Non un sussulto, non un vero guizzo, non un lampo di quella creatività che, solo sei anni fa, sembrava debordante. Un disco divertente come guardare per due ore una parete bianca.
Cosa è successo dunque al piccolo discendente di Melville, un tempo capace di dar vita a "Play" e oggi ridotto a scrivere "Lift Me Up"? Lungi da me avere questa canzone in antipatia solo a causa di una pubblicità, anche se è triste notare che un tempo le canzoni veicolavano le pubblicità, mentre oggi è il contrario. Il fatto è che si tratta di un vero mostriciattolo che tenta di salire sul carro del revival new wave senza, però, alcuna delle capacità "paracule" che occorrono per mandare in porto un'operazione del genere. Le vendite arrivano, le royalty anche, ma la qualità si tiene ben alla larga.
Ma che l'ascolto sia un piccolo calvario lo si intuisce già dall'agghiacciante "Raining Again", con Moby al canto come nella maggior parte delle tracce. Nessuna espressività in una voce comunque limitatissima: a chi è venuta la splendida idea? Se quella di scriversele e cantarsele era stata una soluzione che già aveva fatto traballare gli ultimi Air, perché seguire un percorso così rischioso se non si è Jamie Lidell?
La scontatezza di "Beautiful" imbarazzerebbe pure i Goo Goo Dolls, ma il peggio deve ancora arrivare. Il vero e proprio nadir, infatti, è l'avvilente cover di "Temptation" dei New Order, brano che però riesce in un rarissimo miracolo: garantire notti insonni a chi l'ha scritta e far addormentare chiunque altro. Il ruggente, fresco elettropop di Sumner e soci diventa una ballata estenuante, moscia, inutile come l'Inno alla Gioia suonato al flauto dolce. Si direbbe uno di quei loffi trip-hop di cui il mondo si era riempito attorno alla metà degli anni 90, quando qualsiasi guitto cercava di sfruttare commercialmente, annacquandole, le intuizioni dei vari Massive Attack, Portishead e Tricky.
Vogliamo parlare, poi, di "Spiders"? Meglio di no: la distanza che dovrebbe separare anche la peggior canzone di Moby da un inno lobotomizzato in stile "Come Stai" di Vasco Rossi viene colmata, e non c'è speranza di ritorno.
Da questo piattume desolante riescono a salvarsi le sole "Hotel Intro", attualizzazione strumentale lievemente glitchata delle idee di "Play", e "Very", che recupera i beat sostenuti dei bei tempi che furono (lasciati a casa in occasione di "18"), ma in verità un po' poco per l'uomo che in passato ci aveva dato mini-leggende da club come "Thousand" e "Go", oppure anche "Bodyrock" se vogliamo considerare la sua carriera solo dopo la svolta di "Play".
Tutto il resto (ci tocca citare Califano, ci tocca!) è noia.
Se poi non dovesse essere stato sufficiente il disco "istituzionale", a darvi la mazzata finale ci penserà il cd bonus presente nell'edizione limitata. Si intitola "Ambient", ma non aspettatevi più di un interminabile polpettone fra new age, peggiori strumentali di "18" e musica da carrelli della spesa. Eno e Aphex Twin sono proprio lontani… Prova ne siano la crassa "Chord Sounds", o "Snowball", che vorrebbe essere Fennesz e invece è solo fetecchia, o ancora "Blue Paper", buona al massimo per sottolineare un momento poco importante di "C.S.I.".
In conclusione: date quei soldi in beneficenza, comprateci l'ultimo dei Daft Punk, fateci un regalino a vostra zia, spendete tutto in scimmie di mare, prendetevi la soddisfazione di accendervi una sigaretta con una banconota da 20 euro, ma per favore non comprate questo disco.
(19/04/2012)