Nel 1995 al popolo con il rock si può fare ben poco; o il popolo può fare ben poco con il rock nel 1995. Jesus Lizard e Fugazi non sono per il popolo; o non sono rock.
Quello dei Jesus Lizard e dei Fugazi è post-rock o post-grunge significativo; quello del 99% dei gruppi di musica leggera post-'91, nel migliore dei casi e ad essere comprensivi, base-standard-rock rinfrescata da qualche storia da raccontare o certi stati particolari da rendere.
Quello che hanno fatto i No Doubt non rappresenta né più né meno che un esempio o applicazione di quanto detto. Antropologicamente parlando, una volta stabilitasi la struttura fisica dell'homo sapiens sapiens, i vari individui di tale specie che seguono e mantengono lo standard raggiunto sono nient'altro che variazioni sul tema. Di seguito l'esposizione della variazione, neanche minimamente teoretica, pur sentimentalmente toccante, No Doubt.
Il complessino in questione va inteso come il cantore o l'evocatore di quello stato di calura pomeridiana, svagato da afflati adolescenziali e merende fugaci, così caro a certe campagne americane, specie della California del sud. La parola rock per rendere certe dinamiche è troppo grande e troppo piccola al contempo; comunque, e per primo storicamente, inadeguata; va messa in uno stanzino e sostituita con "belle parole" che per quanto inutili o fuori tema lo sono solo ed esclusivamente quanto il fenomeno di cui trattano rispetto al rock; fenomeno di cui così finiscono per rendere l'idea nel miglior modo possibile.
Pomeriggi e avventure infantili dunque; tutto indefinito e tutta speranza trasognata; ingenuità e sensibilità: continente americano soprattutto, con le sue campagne, i suoi agricoltori e i furgoni di questi, tra frutti, ortaggi e marmellate; garage di legno bianco saturi di penombra. Qualche zanzara e cicala nel notturno estivo e siamo quasi a posto - dicono, non io, ma i No Doubt. Infine, per essere conditamente a posto, data l'età che, per quanto ricordi e si fissi verso altre ore, è condannata tuttavia al dopo adolescenza, va incorniciato il tutto da uno stato nostalgico/commovente che riflette, e per unico scopo catartico richiama a sé, su i momenti per sempre conchiusi e salutati dal diventare in certa misura adulti, diventare costipato dalla presa di coscienza delle varie brutture terrestri e dalla caduta delle emerite illusioni e fedi. Un trasporto di sdolcinatezze, piccolezze, stati di amori delicati e ingenuamente puerili, un trasporto chiaroscurato (talora terrorizzato) dalla necessità civile che se non deturpa del tutto, in definitiva offusca, rattrista, pone la fine dei giochi; ma proprio per questo rende tanto più cari e affascinanti quelli. La sensibilità è poi grandemente femminile, soprattutto con uno spirito del primo amore sempre volteggiante in quest'aria tutta luna di miele in senso letterale.
Il capolavoro dell'appena detto vide la luce nell'ottobre del 1995. S'intitolava Tragic Kingdom. Contagiò piano piano e quasi magicamente, incuneandosi tra gli interstizi lasciati vacanti del mercato discografico, svariati milioni di persone in tutto il mondo. Si presentò a tali milioni come uno dei primi prodotti di largo consumo marchiati America dopo la sfuriata grunge.
Il modo della resa del suesposto non poteva essere che una mistura di ska-punk (Red Hot Chili Peppers, Operation Ivy), folk (Violent Femmes), club/dance-punk (Blondie, Cars) college-pop-rock (B'52s, Fleetwood Mac, Cavedogs, Cud, Joe Jackson), soul-pop (Carole Bayer Sager, Belinda Carlisle, Sam & Dave), grunge-pop (Blind Melon, Sugar Ray), proprio a dimostrare che la musica è l'ultima cosa a contare. La dimensione infantile viene di forza dall'indie; quella più surf e rock'n roll dall'America sudista anni 50 - inizio 60 (Bill Haley, Platters, Buddy Holly, Beach Boys), riletta, senza tuttavia neanche sfiorare quei sommi risultati, con un certo qual esistenzialismo post-punk/new wave da inizio 80 che fu marchiato da uno stravagante e intelligente rock'n roll revival (Magazine, Pretenders, Gang of Four, Cheap Trick).
Al canto una voce femminile, Gwen Stefani, agile dal soul al punk senza perdere quell'intonazione tra ragazza difficile e sensibile che la rende unica (e che le viene, passando per Siouxsie Sioux, dalle maestre compatriote Cervenka degli X, Kat Arthur dei Legal Weapon e dalla patrona di tutte: Grace Slick dei Jefferson Airplane) sorretta da un discreto pur nella totale dinamicità e tecnico ensemble di basso (il fidanzato "storico", l'indiano d'Oriente Tony Kadal), tastiere (il fratello della stessa Eric Stefani), chitarra (Tom Dumont), batteria (Adrian Young).
Quattordici brani, 60 minuti. E quello spirito già illustrato, va ammesso, non viene, straordinariamente, quasi mai a mancare nella pur troppo lunga opera. "Spiderwebs" è una sorta di reggae-metal ballabile (grazie alla batteria punk) alla Sugar Ray: Stefani, ora Madonna di "Erotica" ora ragazza-punk, coinvolge subito e dimostra una volta per tutte di valere (come Dolores O'Riordan e tante altre) molto più di quello che canta.
"Excuse Me Mr." aumenta la velocità di esecuzione, ora costantemente spericolata; il gruppo dietro Stefani più che da complesso rock suona da orchestra cabarettistica richiamando con le dovute proporzioni le performance di Jerry Lee Lewis. Tuttavia è solo un espediente che può, tramite un ascolto-sordo, essere tranquillamente messo in parentesi a vantaggio tutto del contenuto "esistenzialistico", una variante (tragica) dello stesso di cui abbiamo già parlato.
"Just A Girl" tra lenti e (mai meno) velocizzazioni ska-punk continua verso la linea della commozione: quella della morte (o l'amore) vista dagli occhi fantasmagorici di una bambina. Il "tragic" del titolo è ampiamente e raffinatamente giustificato. Il raffinato, poi, tutto dovuto all'ambientazione e punto di vista innocentemente infantile.
"Happy Now?" mostra un'ora della stessa storia in altre (e gradevoli) vesti ritmiche. Come se chiamasse a se tutte le ore di pieno meriggio di tutte le ragazze (perché è musica squisitamente femminile se non, positivamente, femminista) del mondo per un trasognamento comune, tanto più prezioso quanto velato di turbamento: tanto più dolce il sorriso con le lagrime dietro, sarebbe da dire, se non che qui l'amarezza finisce, in definitiva, per far prevalere un perenne amarognolo. Gran finale nel senso di inaspettato (per il cambiamento di ritmo e melodia) che alla domanda del titolo risponde "meglio di no: comunque, se non si è toccata, almeno si è vista, la felicità". "Different People" pur non dispiacendo passa discretamente inosservato.
"Hey You" torna a sonorità garage, sebbene con ritmi sincopati non propri del rock, che finiscono, nonostante i volumi, a ridurlo a un pop-reggae di derivazione Police. "The Climb", con tutti i suoi 6 minuti, è degno dei vertici (e vertigini) iniziali qui veramente esasperati sino a un intenerimento tragico mai brutale, sempre afflitto da bianco-nausea, a cui si deve compassione e partecipazione (con tutta la sua semplicità e ingenuità che tuttavia con garbo riesce a scappare dalla magniloquenza). I brani che esaminiamo devono stare in quest'album e nell'ordine in cui sono; a costituire una storia irripetibile e irriassumibile di stati d'animo peculiari alle campagne agricole e ai villaggi di agricoltori e fast-food americani. Scioglierli da tale catena significa irrimediabilmente togliere loro senso e ossigeno (vista l'insufficienza artistica già giustificata).
"Sixteen", volumi alti, tastiere che tengono un tempo-raggae, poi urla dance-music tra batteria-punk; una tromba sparuta a rievocare (tra blu abbaglianti quanto i gialli del sole) il caldo (in odor di Messico) degli isolati californiani a mezzogiorno. Dal vivo, in brani come questo, Stefani suda molto agitandosi in tutti i modi: tra lo ska, il punk, la dance tutti ballano e tutti sono (ammesso per poco) d'accordo. Lo stato di notte-giorno, sudato-asciutto, grazia-dannazione accompagna ogni momento dell'esecuzione del presente come di tutti i pezzi.
"Sunday Morning" rivuole la palma di "The Climb" e dei brani iniziali; siamo nella saga della saga; la ragazza dà anima e corpo per raccontare il suo moto d'animo. Va profusa ammirazione per tanta sensibilità per di più, ripetiamolo, facente della musica un sottofondo al pari dei gruppi vocalici anni 60 (ed è questo che piace alla gente, ed è pop; da qui l'immediatezza e la non-musica intesa come fine a se stessa). Il finale richiede un altro saggio cambiamento di tempo lievemente rap-metal.
"Don't Speak" fu il grande singolo dell'epoca (per i dotti: uscì come terzo estratto dall'abum e il video su Mtv fece breccia, filmando nient'altro che quell'America "casolare" che ho cercato di illustrare). Come ogni brano dell'album, appare inaspettato, seguendo ogni brano, pur nella mistura continua dei medesimi, un genere diverso. Qui siamo nella ballata esistenzialistica e nichilistica folk/post-grunge. Può sapere di "Don't Cry" ma va bene così.
"You Can Do It" rifà il verso alla dance music anni 70, spiazzando (e non annoiando) ancora una volta l'ascoltatore. Data la spericolatezza del cambiamento di genere, sarebbe stato tropo riuscire a rendere quei sentimenti che caratterizzano tutto l'album; per cui se al brano viene istintivo dare meno carattere e valore si deve solo a questo; che non è altro ciò che si è sempre sostenuto: tolta la storia d'anime e d'amicizia, a questa musica non rimane che musica fine a se stessa (rumore preconfezionato e standard).
"World Go' Round" tra Jamaica e Western ritrova tematicamente i No Doubt pienamente se stessi; e noi, ci ritroviamo, su di una staccionata da rodeo nei giorni feriali. Nella vita quotidiana cioè di questi quattro ragazzi e questa ragazza, uniti a gruppo, con lo scopo di maternamente appoggiarsi a vicenda, forti dell'influenza della meraviglia del loro contestualizzatissimo mondo. Contestualizzatissimo: l'allargarsi alla Russia o alla Grecia che significa, che queste sono un po' America o viceversa o che a queste piace estraniarsi o cosa?
"End It On This" sembra che i No Doubt se la siano dedicata soprattutto a se stessi e non tanto l'abbiano (generosamente?) pensata per l'eventuale fruitore di sentimenti simili. Una delicata scorribanda per la vicendevolezza dei cuori e dei rapporti tra i cinque. "Tragic Kingdom" è il brano più cupo e apocalittico della raccolta. Canzone di chiusura sembra il cantico del pre-fine del mondo; quel mondo fragile, micro, incontaminato se non dall'interno (per volontà quindi). Il ritmo evoca ansietà, spaura; Stefani va in acuti mai così sforzati. Un assolo metal di chitarra alla Iron Maiden.
I No Doubt hanno una band-history lunga quanto quella di un'amicizia lunga una vita. Formati del 1987 dallo ska-punk John Spence, il lutto che accompagna il loro esistenzialismo non viene biograficamente dal suicidio di questi, ma da uno stato ancora più profondo e connaturato, come il paesaggio che riempiva i loro occhi da piccoli. Li riempiva perché, dal primo album (No Doubt, 1992) sono approdati (Return Of Saturn, 2000; Rock Steady, 2001)a una world-music che tra rap, techno e reggae non sa di niente avendo rinnegato (Stefani è la compagna del cantante dei Bush; il gruppo una srl come tante altre) quel tutto di Tragic Kingdom; avendo chiuso la porta dello scantinato, lasciati i campi di mais e le strade sterrate, i sentimenti piccoli per nessuno grande. "Son tutti belli i bimbi del mondo". I grandi pochi. I No Doubt avranno, al massimo, lasciato (nelle loro contrade) il posto ad altri bimbi. Ed è meglio così, del loro posto, almeno, non hanno sciupato niente e nel nostro (Europa) non sono attaccati.
Nel 2004 Gwen Stefani ha pubblicato Love, Music, Angel, Baby, bissato due anni dopo da The Sweet Escape.
Sono passati quasi sei anni da allora, Gwen Stefani si è dedicata alla famiglia, è stata il più possibile lontano dal jet-set e probabilmente ha pensato a quale escamotage utilizzare per calcare nuovamente le scene senza subire l’inevitabile pressione cui ogni popstar va incontro nel momento dell’atteso ritorno. E quale idea migliore di rimettere in piedi il suo gruppo, salvando in un colpo solo i suoi vecchi amici dall’oblio e le sue multimilionarie quotazioni in caso d’insuccesso? Di una cosa le va dato atto, però: nonostante l’inaspettata mossa un po’ codarda, questo Push And Shove è davvero il nuovo album dei quattro No Doubt, con ben poco di nuovo da raccontare e i loro soliti difetti, e non un disco solista della Stefani mascherato. E chissà, magari questa è davvero la veste che lei sente più calzante.
Evitata quindi come la peste qualsiasi concessione alle ritmiche disco o all’r’n’b più modaiolo, si torna al rockettino elettrificato e adolescenziale dei tempi che furono, ben prodotto ma con una dolciastra e un po’ impacciata atmosfera da ritrovo coi compagni del liceo che aleggia su diversi pezzi (soprattutto “Gravity” e “Heaven”). L’irruenza ska degli esordi stemperata per lasciare giusto un po’ di spazio a sonorità pseudo-reggaeggianti (nel primo singolo “Settle Down”, un po’ sottotono, e nella morbida “Sparkle”), già sviscerate in passato e che, solo nella title-track, i quattro cercano di colorare maldestramente, nonostante l’aiuto di un peso massimo della consolle come Diplo, con spruzzate dubstep (un vezzo che pare ormai irrinunciabile nelle recenti produzioni mainstream). La festicciola riesce a mantenersi briosa grazie a “Looking Hot” e “Undercover”, due graziosi pezzi di pop propulsivo che avrebbero funzionato discretamente anche sul lato B di “L.A.M.B.”, ma diventa clamorosamente noiosa sui brani più lenti (non è più tempo di pomiciate sui divanetti). Se la tua band si chiama No Doubt, una “Don’t Speak” (ruffiana quanto si voglia ma innegabilmente funzionale) la si realizza solo una volta nella carriera, e infatti pezzi come le corpose “One More Summer” e “Undone”, intrise di quella prevedibile retorica da ballatona californiana, non riescono nemmeno a sfiorarne la leggerezza radiofonica. “Easy”, fosse stata più scarna, poteva sembrare addirittura una ballad di Kylie Minogue, e sarebbe stato meglio.
Una popstar che rinuncia al suo status per riformare il vecchio gruppo: qualcosa a metà tra la trama di uno sdolcinato tv-movie pomeridiano e un vago smacco all’industria discografica pre-confezionata. Considerati però i risultati attuali (non proprio memorabili) e quelli passati, ci si chiede con sorpresa se Gwen Stefani non avesse fatto meglio a seguire, anche stavolta, il suo portafogli anziché il suo cuore.
Contributi di Stefano Fiori ("Push And Shove").
NO DOUBT | ||
No Doubt (Interscope, 1992) | 5 | |
Tragic Kingdom (Interscope, 1995) | 6 | |
Return of Saturn (Interscope, 2000) | ||
Rock Steady (Interscope, 2001) | 3 | |
Push And Shove (Interscope, 2012) | 5,5 | |
GWEN STEFANI | ||
Love. Angel. Music. Baby. (Interscope, 2004) | ||
The Sweet Escape (Interscope, 2006) | ||
This Is What The Truth Feels Like (Interscope, 2016) |
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