Si chiamano dapprima Africa Corps, poi Savage Republic, eppure il loro sound ha in sé qualcosa di perversamente metropolitano, sarà per quei droni industriali di chitarre, per quei clangori da fabbrica infernale, che trasformano i loro raga in una nuova versione della danza moderna dei Pere Ubu. Una mistura originalissima, però, e incredibilmente "avanti" sui tempi, se si pensa che continuerà a influenzare nugoli di band negli anni a venire, dai Neurosis ai Calexico, passando per lo psych-rock neo-kraut di label come Kranky e Constellation e per post-rocker come i Godspeed You Black Emperor!, che si dichiareranno loro grandi fan. C'è chi (Barry Craig, aka A Produce) la ribattezzerà "trance californiana", chi si divertirà a elencarne tutte le componenti: post-punk/ arabic/ surf/ soundtrack/ folk/ noise/ music.
Fatto sta che all'epoca nessuno suonava così.
Nel 1982, a Los Angeles, Bruce Licher poteva già vantare un discreto curriculum di "non musicista", avendo fondato il collettivo industrial dei Neef e l'etichetta sperimentale Independent Project, con la quale aveva prodotto le sue tre prime incarnazioni: Projekt 197, Bridge, Them Rhythm Ants. L'approdo negli Africa Corps assieme ai tre sodali di college gli fornisce ora l'occasione giusta per puntare più in alto.
Cambiato nome per evitare fraintendimenti con un'altra band quasi omonima (gli Afrika Korps) e per recidere ogni legame con le mode filo-nazi del periodo, i nuovi Savage Republic si rinchiudono in studio per partorire il loro debutto.

L'incedere bislacco di "When All Else Fails?", col suo groove ossessivo di basso, mima una danza industriale attorno alle macerie del dark-punk britannico (Pil, Joy Division); "Attempted Coup" è un horror desertico, scandito dai tamburi e sfregiato da secchi riff di chitarra; "Ivory Coast" inscena un nevrotico beach-punk à-la X; "Next To Nothing" agita lo spettro della sempiterna Siouxsie tra una muraglia di percussioni roboanti. Ma è "Exodus" il vero tour de force di questa prima parte del disco: un mantra snervante, costruito su poche, spettrali frasi di chitarra reiterate all'infinito in un torbido clima da cerimoniale pagano, con la sezione ritmica, al solito, ostinata e devastante. Quasi un aggiornamento esoterico del kraut-rock (il drone è ripreso proprio dalla "Krautrock" dei Faust), affumicato dalle caligini industriali degli Einsturzende Neubauten.
Sulla seconda parte dell'opera, invece, troneggiano il post-punk tribale e minaccioso di "Procession" e "Real Men", con il cantato che si trasforma in un esagitato farneticare alla Lydon, e l'irresistibile marcia degli zombie di "Flesh That Walks", trascinata al galoppo da cadenze panzer-kraut e alternativamente rallentata con un'andatura spastica da post-hardcore.
Impreziosiscono il disco anche incisivi mini-lied sperimentali, da "On The Prowl", rumorosamente industriale, all'invettiva livida e dissonante di "Kill The Fascists!".
Nella ristampa sono stati inseriti anche i singoli usciti subito dopo la pubblicazione originaria del vinile: "Film Noir", una nenia catatonica alla Joy Division, col suo retro, "O Andonis" (da un tema "proibito" del compositore greco Mikis Theodarakis), quasi un western morriconiano, desolato e scurissimo, imbevuto di afrori mediorientali, più "Tragic Figure", un altro numero schizoide, tra feedback, urla e cadenze catacombali, accompagnato alla breve cerimonia tribale di "The Empty Quarter" e alla versione dal vivo di "Ivory Coast".
Tragic Figures è uno dei grandi capolavori nascosti degli anni 80, degnamente immortalato da una particolarissima copertina, frutto della collaborazione di Licher con un'antica stamperia. L'edizione originale del vinile poteva contare su testi in lingua araba e sulla numerazione a mano di ogni copia da parte dello stesso Licher.
I Savage Republic si conquistano una devota nicchia di adepti sotto il grande sole nero di Los Angeles celebrato nello stesso anno dagli X. Ma all'interno della band iniziano i primi attriti. Così Philip Drucker e Robert Loveless abbandonano, convergendo nei 17 Pygmies. E per tre anni nella Repubblica Selvaggia tutto tace.
Licher ed Erskine ci riprovano nel 1985, deponendo parte dell'armamentario industrial e virando verso una psichedelia etnica e atmosferica non meno affascinante. Subentrano Ethan Port alle percussioni, Greg Grunke alla chitarra e Thom Fuhrmann, potente bassista, profondamente influenzato dal sound di Joy Division, Echo and the Bunnymen, Wire e Barry Adamson (Magazine).
Questo rinnovato organico sforna l'Ep Trudge, che approfondisce il lato trance della band. Sono cinque brani di cui alcuni alternano esecuzioni lineari che si sviluppano in modo ripetitivo lungo un giro di basso, al quale si sommano la chitarra, la batteria e sporadici interventi vocali. Se la melodia e la varietà sono sacrificate, non si può dire lo stesso della carica evocativa e dell'impatto sensoriale di questi strumentali, ora narcotizzanti, ora sinistri e inquietanti.
I pezzi migliori, però, sono quelli che si sviluppano liberamente, come seguendo un filo narrativo: ad esempio "Siege", che, come da titolo, suona marziale e violentissimo, con la chitarra mai così epica e le percussioni che simulano prima una carica, poi dei clangori metallici; quindi "Trek", multiforme, minacciosa suite in crescendo, ispirata - per ammissione dello stesso Licher - da "Set The Controls For The Heart Of The Sun" dei Pink Floyd.

Il capolavoro assoluto è "Walking Backwards", una lunga rincorsa di chitarre in salita che ripetono un elementare riff senza concedersi un attimo per respirare. Un intermezzo atmosferico si insinua subdolo nella struttura del brano, ma la tensione resta così alta che quasi non viene percepito, al punto che l'orecchio si lascia trasportare dal continuum del pezzo, finché si chiude improvvisamente col riff di partenza. Tocchi di tastiere intarsiano le architetture solenni e splendide di "1,000 Days", dando un sapore gotico a un pezzo epico e pomposo di raro struggimento. È musica strumentale che non abbandona la componente rock nelle strutture e nelle atmosfere, suonando quasi sempre fisica e imponente; l'eccezione è il sipario di folk nordafricano di "Mediterranea". "Dionysius" è quanto di più vicino alla new wave britannica si possa trovare in questo album, con i suoi riff quadrati e ripetitivi alla Wire; i colpi sui piatti e gli stacchi solari del ritornello, però, portano i californiani in territori inesplorati dai gruppi inglesi.
Il secondo picco è la title track, un post-punk irto di pungolate di chitarra, costruito sulle linee di un basso funk particolarmente muscolare. L'incipit quieto e spirituale, suonato con armonici e scampanellii di chitarra, fa sprofondare in una pace interiore oppiacea, spezzata dall'attacco brusco del corpo della canzone.
Ceremonial è uno dei migliori album di rock strumentale di sempre, una possibile colonna sonora per un esodo tra terre inabitate, e soprattutto un disco che apre un'infinità di nuove strade, facendo propri i linguaggi del post-punk, delle soundtrack e della world music, senza perdere per un solo istante la compattezza e la personalità che in poco tempo Licher ha conferito al suo progetto. L'andamento cinematografico di alcuni brani della scaletta, inoltre, ricorda a posteriori le lunghe progressioni "su sedimenti" che saranno tipiche del post-rock, motivo in più per riscoprire quest'album di culto.
Nel 1987 esce Live Trek (1985-1986), che immortala dal vivo il primo repertorio, quello più latamente industrial, della band californiana.

Il titolo del disco ne suggerisce il tema portante: Jamahiriya è la Repubblica Popolare della Libia, ovvero il regime del colonnello Gheddafi; la musica contenuta nei solchi dell'album, infatti, è figlia dell'unione della spiritualità esotica associata ai paesi mediorientali e della natura percussiva e pomposa delle musiche militaresche. I pezzi richiamano il caldo insopportabile del Nord Africa e del Medio Oriente e gli infiniti spazi aperti del deserto, ma soprattutto rievocano la decadenza di antichi imperi che furono, ormai dimenticati mentre si sgretolano sotto il sole.
La traccia d'apertura, "So It Is Written", si snoda seguendo le variazioni del basso, come se incassasse delle cannonate, mentre la chitarra se ne sta sullo sfondo a ricamare arie etniche. "Spice Fields", epica e marziale, sfoggia un cantato a due voci, mentre il pezzo procede a singhiozzi grazie a uno dei ritmi di batteria più fantasiosi del loro repertorio, figlio illegittimo dei pattern ripetitivi e circolari di Jaki Liebezeit.
Fino a qui il gruppo non offre nulla di nuovo rispetto al suo passato: è la parte centrale, infatti, a riservare le sorprese più sostanziose; prima il post-punk omicida di "Viva la Rock'n'Roll", poi "Tabula Rasa", uno strumentale giocato su ticchettii e rumori indistinguibili in lontananza, in cui sembra non accadere nulla nonostante la tensione sia alle stelle. Il capolavoro del disco è "Il Papa Sympatico", una ballata lisergica attraversata da melodie trionfali di chitarra; da qui in poi i brani si fanno via via più coraggiosi, si passa da una soundtrack di un western ("Pios Den Mila Yia Ti Lambri") a un frenetico rituale sciamanico ("Mujahadeen"), concludendo con uno strumentale industrial/dub a un passo dal ballabile (la title track).
Il miracolo che i Savage Republic hanno compiuto con Jamhiriya è stato confezionare una scarica di brani memorabili e più facilmente assimilabili, senza rinunciare alla loro vena avanguardistica. Un perfetto biglietto da visita per avvicinarsi alla loro musica quindi, ma soprattutto una testimonianza di cosa è stato questo gruppo nel suo periodo migliore.
Il quintetto, ormai privo di Port, si reca poi in Grecia, dove in soli tre giorni, in uno studio in Tessalonica, partorisce il materiale destinato a vedere la luce nel nuovo album, che esce nel 1988.
Registrato con una produzione decisamente più accurata, Customs (con riferimento proprio alla dogana greca, che confiscò alla band l'intero equipaggiamento per questioni burocratiche) segna il canto del cigno della prima fase della Repubblica Selvaggia, ripartendo, paradossalmente dalle origini, da quella rabbia tribale che torna a incendiare questa raccolta di soundtrack desertiche e di assalti dell'era post-hardcore.
Si arricchiscono, in particolare, le influenze arabe e greche, con un più ampio ricorso a strumenti tradizionali ed etnici. Nascono così piéce di world-music ultraterrena (l'allucinazione mediorientale della splendida "Sono Cairo", le spezie mediterranee di "Song For Adonis", la trance arabeggiante di "The Birds Of Pork") che si vanno ad aggiungere a nuove scorribande noisy ad alta percussività, come la metallurgica "Sucker Punch" e l'impressionante "tributo" di "Rapeman's First Ep", che trasfigura in chiave onirica e "aliena" il terrorismo sonico di Steve Albini, in un'orgia di clangori, urla e feedback. Infine, nella "death valley" di "Archetype" confluiscono scorie kraut-rock e nebbie lisergiche stile primi Pink Floyd, a suggello della missione primigenia della band: una spericolata, avanguardistica operazione di aggiornamento della psichedelia e del kraut-rock al tempo del post-punk, della musica industriale e del noise-rock.
Customs è un degno epitaffio, che sembra chiudere ogni prospettiva futura alla band. Tanto più che i suoi musicisti continuano a dimostrare altrove tutto il loro valore: Erskine finisce dietro i tamburi negli Skinner Box in Arizona; Fuhrmann fonda gli Autumnfair con Val Haller (ex-Flying Lizard); Ethan Port suona con Scot Jenerik nell'act multimediale F-Space; Brad Laner si unisce ai Medicine e agli Electric Company. Infine, Licher celebra un decennio di attività multimediale con una mostra a Los Angeles, proseguendo la sua fortunata attività di grafico (riceverà anche una nomination ai Grammy per l'artwork del primo Lp dei Camper Van Beethoven) e di produttore discografico per la Independent Project, prima di iniziare la seconda fase della sua carriera, che lo vedrà protagonista negli Scenic con James Brenner (ex-Shiva Burlesque) e Brock Wirtz, e con l'apporto del fidato Robert Loveless.

Il successivo full-length 1938 esce pochi mesi dopo, integrando il materiale del mini-cd con nuovi brani inediti, frutto della nuova line-up: Thom Fuhrmann, Ethan Port, Greg Grunke, Val Haller e Alan Waddington (attivo anche con la popstar Gwen Stefani). Ne scaturisce un disco cupo, quasi un concept-album sui regimi totalitari (il 1938 è l'anno in cui Hitler fu nominato da Time "uomo dell'anno") e sui genocidi nel mondo. Dominano ancora una volta le percussioni e i loro tipici soundscape tribali, immersi in atmosfere angosciose e sconsolate.
I diciassette minuti free della torrenziale jam di "Caravan" riassumono tutti i trucchi del loro repertorio: i tamburi primordiali, il cupo rimbombo del basso e gli sfregi delle chitarre a tracciare la via, poi il drone mediorientale del violino di Julia Zuker che cattura l'immaginazione, mentre le percussioni crescono d'intensità in una terrificante trance dell'oltretomba. Come i Can trapiantati in un suk di Marrakech.
A dispetto di questo logorroico tour de force, gran parte del disco è invece incentrata su tracce brevi, a volte solo strumentali (la frenesia spastica di "Anemone", lo sketch freeform di "White Ginger", i clangori metallici di "Breslau"), mentre il brutale dark-punk di "Torpedo" offre uno dei pochi episodi vocali. Spiazzante, invece, il commiato di "Peking", un angoscioso bolero tirato allo spasimo sulle corde dello Yang Qin di Tara Tavi (una sorta di dulcimer cinese) fino all'esplosione finale.
Pur non esente da pecche, con alcuni momenti decisamente deboli e interlocutori, 1938 riesce a ridestare la classe di una band irriducibile, ancora in grado di far mangiare la polvere a tanti suoi giovani epigoni.
Nel 2008 i Savage Republic partecipano anche al cd-tributo a "Pornography" dei Cure uscito sulla fanzine francese Fear Drop, con una splendida cover di "Hanging Garden".
La lezione dei sultani della "trance californiana" è ancora tremendamente attuale e riemerge sempre, visionaria e palpitante, nelle imperdibili performance dal vivo, dove Fuhrmann, col suo volto intagliato dalle rughe e il suo ghigno demoniaco, ha ormai assunto il ruolo di carismatico frontman e dove, tra tamburi, lattine e bidoni di Repsol, l'ensemble di Los Angeles si conferma uno dei più implacabili "martelli" della storia del rock.
Il concerto del 30 gennaio 2010 al festival spagnolo Tanned Tin potrebbe però aver segnato l'epilogo definitivo della loro lunga saga: Fuhrmann ha infatti annunciato che la band è da considerarsi sciolta e che potrebbe riformarsi solo in caso di un ritorno di Bruce Licher.
Nel 2012, invece, il ritorno a sorpresa. Abbandonata ogni traccia gotica, dopo l’ottimo 7” “Sword Fighter-Taranto!” (pubblicato dall’italiana A Silent Place), si torna con Varvakios a guardare alla Repubblica Ellenica, messa in ginocchio dagli aspri contraccolpi della crisi economica e bersaglio facile di efferate manovre degli speculatori, che si sono divertiti a scommettere sul suo imminente crollo finanziario. Ethan Port e soci sono atterrati ad Atene il 13 febbraio 2012, all’indomani del voto parlamentare per il memorandum, accolti dai resti della battaglia consumatasi nelle strade che confluiscono in piazza Sintagma. Il disco è stato concepito, registrato e missato nei tre giorni successivi.
L’intro di “Sparta” è affidato alle voci e ai suoni catturati nel grande mercato all’aperto di Atene, chiamato appunto Βαρβάκειος (Varvakios); quando il poderoso basso e la familiare chitarra di Port fanno il loro ingresso, ha inizio una danza tribale lenta e carnale, scandita dalle percussioni e dalla voce cavernosa di Thom Fuhrmann. In seconda battuta, vi è lo stoner pulsante di “Hippodrome” che apre al violino esaltato di Blaine L. Reininger (guest star dell’album) e alla frenetica parentesi world music – dal sapore balcanico – della title track.
Con “Pigadi” si sconfina nell’avantgarde: un flusso di distorsioni chitarristiche e pelli ridondanti che si collocano a metà strada fra il raggiungimento della tregua e il nefasto annuncio di una nuova rappresaglia. I field recordings che introducono “Kara”, tra i brani più interessanti e riusciti dell'album, si dissolvono in un richiamo a una new wave meticcia, in quanto contaminata dal fervore primitivo che contraddistingue il tocco percussivo di Alan Waddington.
“Poros” è una nuova immersione nelle acque della world music virata a etno-folk, il cui protagonista è nuovamente l’arco di Reininger, pregno, per l’occasione, di una malinconia che si propaga nella desertica “For Eva”. “Anatolia” è l’ultimo salto nelle vorticose atmosfere art-rock, di chiara derivazione punk, che hanno fatto dei Savage Republic un incontrastato colosso musicale.
Seppur con qualche cessione a un prevedibile manierismo, Varvakios è comunque il risultato di un’idea concepita e partorita in tempi davvero strettissimi, ma soprattutto fortemente sentita da tutti i componenti della band, nonostante la storicità della stessa si basi fondamentalmente sulle figure di Port e Fuhrmann.
Contributi di Davide Tucci ("Varvakios")