente e culturalmente tanto distanti possano convergere.

Seguiranno quattro insoliti anni di silenzio, spezzati soltanto dalla ballata “Tu locura”, inedito che accompagna l’antologia Canciones elegidas 93-04 (2004).

gustavo_cerati_01Ahí vamos (2006)

Accolto con entusiasmo dalla critica, l’agognato ritorno è anche il disco più venduto di Cerati come solista, l’unico senza Soda sopra il milione di copie.

L’elettronica è stata messa da parte e chitarre muscolari lo pervadono, ma non si pensi a un passo indietro per dare il contentino al pubblico. I brani sono elaborati e variegati quanto basta, ma soprattutto al passo coi tempi. Così, “Bomba de tiempo” farebbe felici i Franz Ferdinand, “Al fin sucede” emana ossidazioni blues, “La excepción” è cristallino garage rock.

Il pubblico viene colpito dalla ballata pianistica “Crimen” (con videoclip in stile anni Trenta) e dal malinconico midtempo “Adiós”, due fra le sue canzoni più famose, ma ancora meglio è il terzo singolo, “Lago en el cielo”, che ritorna all’amato shoegaze, con una leggerezza pop sconosciuta a molti dei seriosi interpreti del genere durante il revival post-2000.

Addirittura superba è “Caravana”, post-punk che alterna momenti frenetici e tratti d’atmosfera, con la tromba trattata di Etcheto a fare da contrappunto. Composta insieme al redivivo Richard Coleman, ha come ciliegina sulla torta uno dei testi più enigmatici: “La carovana di sguardi si porta via qualcosa della mia essenza. Sono circondato dalla scienza e nessuno mi vedrà domani”.

Finale

All’inizio del nuovo millennio la reunion dei Soda sembrava impossibile, soprattutto considerata la relazione di Cerati con una ex di Charly Alberti, ma il tempo spesso appiana gli attriti. Nel 2007 i tre tornano insieme per una tournée. Non è una mera operazione commerciale, il leader ha appena toccato l’apice del successo in proprio e non ne avrebbe alcun bisogno. Si tratta semplicemente di dare a un continente la possibilità di vivere un sogno, dato che la leggenda dei Soda nei dieci anni di pausa non si è minimamente affievolita e c’è quindi una fetta consistente di pubblico giovane che non li ha mai visti dal vivo.

Il successo è clamoroso, in appena tre mesi di concerti si vendono un milione e 300mila biglietti. Rimane uno dei più fortunati tour latinoamericani di sempre. Ne verrà tratto il live in due volumi Me verás volver - Gira 2007 (2008).

Fuerza natural (2009) è il suo ultimo lavoro in studio. Raccolta di raffinato indie-pop, forse un po’ scolastica, ha comunque dalla sua una produzione perfetta, la gradevolezza delle melodie, la mancanza di versi ruffiani verso il proprio pubblico. A venticinque anni dal suo debutto, l’artista si permette un disco interlocutorio che è comunque più dignitoso dei dischi “migliori” di tanti colleghi più giovani. Quattro brani sono stati scritti insieme a suo figlio Benito, che avrebbe pochi anni dopo intrapreso a sua volta la carriera di musicista, con il moniker Zero Kill.

Proprio durante una delle presentazioni dal vivo di questo album, Cerati cade vittima dell’ictus. L’epilogo è noto, vorremmo perciò chiudere parlando di alcuni aspetti riguardanti la posizione dell’artista nell’immaginario locale, che meritano un approfondimento allo scopo di comprenderne meglio la figura.

Soda contro Redondos, plagi, polemiche assortite

Nei duecento anni di storia dell’Argentina – non che sia l’unica nazione depositaria del fenomeno – in tantissimi modi e livelli si è registrata la volontà di giustificarne l’esistenza in modo binario e antagonistico. Quelli che volevano una repubblica unitaria contro quelli che la volevano federale (unitarios e federales); pensiero nazionale e popolare contro liberalismo europeizzante; militari leali all’ordine civile contro insurrezionalisti; Boca contro River Plate, e via dicendo. Una visione del mondo biecamente semplificata, quasi sempre voluta da un gruppo che per darsi una ragione di esistenza si è inventato un nemico. Neppure il rock nacional poteva restarne esente.

All’inizio degli anni Novanta alcuni fra i fan più accaniti dei popolarissimi Patricio Rey y sus Redonditos de Ricota (o più semplicemente i Redondos), decisero che i Soda non rappresentavano il vero rock argentino e che pertanto meritassero il pubblico ludibrio. Molti concerti dei Redondos vennero segnati da cori di insulti verso i Soda. I facinorosi erano ovviamente una minoranza, ma come accade in questi casi è una minoranza che crea particolare trambusto e getta una pessima nomea sull’intera categoria. Tutto ciò mentre il cantante dei Redondos, Indio Solari, prendeva le dovute distanze.

Quei fan si identificavano come ragazzi di strada, rocker proletari con la faccia dura, e si convinsero che chiunque amasse i Soda fosse uno snob benestante e effeminato, e che di fatto mettesse in pericolo la virilità del rock argentino.

Questi deprimenti talebani esistono ancora oggi e alcuni di loro, ormai adattati all’evoluzione della tecnologia, passano il proprio tempo a screditare Cerati su internet, assemblando per esempio video in cui lo accusano di aver plagiato questo o quel pezzo.

Ignorando ovviamente qualsiasi prova dimostri il contrario. Cerati ha inserito molte citazioni di brani altrui nei propri, questo è vero, ma non l’ha mai nascosto. Ogni sua intervista era condita da lunghi elenchi degli artisti che stava ascoltando maggiormente in quel dato momento. Chi avesse intenzione di plagiare, difficilmente metterebbe il plagiato sotto le luci dei riflettori, anzi se ne guarderebbe bene, nella speranza di farla franca.

La batteria in “Toma ruta” dei Soda è in effetti quella di “Already Yours” dei Curve, il cui debutto, “Doppelgänger”, è notoriamente fra i dischi preferiti di Cerati. Come ladro non esattamente un genio.

Altre volte si tratta di frammenti eliminando i quali la canzone non cambia di una virgola, o semplicemente di suoni isolati da cui il musicista era stato particolarmente colpito.

Quando pronuncia la parola “Signos” nell’omonimo brano dei Soda fa palesemente il verso a “Lovesong” dei Simple Minds, ma può una singola parola in un brano per il resto completamente diverso essere considerato plagio? Per certi fan dei Redondos a quanto pare sì. In altri casi arrivano ad accusare di plagio per la similitudine timbrica delle chitarre o del basso, anche qualora suonino note diverse.

O ancora, nel caso di sample regolarmente accreditati, fanno finta di niente e parlano di furto. Non è raro che, trattandosi di persone col mito del rocker duro e sudato, si esaltino per i Led Zeppelin, che sappiamo bene come si mossero nei confronti dei padri del blues. Loro però non erano ladri, perché non facevano musica “per fighetti”. La sostanza è tutta lì, Cerati doveva e deve pagarla per essere stato troppo raffinato, troppo poetico, troppo femminile, le citazioni di brani altrui non sono che un pretesto.

Come già detto, la versione unplugged di “Un misil en mi placard” si poggia su un riff dei Ride, ma cosa avrebbe dovuto fare Cerati? Modificare la firma di una canzone che aveva scritto dodici anni prima solo perché, in quella singola esecuzione, ha voluto omaggiare una band che amava? Gli editori sarebbero stati i primi a ridergli in faccia per una richiesta del genere.

Bisogna anche precisare che non sempre le case discografiche pretendono che il proprio brano venga accreditato, può bastare anche un tacito accordo dietro le quinte. Altre volte rintracciare gli editori originali è addirittura impossibile. Quel che è certo è che Cerati non ha mai dovuto affrontare la benché minima causa o accusa ufficiale per i frammenti che ha utilizzato, con sommo scorno di certi fanatici.

Ci sono poi episodi in cui è stato Cerati quello ripreso da altri. Il più celebre è quello degliU2. “Lemon” si apre infatti con un’intermittenza elettronica che è identica a quella di “Claroscuro” dei Soda.

Noto ammiratore di Cerati, a cui ha pure rivolto una dedica durante un concerto in Argentina, Bono Vox entrò in contatto con la musica dei Soda proprio all’uscita di Dynamo, mentre si trovava in Messico. A sua volta amante degli U2, Cerati ha sicuramente notato la citazione, ma si è ben guardato dal pretendere anche un solo centesimo per una cosa del genere.

Altro caso è l’arpeggio introduttivo di “Juego de seducción”, preso quasi di peso da Spinetta per la splendida “Diana”. Se poi ci si mette a contare pure gli episodi involontari, ne spuntano di particolarmente curiosi, persino fra artisti indie recenti: “Keep In The Dark” dei Temples inizia come “Paseo inmoral”, il basso di “One Eyed King” degli Egyptian Hip Hop è quello di “Trátame suavemente”, e chissà quanti altri se ne annidano qua e là. Alla fine, anche non volendolo, gira che ti rigira la musica quella è.

gustavo_cerati_02Appendice

Si è in realtà parlato solo in parte del lascito di Cerati. Paralleli alla sua carriera da solista, hanno infatti preso forma alcuni progetti di musica elettronica prevalentemente strumentale, segnati da moniker bizzarri (Plan V, Ocio, Roken) e da dischi in tirature limitate, in cui l’artista si sbizzarriva a creare agglomerati di suono, spesso lontani dalla forma canzone. Sono album noti solo ai suoi fanatici più assidui e vanno presi più come curiosità che come opere con chissà quale pretesa.

Da segnalare semmai alcune delle sue numerose collaborazioni. Fra il 1986 e il 1988 prese parte come produttore e strumentista ai due album della band darkwave Fricción, guidata da Richard Coleman. Nel 1988 partecipò all’album omonimo dei Caifanes, straordinaria band post-punk che cambiò il volto della musica messicana, suonando la chitarra nel brano “La bestia humana”. Nel 1992 suonò la chitarra in diverse parti di “Pasto”, album di debutto dei Babasónicos, all’epoca ancora acerbi, impastati in un suono che univa alla meno peggio funk, stoner e grunge, ma una decina d’anni più tardi capaci di pubblicare alcuni fra i dischi pop più elaborati e creativi della musica argentina. Nel 2007 cantò “El mareo”, singolo dei Bajofondo di Gustavo Santaolalla (uno dei più importanti musicisti argentini: polistrumentista, produttore, all’occorrenza valido cantante, e due volte vincitore del Premio Oscar per la miglior colonna sonora). Fra il 2005 e il 2010 ha anche prodotto sette canzoni di Shakira, sua grande fan, e sarebbero anche piacevoli, non fosse per la voce.

Una fra le collaborazioni più interessanti avverrà però a breve. Con il benestare di Bosio e Alberti, a partire dal marzo 2017 il Cirque du Soleil porterà in tour lo spettacolo “Sep7imo dia”, interamente basato sulla musica dei Soda. Soltanto col primo giorno di prevendita sono andati esauriti dieci dei primi diciotto spettacoli previsti, a riprova di come l’America Latina sia ancora lungi dall’averne abbastanza. E lo sarà presumibilmente ancora per molti anni.

Gustavo Cerati & Soda Stereo

Discografia

SODA STEREO
Soda Stereo(Cbs, 1984)
Nada personal(Cbs, 1985)
Signos(Cbs, 1986)
Ruido blanco(live, Cbs, 1987)
Double vida(Cbs, 1988)
Canción animal(Columbia, 1990)
Dynamo(Columbia, 1992)
Zona de promesas: Mixes 1984-1993(remix, Columbia, 1993)

Sueño Stereo(Sony, 1995)

Comfort y música para volar(unplugged, Bmg, 1996)
El último concierto "A"(live, Bmg, 1997)
El último concierto "B"(live, Bmg, 1997)
Me verás volver - Hits & +(antologia, Sony, 2007)
Me verás volver - Gira 2007 #1(live, Sony, 2008)

Me verás volver - Gira 2007 #2(live, Sony, 2008)

GUSTAVO CERATI
Colores santos(con Daniel Melero, Columbia, 1992)
Amor amarillo(Ariola, 1993)
Bocanada(Ariola, 1999)
+ bien(soundtrack, Bmg, 2001)
11 episodios sinfónicos(live, Bmg, 2001)
Siempre es hoy(Bmg, 2002)

Reversiones: Siempre es hoy(Bmg, 2003)

Canciones elegidas 93-04(antologia, Bmg, 2004)

Ahí vamos(Sony, 2006)

Fuerza natural(Sony, 2009)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Soda Stereo "En remolinos"
(2008, live da "Me verás volver - Gira 2007")
Gustavo Cerati "Lago en el cielo"
(2006, videoclip)
Soda Stereo "Té para 3"
(1997, live da "El último concierto")
Cerati & Melero "Vuelta por el universo"
(1992, videoclip)
Soda Stereo "En la ciudad de la furia"
(1988, videoclip / audio)

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